giovedì 14 febbraio 2019

Latte, sangue e cioccolatini di Alessandro D'Avenia

14 FEBBRAIO - SAN VALENTINO
Latte, sangue e cioccolatini 
Alessandro D'Avenia 








Nella grotta buia e fredda si placano i gemiti dei capretti sacrificati. Il coltello bagnato dal loro sangue scivola sulla fronte di due adolescenti: sangue si mescola a sangue. La ferita viene poi detersa con un fiocco di lana bianca intriso di latte. I ragazzi, muniti di fruste di pelle di capra, girano attorno al colle Palatino, ridendo, per purificare la città e rendere fertili le donne che lungo la via si lasceranno colpire. Ogni 15 febbraio si svolgevano così i Lupercalia (Lupercale era il nome della grotta dove Romolo e Remo erano stati trovati) nell’antica Roma, feste sacre a Luperco, dio della fertilità. Il selvaggio rito pastorale, che propiziava la vicina rinascita primaverile, unendo sangue e latte, morte e rinascita, è all’origine del nostro San Valentino. La festa fu infatti, nel tempo, depurata nei suoi eccessi dai cristiani che l’associarono al martire, vescovo di Terni, decapitato il 14 febbraio del 273 d.C. sotto Aureliano, per aver celebrato le nozze tra una cristiana e un legionario romano, pagandone il prezzo con il sangue. Così era divenuto il patrono degli innamorati (e degli sposi). Da qui nasce la ricorrenza che ha conquistato il mondo, grazie anche ai versi di poeti come Chaucer e Shakespeare, tanto che il nome del santo fu identificato con il fidanzato, detto «valentino», e con le «valentine», biglietti decorati con versi d’amore, attesi invano da Charlie Brown e secondi, per quantità, solo a quelli natalizi. Cifre ghiotte per chi ha reso il 14 febbraio un affare (di cuore): cioccolatini, fiori, menù ad hoc, fughe romantiche… per un giro (in Italia), secondo il Codacons, di oltre 350 milioni di euro.


Ma tornando alle origini, il rito, basato su sangue che diventa latte (morte che diventa vita) e associato a nozze e fertilità, rivela l’essenziale sul dare la vita per ricevere vita. Ne resta traccia in una fiaba della tradizione, raccolta nelle Fiabe italiane da Italo Calvino, nota come L’amore delle tre melagrane o Bianca come il latte rossa come il sangue, che amo da quando il mio bravissimo professore di italiano delle medie, Aldo Viola, ce la fece conoscere. Una storia che ha scavato dentro di me un immaginario simbolico talmente forte da farne poi una riscrittura contemporanea nel mio primo romanzo, proprio per la potente mescolanza di sangue e latte, morte e vita. Comincia così: «Un figlio di re mangiava a tavola. Tagliando la ricotta, si ferì un dito e una goccia di sangue andò sulla ricotta. Disse a sua madre: – Mamma, vorrei una donna bianca come il latte e rossa come il sangue». In queste tre righe c’è il senso dell’adolescenza, e della vita intera: siamo figli che se ne stanno tranquilli nel proprio palazzo infantile di sicurezze, continuando a nutrirci del latte materno, di cui la ricotta è l’eco simbolica. Ma a un tratto un coltello ferisce anima e corpo, tagliando l’orizzonte della vita conosciuta e spingendo verso l’ignoto. Il sangue che ribolle, nella donna ancor più che nell’uomo, segna la trasformazione radicale del corpo che diventa capace di dare la vita. Il latte è la vita ricevuta, il sangue la vita da dare. In questi due elementi e nei loro colori, che nelle culture arcaiche sono spesso primari, è racchiusa la vita intera: ricevere e dare, dare e ricevere, in un circolo ininterrotto e vitale. Ed è questo il desiderio del principe: volere una donna bianca come il latte e rossa come il sangue significa anelare alla vita tutta intera. Il desiderio che apre l’adolescente all’ignoto viene dalla scoperta che vivere è dare e ricevere, ricevere e dare, latte e sangue, sangue e latte.

Nelle fiabe le mamme rappresentano l’educare e infatti la regina risponde: «Figlio mio, chi è bianca non è rossa, e chi è rossa non è bianca. Ma cerca pure se la trovi». Educare è introdurre alla realtà e qui la dura realtà è che il desiderio umano è paradossale: la vita tutta intera è impossibile da ottenere. Il nostro desiderio di infinito sembra non avere corrispondenza in un mondo di cose finite. Ma la madre sa che proprio questa tensione è salvifica, e spinge il figlio al viaggio, perché la ricerca dell’impossibile gli permetterà di diventare uomo e magari di trovare ciò a cui aspira. Spesso invece evitiamo il taglio sin dal principio o, se capita, ripuliamo subito il sangue, e così spegniamo il desiderio, nascondendo ai ragazzi che la vita si riceve grazie a un paradosso: solo quando la si dà, con impegno e sacrificio. Per paure e ferite irrisolte, più nostre che loro, li immergiamo in una perenne dimensione «lattea» dell’esistenza, privandoli del coraggio di esplorare il mondo e misurarsi con l’ignoto. Ma senza avventura la storia finisce, perché la vita è un paradosso di sangue e latte, morte e rinascita continue. Ricevere e dare, dare e ricevere: che cosa? Amore: infatti è una donna ciò che il ragazzo desidera dopo il taglio che mescola latte e sangue. Scopre la sua dimensione sessuale (sesso viene da secare, tagliare), che significa, prima di tutto, relazionale, cioè incompiuta e aperta al tu: per trovarsi ha bisogno di «don(n)arsi» a qualcuno ed essere quindi «don(n)ato» a se stesso.

