giovedì 28 febbraio 2019

Liturgia penitenziale che conclude la terza giornata dell'incontro per la protezione dei minori nella Chiesa - 23.02.2019

Liturgia penitenziale che conclude la terza giornata dell'incontro 
per la protezione dei minori nella Chiesa


23.02.2019


Dalla Sala Regia del Palazzo Apostolico,
 In Vaticano,
Liturgia Penitenziale con le Conferenze Episcopali 
presieduta da Papa Francesco





«Siamo come il figlio prodigo del Vangelo, abbiamo chiestola nostra parte di eredità, l’abbiamo ricevuta e ora la stiamo sperperando con impegno. Questa crisi degli abusi ne è una espressione». Monsignor Philip Naameh commenta il Vangelo di Luca durante la liturgia penitenziale nella quale al Chiesa chiede perdono confessando «che vescovi, diaconi e religiosi hanno commesso violenze nei confronti di minori e giovani e che non siamo riusciti a proteggere coloro che avevano maggiormente bisogno della nostra cura», che «abbiamo protetto dei colpevoli e abbiamo ridotto al silenzio chi ha subito del male, che «non abbiamo riconosciuto la sofferenza di molte vittime e non abbiamo offerto aiuto quand’era necessario».

Nella sala Regia del palazzo apostolico risuonano, dolenti e tragiche le note del violino di una delle vittime. struggenti come le sue parole: «L’abuso è l’umiliazione più grande che un individuo possa subire. Ci si deve confrontare con la consapevolezza di non potersi difendere contro la forza superiore dell’aggressore. Non si può fuggire a ciò che succede, ma si deve sopportare, non importa quanto sia brutto. Quando si vive l’abuso si vorrebbe porre fine a tutto. Ma non è possibile». E «non c’è sogno senza ricordi di ciò che è successo, nessun giorno senza flashback». Ora «cerco di concentrarmi sul mio diritto divino di essere vivo. Io posso e devo essere qui».

Più di uno tra i 190 che partecipano alla liturgia non trattiene l’emozione. «Per tre giorni», dice il Papa invitando all’esame di coscienza, «ci siamo parlati e abbiamo ascoltato le voci di vittime sopravvissute a crimini che minori e giovani hanno subito nella nostra Chiesa. Ci siamo chiesti l’un l’altro. “Come possiamo agire responsabilmente, quali passi dobbiamo ora intraprendere”. Per poter entrare nel futuro con rinnovato coraggio, dobbiamo dire, come il figlio prodigo: “Padre, ho peccato”. Abbiamo bisogno di esaminare dove si rendono necessarie azioni concrete per le Chiese locali, per i membri delle Conferenze episcopali, per noi stessi. Ciò richiede di guardare sinceramente alle situazioni createsi nei nostri Paesi e alle nostre stesse azioni».

E poi una serie di domande cui ciascuno deve rispondere interrogando se stesso: «Quali abusi sono stati commessi dal clero e da altri membri della Chiesa nel mio Paese? Cosa so delle persone che sono state abusate e violate da preti, diaconi e religiosi?». E ancora: «Come nel mio Paese la Chiesa si è comportata con quanti hanno subito violenze di potere, di coscienza e sessuali? Quali ostacoli abbiamo messo nel loro cammino? Li abbiamo ascoltati? Abbiamo cercato di aiutarli? Abbiamo cercato giustizia per loro? Sono stato all’altezza delle mie responsabilità personali?». Infine le domande: «Nella Chiesa del mio Paese, come ci siamo comportati con vescovi, presbiteri, diaconi e religiosi accusati di violenze carnali? Come, nei riguardi di coloro i cui crimini sono stati appurati? Che cosa ho fatto di persona per impedire le ingiustizie e garantire la giustizia? Che cosa ho trascurato di fare?».

Domande che i presenti si porteranno dietro anche dopo la conclusione dell’incontro per fare davvero pulizia all’interno della Chiesa. «Cosa dobbiamo fare in maniera diversa?», si chiede monsignor Naameh,mostrando come esempio proprio il figlio prodigo. «Per lui», dice il vescovo, «la situazione incomincia a volgere al meglio quando decide di essere molto umile, di svolgere incarichi molto semplici e di non pretendere alcun privilegio. La sua situazione cambia quando egli si riconosce e ammette di avere fatto un errore, lo confessa al padre, ne parla con lui apertamente ed è pronto a subirne le conseguenze. In questo modo, il Padre sperimenta la grande gioia per il ritorno del suo figlio prodigo e aiuta a far sì che i fratelli si accettino vicendevolmente». E noi, si chiede, «saremo capaci di fare questo? Lo vorremo fare? L’attuale Incontro lo rivelerà, deve rivelarlo se vogliamo dimostrare che siamo degni figli del Signore, il nostro Padre celeste. Come abbiamo ascoltato e discusso oggi e nei due giorni precedenti, questo implica assumere responsabilità, fare mostra dell’accountability (del dovere di rendere conto) e istituire la trasparenza. La strada davanti a noi per attuare veramente tutto questo in maniera sostenibile e appropriata, è lunga. Abbiamo ottenuto progressi diversi camminando a velocità diverse. L’Incontro attuale è stato soltanto un passo di tanti. Non crediamo che solo perché abbiamo iniziato a scambiare qualcosa tra di noi, tutte le difficoltà siano eliminate. E come per il figlio del Vangelo che ritorna a casa, non tutto è risolto – quanto meno, dovrà riconquistare suo fratello. Noi dovremo fare la stessa cosa: dobbiamo riconquistare i nostri fratelli e sorelle nelle congregazioni e nelle comunità, riconquistare la loro fiducia e ri-ottenere la loro disponibilità a collaborare con noi, per stabilire insieme il Regno di Dio».

