giovedì 31 gennaio 2019

"I preti siano gioiosi come don Bosco" - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)

S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
31 gennaio 2019
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 



Papa Francesco:
"I preti siano gioiosi 
come don Bosco"






Come si riconosce un prete fedele alla sua vocazione? Dalla «gioia» che sente dentro e che porta al popolo. Un prete che «non è un funzionario», ma che è capace di calarsi nella realtà di ogni giorno guardandola sia «con gli occhi di Dio» sia con «gli occhi dell’uomo». Avendo davanti il modello di san Giovanni Bosco — di cui ricorre la memoria liturgica — nella messa celebrata la mattina di giovedì 31 gennaio a Santa Marta il Papa ha suggerito alcune caratteristiche fondamentali che si dovrebbero ritrovare in ogni sacerdote.

La riflessione del Pontefice è partita proprio da un episodio della vita del santo di Valdocco: «Il giorno della sua ordinazione — ha raccontato — la mamma gli ha detto: “Sarai sacerdote, incomincerai a soffrire”». Una frase forte, quasi enigmatica. «Cosa voleva dire — si è chiesto Francesco — quella signora umile, contadina, che non aveva studiato nella facoltà di teologia?». Certamente l’intento di mamma Margherita era quello di «sottolineare una realtà», ma con l’obbiettivo anche di «attirare l’attenzione del figlio», di metterlo in allerta, perché se nella vita «lui si fosse accorto che non c’era sofferenza» sarebbe stato quello il segnale che «qualcosa non andava bene». Si tratta, ha spiegato il Papa, della «profezia di una mamma», di una donna semplice «e col cuore pieno dello Spirito».

Una domanda che il Pontefice ha riproposto come provocazione attuale. «Io penso: perché un sacerdote deve soffrire? O perché quando incomincia il suo ministero, la sofferenza è un segnale che la cosa va bene?». Certo non significa che il sacerdote sia un «fachiro». La risposta si trova nella scelta di vita operata proprio da don Bosco che, ha ricordato Francesco, «ha avuto il coraggio di guardare la realtà con gli occhi di uomo e con gli occhi di Dio». Si è calato pienamente nella realtà in cui si trovava abbracciandone tutte le difficoltà e vivendo tutte le sofferenze che ne derivavano. Egli, ha spiegato il Papa, si è guardato attorno «in quell’epoca massonica, mangiapreti, di un’aristocrazia chiusa, dove i poveri erano realmente i poveri, lo scarto», e «ha visto sulle strade quei giovani e ha detto: “Non può essere!”». Don Bosco, cioè, «ha guardato con gli occhi di uomo, un uomo che è fratello e papà pure, e ha detto: “Ma no, questo non può andare così! Questi giovani forse finiranno da don Cafasso o sulla forca... no, non può andare così”, e si è commosso come uomo, e come uomo ha incominciato a pensare strade per fare crescere i giovani, per fare maturare i giovani. Strade umane».

Occhi di uomo, ma non solo. Don Bosco ha «avuto il coraggio di guardare con gli occhi di Dio e andare da Dio e dire: “Ma, fammi vedere questo... questo è un’ingiustizia... come si fa davanti a questo... Tu hai creato questa gente per una pienezza e loro sono in una vera tragedia...”». E così, «guardando la realtà con amore di padre — padre e maestro, dice la liturgia di oggi — e guardando Dio con occhi di mendicante che chiede qualcosa di luce, comincia ad andare avanti».

Ecco allora la risposta sull’identità del sacerdote: «il sacerdote deve avere queste due polarità. Guardare la realtà con occhi di uomo, e con occhi di Dio». E ciò significa, ha aggiunto il Papa, «tanto tempo davanti al tabernacolo».

Questa duplice capacità di sguardo, ha continuato il Pontefice ricordando la testimonianza del fondatore dei salesiani, «gli ha fatto vedere la strada». Infatti don Bosco non è semplicemente andato dai giovani con il Catechismo e il Crocifisso dicendo: «fate questo...» e impartendo precetti. Se avesse fatto così, ha commentato il Papa, «i giovani gli avrebbero detto: “Buonanotte, ci vediamo domani”». Invece «lui è andato vicino a loro, con la vivacità loro. Li ha fatti giocare, li ha fatti in gruppo, li ha uniti come fratelli... è andato, ha camminato con loro, ha sentito con loro, ha visto con loro, ha pianto con loro e li ha portati avanti, così». È proprio questo «il sacerdote che guarda umanamente la gente, che sempre è alla mano».

