venerdì 5 aprile 2019

Ucciso «perché era felice» - L'invidia della felicità - Interventi di Massimo Recalcati. Massimo Gramellini e Marina Corradi

Ucciso «perché era felice» 
L'invidia della felicità 
Interventi di Massimo Recalcati,
Massimo Gramellini e Marina Corradi


Said Machaouat            Stefano Leo


Svolta nel caso di Stefano Leo, il 34enne ucciso a Torino lo scorso 23 febbraio. Si costituisce un 27enne e svela un movente sconvolgente: l’ho accoltellato perché mi sembrava felice e non sopportavo la sua felicità.

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Servizio TG2000


L’invidia della felicità 
di Massimo Recalcati

La dichiarazione rilasciata alle forze dell’ordine di Torino dall’assassino di Stefano Leo immediatamente dopo la sua consegna spontanea lascia sconcertati: nessun movente se non la felicità di uno sconosciuto. È a causa di questa felicità che la sua mano si è armata di un coltello e ha sgozzato la sua vittima sconosciuta. «L’ho scelto tra tutti gli altri perché mi sembrava avesse una vita felice», queste le poche parole con le quali egli ha provato a spiegare il suo folle gesto. Avrebbe forse potuto ottenere in questo modo un po’ di luce mediatica? Di fatto nessun rapporto, nessun dissidio, nessun rancore, nessuna rivendicazione sospesa tra il killer e la sua vittima. Nemmeno nessuna voce allucinata che avrebbe ordinato il passaggio all’atto. Solo due giovani uomini sconosciuti l’uno all’altro dove uno dei due decide di togliere la vita al suo simile perché apparentemente più felice della sua. Due uomini di fronte ad uno specchio tragicamente beffardo?
La vita dell’omicida a rotoli, in una crisi che avverte come priva di ogni possibilità di riscatto: separazione dalla moglie, impossibilità di vedere il proprio figlio, assenza di lavoro, solitudine. Quella dell’assassinato una vita sconosciuta la cui sola colpa era quella, appunto, di sembrare più felice di altre. Questa la scena del crimine. L’invidia il suo unico movente. Mentre l’odio risponde al conflitto amico-nemico, all’antagonismo tra differenti, tra radicalmente e irriducibilmente diversi, l’invidia implica una prossimità promiscua tra l’invidioso e l’invidiato. Non si invidia chi non appartiene al nostro mondo, ma solo chi è come noi, non troppo diverso da noi, ma più fortunato di noi, più ricco di noi. Mentre l’odio si presta ad essere cavalcato politicamente, ad armare la mano contro lo straniero, contro l’antagonista, contro il difforme, l’invidia anima più subdolamente il risentimento contro chi essendo come me ha (immeritatamente) più di me. L’invidia è sempre cieca perché colpisce chi come noi ha più di noi. Non è mai invidia di qualcosa, non è tanto invidia di qualità o di proprietà. Se spingiamo l’analisi del sentimento invidioso a fondo, come oggetto dell’invidia non troveremo altro che la vita stessa. L’invidia è sempre, come sosteneva anche Lacan, invidia della vita, della vita dell’altro che ha più vita della mia. Non si può, ovviamente, avere invidia della vita misera, depressa, spenta. L’invidia è sempre invidia della vita felice, è sempre invidia della vita piena. La colpa innocente del giovane uomo assassinato nel mucchio era probabilmente quella di sorridere, di avere nel suo viso più luce di altri. La disperazione dell’invidioso non può, infatti, sopportare la ricchezza della vita degli altri, soffre impotente e tristemente, come ricordava Tommaso d’Aquino, per il bene altrui. Viviamo in un tempo che alimenta costantemente l’invidia al posto della lotta e del conflitto contro le ingiustizie. L’invidia ha preso il posto della critica sociale e della giusta domanda di riscatto, talvolta penetrando nella stessa dinamica politica con effetti disastrosi; privatizzando il conflitto, rendendolo senza finalità, promuovendo la distruzione fine a se stessa alla lotta per l’emancipazione. Nei social come nelle nostre strade chi sa ancora sorridere rischia di essere bersaglio dell’invidia degli altri esclusi dalla ricchezza della vita. Ma l’invidia rovina innanzitutto la vita dell’invidioso, quando non quella di chi è solamente colpevole di saper ancora sorridere alla vita.

(Fonte: La Repubblica - 2 aprile 2019)

Ucciso «perché era felice». 
La tragedia dei Murazzi
di Marina Corradi

C’erano due ragazzi. Il 23 febbraio scorso camminavano lungo il Po dei Murazzi, a Torino. Non si erano mai visti. Uno, Said Machaouat, 27 anni, nato in Marocco, cittadino italiano, era da poco tornato dal suo paese d’origine. Anche l’altro, Stefano Leo, biellese, 32 anni, era reduce da un lungo soggiorno in Australia. Due estranei che si venivano incontro lungo il Po. Stefano si godeva la prima aria di primavera. Lavorava come commesso, aveva tanti amici e una famiglia. Aveva la faccia di un uomo giovane e contento.