(Fonte: Annachiara Valle per Famiglia Cristiana)


Omelia di S.E. Mons. Philip Naameh, 
Arcivescovo di Tamale
Fratelli e sorelle,
Tutti conosciamo la parabola del Figlio prodigo. L’abbiamo raccontata spesso, e spesso ci abbiamo fatto delle omelie. La si dà praticamente per scontata nelle nostre congregazioni e nelle nostre comunità: la si recita ai peccatori per indurli al pentimento. Forse ormai è diventato talmente un’abitudine che dimentichiamo una cosa importante. Dimentichiamo prontamente di applicare questa Scrittura a noi stessi, di vederci per quello che siamo, cioè dei figli prodighi.

Proprio come il figlio prodigo del Vangelo, abbiamo chiesto la nostra parte dell’eredità, l’abbiamo ricevuta e ora la stiamo sperperando con impegno. Questa crisi degli abusi ne è un’espressione. Il Signore ci ha affidato la gestione dei beni della salvezza, lui si fida e crede che noi compiremo la sua missione, proclameremo la Buona Novella e contribuiremo a stabilire il Regno di Dio. Invece, noi cosa facciamo? Rendiamo giustizia a quanto ci è stato affidato? Non potremmo rispondere a questa domanda con un “sì” onesto, non c’è dubbio. Troppo spesso siamo stati fermi, abbiamo guardato dall’altra parte, evitato conflitti – eravamo troppo compiaciuti per confrontarci con il lato oscuro della Chiesa. Abbiamo perciò tradito la fiducia che era stata riposta in noi, in particolare riguardo all’abuso nell’ambito della responsabilità della Chiesa, che è sostanzialmente la nostra responsabilità. Non abbiamo garantito alle persone la protezione a cui hanno diritto, abbiamo distrutto la speranza e la gente è stata brutalmente violata nel corpo e nello spirito.

Il figlio prodigo del Vangelo perde tutto: non solo la sua eredità ma anche il suo stato sociale, la sua buona posizione, la sua reputazione. Non ci dovremmo sorprendere se ci toccasse un destino simile, se la gente parla male di noi, se c’è sfiducia nei nostri confronti, se alcuni minacciano di ritirare il loro sostegno materiale. Non dobbiamo lamentarcene; piuttosto, chiederci cosa dovremmo fare in modo diverso. Nessuno si può esimere, nessuno può dire: ma io personalmente non ho fatto niente di male. Noi siamo fratelli (nell’episcopato) e non siamo responsabili solo di noi stessi, ma anche per ciascun altro membro della nostra fratellanza e per la fratellanza in se stessa.

Cosa dobbiamo fare in maniera diversa, e da dove dobbiamo incominciare? Guardiamo ancora il figlio prodigo del Vangelo. Per lui, la situazione incomincia a volgere al meglio quando decide di essere molto umile, di svolgere incarichi molto semplici e di non pretendere alcun privilegio. La sua situazione cambia quando egli si riconosce e ammette di avere fatto un errore, lo confessa al padre, ne parla con lui apertamente ed è pronto a subirne le conseguenze. In questo modo, il Padre sperimenta la grande gioia per il ritorno del suo figlio prodigo e aiuta a far sì che i fratelli si accettino vicendevolmente.

Saremo capaci di fare questo? Lo vorremo fare? L’attuale Incontro lo rivelerà, deve rivelarlo se vogliamo dimostrare che siamo degni figli del Signore, il nostro Padre celeste. Come abbiamo ascoltato e discusso oggi e nei due giorni precedenti, questo implica assumere responsabilità, fare mostra dell’accountability (del dovere di rendere conto) e istituire la trasparenza.

La strada davanti a noi per attuare veramente tutto questo in maniera sostenibile e appropriata, è lunga. Abbiamo ottenuto progressi diversi camminando a velocità diverse. L’Incontro attuale è stato soltanto un passo di tanti. Non crediamo che solo perché abbiamo iniziato a scambiare qualcosa tra di noi, tutte le difficoltà siano eliminate. E come per il figlio del Vangelo che ritorna a casa, non tutto è risolto – quanto meno, dovrà riconquistare suo fratello. Noi dovremo fare la stessa cosa: dobbiamo riconquistare i nostri fratelli e sorelle nelle congregazioni e nelle comunità, riconquistare la loro fiducia e ri-ottenere la loro disponibilità a collaborare con noi, per stabilire insieme il Regno di Dio


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