Ancora oggi a volte i fedeli si sentono dire: «Il sacerdote soltanto riceve dalle 15 alle 17.30». Ma, ha sottolineato il Papa, «tu non sei un impiegato, un funzionario. Ne abbiamo tanti di funzionari, bravi, che fanno il loro mestiere, come lo devono fare i funzionari. Ma il prete non è un funzionario, non può esserlo». E, rivolgendosi idealmente a ogni sacerdote, il Pontefice ha esortato: «Guarda con occhi di uomo e arriverà a te quel sentimento, quella saggezza di capire che sono i tuoi figli, i tuoi fratelli. E poi, avere il coraggio di andare a lottare lì: il sacerdote è uno che lotta con Dio».

C’è in effetti, ha aggiunto Francesco, «sempre il rischio di guardare troppo l’umano e niente il divino, o troppo il divino e niente l’umano: ma se non rischiamo, nella vita, non faremo nulla...». Nella vita accade così: «Un papà rischia per il figlio, un fratello rischia per un fratello quando c’è amore...». E a volte questo può portare «sofferenza» perché «incominciano le persecuzioni, incomincia il chiacchiericcio... “Ah, questo prete, lì, sulla strada, con i bambini, con i ragazzi, e questi ragazzi maleducati che con il pallone mi rompono il vetro della finestra...”, tutto il chiacchiericcio».

Ma la strada giusta è quella mostrata da don Bosco. «Oggi — ha detto Francesco — vorrei ringraziare Dio per averci dato quest’uomo, quest’uomo che da bambino incominciò a lavorare: sapeva cosa fosse guadagnarsi il pane ogni giorno; quest’uomo che aveva capito qual era la pietà, qual era la vera verità, quest’uomo che ha avuto da Dio un grande cuore di padre, di maestro».

Un esempio che ha offerto al Pontefice un’altra indicazione preziosa e decisiva: «Qual è — si è chiesto — il segnale che un prete va bene», che sta «guardando la realtà con gli occhi di uomo e con gli occhi di Dio? La gioia». E, ha avvisato Francesco, «quando un prete non trova gioia dentro, si fermi subito e si chieda perché». Proprio don Bosco, del resto, era «il maestro della gioia». Infatti «lui rendeva felici gli altri ed era sempre felice lui stesso. E soffriva lui stesso». Perciò, ha concluso il Papa, «Chiediamo al Signore, per l’intercessione di don Bosco, oggi, la grazia che i nostri preti siano gioiosi: gioiosi perché hanno il vero senso di guardare le cose della pastorale, il popolo di Dio con occhi di uomo e con occhi di Dio»


(fonte: L'Osservatore Romano)

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Servizio Vatican news

VIAGGIO APOSTOLICO A PANAMA 23-28 GENNAIO 2019 - Visita alla Casa Hogar del Buen samaritano e Angelus: «Grazie a quanti rendono possibile che l’amore di Dio si faccia sempre più concreto, più reale, fissando lo sguardo negli occhi di coloro che ci stanno intorno e riconoscendoci come prossimi.» - «Abbiamo bisogno di moltiplicare la speranza ... fate un “chiasso” d’amore» (cronaca, foto, testi e video)


VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
A PANAMA IN OCCASIONE DELLA
XXXIV GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ
23-28 GENNAIO 2019


Domenica, 27 gennaio 2019

PANAMA-ROMA

10:45 Visita alla Casa Hogar del Buen samaritano 
          Angelus
16:30 Incontro con i volontari della GMG nello Stadio Rommel Fernandez
18:00 Cerimonia di congedo all’Aeroporto Internazionale di Panama
18:15 Partenza in aereo per Roma


