mercoledì 15 maggio 2019

La Chiesa e il Vaticano. La carità a spese degli altri? Le falsità su case, Imu e aiuti - Lo stipendio del Papa e i soldi della Chiesa

La Chiesa e il Vaticano.
La carità a spese degli altri?
Le falsità su case, Imu e aiuti

Non solo le polemiche sul gesto dell'elemosiniere. Puntuali come sentenze sono arrivati anche i contrattacchi sulla Chiesa ricca che predica a spese degli altri: ecco i luoghi comuni da sfatare


Non ci sono solo le polemiche sul gesto del cardinale Konrad Krajewski. Puntuali come sentenze sono arrivati anche i contrattacchi sulla Chiesa ricca che predica a spese degli altri. Il tutto naturalmente facendo leva su dati gravemente inesatti. Si prenda ad esempio il titolone di ieri in prima pagina di Libero: «La Chiesa in Italia possiede 115mila case e non le dà ai rom».

Poi vai a leggere l’articolo e ci trovi tutti, ma proprio tutti, i luoghi comuni falsi che da sempre accompagnano questa materia. Prima di tutto la confusione tra Vaticano e Chiesa in Italia.

Nel testo, infatti, le 115mila case vengono attribuite al primo e si dice che equivalgono al 20 per cento dell’intero patrimonio immobiliare italiano. In un altro passaggio poi si sommano anche gli immobili della Chiesa all’estero. Insomma un pasticcio. Vediamo di mettere ordine: la Città del Vaticano è uno Stato estero, distinto dalla Chiesa cattolica che opera in Italia a diversi livelli: Cei, 226 diocesi, 25mila parrocchie, centinaia di congregazioni religiose maschili e femminili. 
Non tutto è del Vaticano, né è vero che il patrimonio immobiliare della Chiesa (se anche si volessero sommare tutti i tipi di proprietà) consta di 115mila case. In questo patrimonio rientrano infatti le 70mila chiese di proprietà ecclesiastica e altri tipi di immobili (conventi, sedi di istituzioni culturali come i musei, locali adibiti già a servizi di carità e assistenza ai poveri), che 'case', nel senso di appartamenti di civile abitazione, non sono.

I dati veri dicono che l’Apsa, l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, oggi possiede 1800 appartamenti a Roma e a Castel Gandolfo e 600 tra negozi e uffici. Circa il 60 per cento di questi appartamenti è affittato ai dipendenti vaticani a canone fortemente agevolato. Numeri assai lontani da quelli sbandierati nell’articolo.

Secondo luogo comune da sfatare. La Chiesa può contare su mille agevolazioni per non pagare le bollette, dice l’articolista. Altra notizia chiaramente falsa. Bollette, Imu e altre tasse la 'Chiesa', a tutti i livelli, le paga eccome. Per il patrimonio succitato il Vaticano nel solo 2018 ha versato nelle casse del Comune di Roma 5,4 milioni di euro per l’Imu e 338mila euro per la Tasi. Fuori Roma sono stati pagati 164mila euro, mentre l’Ires ha inciso complessivamente per 3,3 milioni di euro. In totale fanno 9,2 milioni di euro. Ai quali va aggiunta l’Imu pagata, diocesi per diocesi, quando non scattano le esenzioni previste dalla legge, che – si badi bene – non riguardano solo la Chiesa cattolica, ma tutto il mondo del non profit.

Infine il luogo comune del 'portateli a casa vostra' o dell''aiutiamoli a casa loro'. Due cose che la Chiesa fa da tempo e in silenzio. Sommando le bollette pagate in tutta Italia a favore dei poveri dalle Caritas diocesane e parrocchiali, verrebbero fuori centinaia di migliaia di euro ogni anno.




Lo stipendio del Papa e i soldi della Chiesa

Quanto guadagna un Pontefice? A che serve l’Apsa? In un libro la risposta a queste e altre domande


Pubblichiamo un estratto dal libro «I soldi della Chiesa. Ricchezze favolose e povertà evangelica» di Mimmo Muolo, vaticanista di “Avvenire” (Edizioni Paoline, pagine 200, euro 12,75). 
Il volume è stato presentato al Salone del libro di Torino. All’incontro, moderato da Alberto Chiara di “Famiglia Cristiana”, hanno partecipato, insieme all’autore, Leonardo Becchetti e Giulio Tremonti. 


Il Papa ha uno stipendio? In effetti, se si pensa che il pontefice ha pure il ruolo di capo dello Stato, non ci sarebbe nulla di strano. Anche il presidente della Repubblica italiana e la regina Elisabetta hanno un loro appannaggio. Per la figura del Papa, invece, nulla di tutto questo. Egli è, come abbiamo visto, formalmente un monarca assoluto. Tutto è suo, dunque, ma nulla gli appartiene. Il distacco evangelico dai beni mondani si manifesta anche in questa forma. Il Pontefice ha tutto quello che gli serve per il proprio sostentamento e per la propria missione, ma niente – neanche un centesimo – si può considerare di sua proprietà. Prerogativa, questa, che non è certamente solo di Francesco, ma appartiene anche a chi lo ha preceduto. Basti pensare al testamento di Giovanni Paolo II e al fatto che, ad esempio, Benedetto XVI, autore di libri da milioni di copie vendute in tutto il mondo, ne abbia lasciato tutti i proventi alla Santa Sede. (...)