Said invece era colmo di rabbia e di dolore. Fino a qualche mese prima aveva una donna, un figlio, un lavoro come cameriere. Lei lo aveva abbandonato e il mondo di Said era di colpo franato: perso il lavoro, persa la casa, da gennaio dormiva fra i senzatetto, mangiava alle mense dei poveri. Quel crollo aveva sconvolto in lui qualcosa di profondo. Sentiva delle voci, sentiva crescersi dentro una sconosciuta ferocia. Quel mattino aveva comprato dei coltelli, e aveva tenuto nel giubbotto il più affilato. E camminava, osservando chi gli veniva incontro. Non sapeva chi cercava, e nemmeno perché. Ma quando si trovò davanti il ragazzo dal passo sportivo e la faccia sorridente, seppe di avere scelto.

La mano d’improvviso afferra il coltello e colpisce alla gola. È un istante. La vittima, attonita, fa qualche passo per chiedere aiuto, e crolla a terra. L’assassino fugge. Stefano Leo muore lasciando famiglia e amici increduli: perché mai lui? Forse, al momento, nemmeno Said lo sapeva. Aveva nascosto il coltello, nel dubbio di volerlo usare ancora. Girava come un randagio tra mense e notti all’addiaccio, inseguito dalle voci, dentro. Finché domenica si è consegnato ai Carabinieri. Un barlume di lucidità: «Ho capito che potevo farlo ancora».

Ma perché quello sconosciuto, gli hanno chiesto. «Perché aveva un’aria felice. Non sopportavo quell’aria felice. Volevo togliergli tutte le sue promesse, la sua famiglia, i suoi parenti».

Una motivazione da brividi, ha detto il procuratore capo di Torino Paolo Borgna,

...

Nessuno è un’isola, ci dice la tragedia dei Murazzi. Il male, la follia, l’indifferenza, la mancanza di qualsiasi mano amica possono disfare gli uomini, annichilirli e farne un deserto, in cui voci oscure prendono il comando. Accade più spesso in tempi di crisi e affetti deboli, in tempi di migrazioni che sradicano. Anche se Said avrebbe potuto venire da una famiglia italiana. Quanti italiani oggi dormono sotto i portici delle nostre città, dopo aver perduto tutto. C’è chi chiede aiuto, chi affonda nell’alcol, e chi è catturato dalla mano adunca del rancore. Di una livida invidia: fino a cercare la faccia di un uomo felice, per trascinarla nel proprio abisso.

Una infinita pietà per il ragazzo felice dei Murazzi. E un po’ anche per l’altro, il fallito, il reietto solo con le sue voci nemiche, che ha scelto per la sua vendetta un innocente. Drammatica riprova che davvero nessuno vive per sé solo, ma tutti siamo insieme, nelle nostre città distratte e inospitali.
Il male cammina per le strade e può legare misteriosamente vite fra loro ignote, può esplodere come una mina sotto ai piedi di un bambino. Solo una larga reciproca misericordia, una concreta carità potrebbero proteggerci dall’odio che cova, in silenzio. Forse dovremmo anche noi guardare più attentamente le facce degli altri. E almeno pregare, per il buio di certi occhi. Come per un fratello: giacché questo siamo veramente.

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L’assassino della felicità
di Massimo Gramellini

L’uomo che ha ucciso un passante nel centro di Torino dice di averlo fatto perché l’altro gli sembrava felice. È il gesto aberrante di un individuo perduto, però evidenzia una condizione umana piuttosto diffusa. Quella di chi, avendo smarrito ogni speranza di migliorare la propria vita, ha sostituito la voglia con l’invidia e poi l’invidia con la rabbia. Persino quando compie un crimine, non lo fa per avere in cambio qualcosa, ma per impedire a chi ce l’ha di continuare a goderne. Non è neanche necessario che questo «qualcosa» sia un bene sensibile. Said ha colpito il povero Stefano non perché lo avesse visto scendere da una bella macchina. Ha accoltellato a morte uno sconosciuto per il solo fatto che sorrideva. Su quella mente alterata, eppure perfettamente lucida, a fare scattare la molla dell’aggressività non sono stati i simboli del consumismo, ma la più immateriale delle fortune: un animo sereno. L’assassino non sopportava che suo figlio chiamasse «papà» il nuovo compagno della ex. E, tra gli innumerevoli bersagli simbolici del suo odio impotente, ha scelto un giovane come lui perché, ha dichiarato nel costituirsi, «volevo togliergli tutte le promesse».

Che frase devastante. Ma sarebbe sbagliato liquidare chi l’ha pronunciata come un caso estremo. Estremo è lo sbocco del suo malessere, per il quale merita una condanna senza attenuanti sociologiche. Non il malessere in sé, che investe chiunque si senta un fallito e al tempo stesso una vittima.
(Corriere della sera - 2 aprile 2019)