VISITA ALLA CASA HOGAR DEL BUEN SAMARITANO
Panama
Domenica, 27 gennaio 2019

E’ un altro gesto all’insegna della misericordia e della carità quello che il Papa compie raggiungendo questo piccolo angolo di pianeta, rifugio per tanti giovani e adulti malati, vittime dell’HIV. Qui, a “La Casa Hogar del Buen Samaritano” si palesa il volto della Chiesa al servizio dei poveri, che tende mani, che soccorre e accoglie quanti vivono la condanna dell’Aids, quanti lottano contro la tossicodipendenza, l’abbandono, l’emarginazione da parte della società. Ecco perché, sebbene diversa da quella vissuta ed espressa in tanti incontri di questa GMG, la gioia continua a risuonare. “Grazie Santo Padre, grazie perché la sua visita è carica di molto significato... La sua presenza ci rivela che Dio ascolta le nostre grida”, dice padre Domingo Escobar, direttore della Casa Famiglia mentre saluta Francesco a nome di tutti. Sotto gli occhi commossi del Pontefice i 60 ospiti, ragazzi e ragazze assistiti anche da altri centri (San Juan Pablo II, Hogar San José e “Casa del Amor”, della Congregazione Hermanos de Jesús Kkottongnae), lo ringraziano invece con i sorrisi, i fiori, i doni fatti a mano e le canzoni scritte per l’occasione, come quella intonata dal piccolo Abrahan Guerra di 13 anni.
Dopo aver ricevuto i doni e i saluti da parte degli ospiti delle case famiglia, Francesco benedice la prima pietra di 4 nuovi centri di assistenza sul modello della Casa del Buon Samaritano che nasceranno nasceranno in Giamaica e Argentina, Paraguay e ancora a Panama.

















DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari giovani, 
Stimati direttori, collaboratori, agenti di pastorale,
Amiche e amici!

Grazie, Padre Domingo, per le parole che, a nome di tutti, mi ha rivolto. Ho desiderato questo incontro con voi, che siete qui nella Casa-famiglia “Il Buon Samaritano”, e anche con gli altri giovani presenti del Centro “Giovanni Paolo II”, della Casa-famiglia “San Giuseppe” delle Sorelle della Carità e della “Casa dell’Amore” della Congregazione dei Fratelli di Gesù Kkottonngae. Stare con voi è per me motivo di rinnovare la speranza. Grazie perché lo rendete possibile!

Preparando questo incontro ho potuto leggere la testimonianza di un membro di questa casa, che mi ha toccato il cuore perché diceva: «Qui sono nato di nuovo». Questa casa, e tutti i centri che voi rappresentate, sono segno della vita nuova che il Signore ci vuole donare. È facile confermare la fede di alcuni fratelli quando la si vede agire ungendo ferite, sanando speranza e incoraggiando a credere. Qui non nascono di nuovo solo coloro che potremmo chiamare “beneficiari primari” delle vostre case; qui la Chiesa e la fede nascono, qui la Chiesa e la fede si rinnovano continuamente per mezzo della carità.

Cominciamo a nascere di nuovo quando lo Spirito Santo ci dona occhi per vedere gli altri, come ci diceva il Padre Domingo, non solo come nostri vicini di casa – che già vuol dire molto – ma come nostri prossimi. Vedere gli altri come prossimo.

Il Vangelo ci dice che una volta domandarono a Gesù: «Chi è il mio prossimo?» (Lc 10,29). Lui non rispose con teorie, nemmeno fece un discorso bello ed elevato, ma usò una parabola – quella del Buon Samaritano –, un esempio concreto di vita reale che tutti voi conoscete e vivete molto bene. Il prossimo è una persona, un volto che incontriamo nel cammino, e dal quale ci lasciamo muovere, ci lasciamo commuovere: muovere dai nostri schemi e priorità e commuovere intimamente da ciò che vive quella persona, per farle posto e spazio nel nostro andare. Così lo intese il buon Samaritano davanti all’uomo che era stato lasciato mezzo morto al bordo della strada non solo da alcuni banditi, ma anche dall’indifferenza di un sacerdote e di un levita che non ebbero il coraggio di aiutarlo, e come sapete, anche l’indifferenza uccide, ferisce e uccide. Gli uni per qualche misera moneta, gli altri per paura di contaminarsi, per disprezzo o disgusto sociale, senza problemi avevano lasciato quell’uomo per terra lungo la strada. Il buon Samaritano, come tutte le vostre case, ci mostra che il prossimo è prima di tutto una persona, qualcuno con un volto concreto, con un volto reale e non qualcosa da oltrepassare e ignorare, qualunque sia la sua situazione. È un volto che rivela la nostra umanità tante volte sofferente e ignorata.