L’Apsa Eretta da Paolo VI con la Costituzione apostolica Regimini Ecclesiae universae del 15 agosto 1967, l’Apsa (acronimo che, come già ricordato, sta per Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica) ha il compito di amministrare i beni di proprietà della Santa Sede e quelli ad essa affidati da altri enti della Santa Sede, destinati a fornire fondi necessari all’adempimento delle funzioni della Curia Romana. Dal punto di vista storico, questo organismo affonda le radici nelle vicende legate ai profondi cambiamenti innescati dalla presa di Roma nel 1870.
La copertina del libro di Mimmo Muolo

Ma ha subito modifiche anche dopo il 1967, l’ultima in ordine di tempo proprio a opera di papa Francesco. In principio fu Leone XIII nel 1878 a nominare nella persona del suo segretario di Stato, il cardinale Lorenzo Nina, un amministratore del patrimonio rimasto alla Santa Sede dopo la breccia di Porta Pia. Cinque anni più tardi lo stesso Papa della Rerum novarum costituì una Commissione di porporati per sovrintendere con voto consultivo all’amministrazione dell’Obolo e del patrimonio della Santa Sede. E nel 1891 affidò a questa Commissione la diretta amministrazione dello stesso patrimonio, estendendola a tutti gli altri rami e affari economici direttamente e indirettamente connessi. Fu poi Pio XI, dopo i Patti Lateranensi, a disporre una riforma che sostanzialmente divise il dicastero in due sezioni: quella Ordinaria, che adempiva i compiti prima riservati all’amministrazione dei beni della Santa Sede, e quella Straordinaria, che aveva lo scopo di gestire i fondi versati dal governo italiano alla Santa Sede in esecuzione della Convenzione finanziaria allegata al Trattato del Laterano dell’11 febbraio 1929.

La Convenzione finanziaria, infatti, prevedeva un risarcimento di 750 milioni di lire dell’epoca a beneficio della Santa Sede, oltre alla consegna di azioni di Stato consolidate al 5% al portatore, per un miliardo di lire in valore nominale. Parte di questi soldi servì a costruire i nuovi palazzi nello Stato da poco costituito; parte fu destinata all’acquisto di immobili da mettere a reddito; parte fu utilizzata per investimenti finanziari. Si chiudevano così, anche sotto il profilo economico, le questioni sorte dopo la breccia di Porta Pia, ma pure precedentemente con l’incameramento dei beni degli enti ecclesiastici, soprattutto religiosi, a causa delle cosiddette «leggi eversive ». È comunque bene ricordare, solo per spirito di verità (e senza nessuna nostalgia revisionista riguardo al potere temporale), che il valore dei beni incamerati dal nascente Stato italiano in tutta la Penisola superava enormemente quella cifra. Vi ritorneremo parlando dei beni dei religiosi.

Non solo. Anche prendendo esclusivamente in considerazione le cifre previste dalla legge delle Guarentigie del 1871 e mai pagate, perché quella legge unilaterale dello Stato italiano non fu riconosciuta dalla Santa Sede, l’Italia con quella Convenzione ci venne a guadagnare. Lo ammette del resto lo stesso preambolo della Convenzione finanziaria, laddove è scritto che la somma pattuita come risarcimento « è in valore di molto inferiore a quella che a tutt’oggi [cioè al momento della stipula, l’11 febbraio 1929, nda] lo Stato avrebbe dovuto sborsare alla Santa Sede medesima anche solo in esecuzione dell’impegno assunto con la legge 13 maggio 1871 » (la legge delle Guarentigie, appunto). Oggi, bisogna riconoscerlo, su questi temi il dibattito si è notevolmente sopito. Ma per molti decenni del secolo scorso il confronto è stato segnato da ripetute polemiche. In merito è bene comunque ricordare che la presenza, al centro della Penisola, di uno Stato enclave come la Città del Vaticano è per l’Italia una grande risorsa. E non certo un problema economico.

Si pensi, ad esempio, a quanti punti di Pil italiano equivalga la « cattedra » del papa, dal momento che essa di fatto contribuisce a un indotto che comprende turismo, ristorazione, alberghi, trasporti, commercio e molti altri settori. Dell’Apsa si parla molto meno che dello Ior. Ciò dipende dal fatto che si tratta, in gran parte, di un servizio interno. Tocca infatti all’Apsa curare gli investimenti finanziari per i dicasteri della Santa Sede e il Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, seguendo un codice etico rigoroso. Nessun privato, ma anche nessun ente esterno al Vaticano, comprese le diocesi o gli istituti religiosi, può avvalersene. Spetta anche all’Apsa curare la manutenzione dei plessi che ospitano i dicasteri della Santa Sede e affittare gli immobili (appartamenti e negozi) di proprietà. Non è un patrimonio immenso: si tratta di circa 1800 appartamenti a Roma e Castel Gandolfo e di 600 tra negozi e uffici. Circa il 60% degli appartamenti è affittato ai dipendenti vaticani a canone fortemente agevolato.
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