La vita piena si mostra con un’improvvisa e dolorosa chiamata erotica, l’amore scardina la tranquilla sicurezza del palazzo, ci tira fuori dall’egoismo infantile e ci porta ad esplorare il mondo: l’altro ci spinge ad avventurarci, contemporaneamente, fuori e dentro di noi. Altrimenti il ragazzo resta un bambino ripiegato su stesso, sempre in cerca di latte, di soddisfazioni, che assumono le forme della dipendenza da «tu» surrogati e la distruzione dei «tu» a cui si potrebbe dare la vita. Non è un caso che i protagonisti del geniale libro di Burgess, Arancia meccanica, prima di dedicarsi alle loro efferate violenze, trovino energie al «Korova Milk Bar», dove si abbeverano di «Milk-plus», il «Lattepiù», cioè latte mescolato a droghe di vario tipo: «ti rende più preciso e preparato per un po’ di Ultra-Violenza». Dipendono dal latte, il sangue non sanno darlo, ma solo provocarlo negli altri.


Invece nella fiaba il ragazzo accoglie il rischioso invito e, come in tutte le fiabe che si rispettino, «si mette in cammino»: chi scopre il segreto della vita tutta intera deve mettersi in moto. A volte chiedo a un ragazzo: ma tu verso cosa sei in cammino? Se non riesce a rispondere so che ancora non ha cominciato ad amare. Solo chi ama esce da se stesso e accetta la vertigine dell’incompiutezza: fa i primi passi nella vita vera. Il seguito della fiaba lo lascio alla vostra curiosità, ma posso dire che il protagonista, prima di trovare ciò che cerca, dovrà soffrire molto, proprio perché deve ancora imparare ad amare, e ne diverrà capace a costo di numerosi errori e dolori. E questo è un aspetto che oggi sottovalutiamo. Avendo ridotto l’amore a un’emozione calda, immediata e senza controllo, non educhiamo ad amare. E così si finisce col pensare che l’amore adolescenziale sia pura emozione e quello maturo una noia mortale. Invece amare è insieme slancio e fedeltà, in ogni età della vita. Impariamo in ogni campo, e per questo studiamo e ci formiamo, ma sul fondamento della vita improvvisiamo, lasciando i ragazzi in balia di un analfabetismo affettivo che diventa poi esistenziale: cuore e testa divorziati in casa, prima o poi, buttano giù la casa.

L’amore umano va oltre l’istinto di continuità della specie (infatti può essere non corrisposto), trae energia da quell’istinto primordiale, ma poi cerca qualcosa di ancor più vitale della generica salvezza della specie: la salvezza del singolo, attraverso il sacrificio del suo basilare egoismo.
Amando, impariamo a dare a un altro il valore assoluto che prima attribuivamo solo a noi stessi, doniamo il sangue all’altro che lo riceve come latte, cioè si percepisce come valore assoluto, e viceversa, in un circolo virtuoso che vince routine, cadute, ostacoli… Chi ama non si limita a «sentire» il valore assoluto dell’amato, ma glielo vuole «comunicare» effettivamente: l’amante guarisce dal suo egoismo e l’amato dalla sua relatività, perché il noi non è 1+1, ma due 0 a cui si è messo davanti l’essere 1: 100. A unirsi non sono due individui con fini autonomi, ma persone limitate che si scelgono l’una come fine dell’altra: nelle difficoltà gli individui si separano, le persone si uniscono di più. L’amore «eterno» non esce dalla realtà, ma diventa capace di assumerla così com’è, per trasformarla in arte (di vivere) come lo scultore fa col blocco di marmo.

Ho gioito sapendo di ragazzi che hanno cominciato a donare il sangue dopo aver letto il mio romanzo. Mi rattrista invece vederne fuggire alcuni alla proposta di tenere compagnia a dei malati per un’ora, perché, al di là della pigrizia tipica dell’adolescente, vuol dire che non sono stati educati a dare. E mi spiace non per ragioni morali, ma per loro, perché senza uscire dal comodo palazzo infantile non diventeranno se stessi: il ragazzo della fiaba torna a palazzo dopo il viaggio, ma da re, perché uscire da se stessi fa tornare pienamente a se stessi. Il letto da rifare per San Valentino è stilare due liste (latte/sangue): da chi riceviamo e a chi diamo la vita? Se un nome coincide quella relazione ha creato il circolo virtuoso dell’amore «eterno»: dare/ricevere. I genitori possono farlo con i figli, aiutandoli a riflettere su cosa significhi amare e incoraggiandoli a fare qualcosa di generoso per qualcuno, come per esempio donare il sangue. Ai più piccoli, invece, leggete la fiaba…

(Fonte: Corriere della Sera, 11 febbraio 2019)