Il prossimo è un volto che scomoda felicemente la vita perché ci ricorda e ci mette sulla strada di ciò che è veramente importante e ci libera dal banalizzare e rendere superflua la nostra sequela del Signore.

Stare qui è toccare il volto silenzioso e materno della Chiesa che è capace di profetizzare e creare casa, creare comunità. Il volto della Chiesa che normalmente non si vede e passa inosservato, ma è segno della concreta misericordia e tenerezza di Dio, segno vivo della buona notizia della resurrezione che agisce oggi nella nostra vita.

Fare “casa” è fare famiglia; è imparare a sentirsi uniti agli altri al di là di vincoli utilitaristici o funzionali, uniti in modo da sentire la vita un po’ più umana. Creare casa è permettere che la profezia prenda corpo e renda le nostre ore e i nostri giorni meno inospitali, meno indifferenti e anonimi. È creare legami che si costruiscono con gesti semplici, quotidiani e che tutti possiamo compiere. Una casa, lo sappiamo tutti molto bene, ha bisogno della collaborazione di tutti. Nessuno può essere indifferente o estraneo, perché ognuno è una pietra necessaria alla sua costruzione. Questo implica il chiedere al Signore che ci dia la grazia di imparare ad aver pazienza, di imparare a perdonarci; imparare ogni giorno a ricominciare. E quante volte perdonare e ricominciare? Settanta volte sette, tutte quelle che sono necessarie. Creare relazioni forti esige la fiducia che si alimenta ogni giorno di pazienza e di perdono.

E così si attua il miracolo di sperimentare che qui si nasce di nuovo; qui tutti nasciamo di nuovo perché sentiamo efficace la carezza di Dio che ci rende possibile sognare il mondo più umano e, perciò, più divino.

Grazie a tutti voi per l’esempio e la generosità; grazie alle vostre Istituzioni, ai volontari e ai benefattori. Grazie a quanti rendono possibile che l’amore di Dio si faccia sempre più concreto, più reale, fissando lo sguardo negli occhi di coloro che ci stanno intorno e riconoscendoci come prossimi.

ANGELUS

Ora che preghiamo l’Angelus, vi affido alla nostra Madre, la Vergine. Chiediamo a Lei, che come buona Madre è esperta di tenerezza e di vicinanza, di insegnarci ad essere attenti per scoprire ogni giorno chi è il nostro prossimo e di incoraggiarci ad andargli incontro prontamente e potergli offrire una casa, un abbraccio dove possa trovare protezione e amore di fratelli. Una missione in cui siamo tutti coinvolti.

Vi invito ora a mettere sotto il suo manto tutte le vostre preoccupazioni, tutte le necessità, i dolori che portate in voi, le ferite che patite, perché, come Buona Samaritana, venga a noi e ci assista con la sua maternità, la sua tenerezza, il suo sorriso di Madre.

Angelus Domini…

Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle,

oggi si celebra la Giornata internazionale della memoria delle vittime dell’Olocausto. Abbiamo bisogno di mantenere vivo il ricordo del passato, delle tragedie passate, e imparare dalle pagine nere della storia per non tornare mai più a commettere gli stessi errori. Continuiamo a sforzarci, senza sosta, di coltivare la giustizia, di far crescere la concordia e sostenere l’integrazione, per essere strumenti di pace e costruttori di un mondo migliore.

Desidero esprimere il mio dolore per le tragedie che hanno colpito lo Stato di Minas Gerais in Brasile e lo Stato di Hidalgo in Messico. Raccomando alla misericordia di Dio tutte le vittime e, nello stesso tempo, prego per i feriti ed esprimo il mio affetto e la mia vicinanza spirituale alle loro famiglie e a tutta la popolazione.

Qui a Panama ho pensato molto al popolo venezuelano, al quale mi sento particolarmente unito in questi giorni. Di fronte alla grave situazione che sta vivendo. chiedo al Signore che si cerchi e si raggiunga una soluzione giusta e pacifica per superare la crisi, nel rispetto dei diritti umani e cercando esclusivamente il bene di tutti gli abitanti del Paese. Vi invito a pregare, ponendo questa intercessione sotto la protezione di Nostra Signora di Coromoto, Patrona del Venezuela.

A Cristo e alla Vergine, ugualmente affidiamo le vittime dell’attentato terroristico perpetrato, questa domenica, nella cattedrale di Polo, nelle Filippine, mentre era in corso la celebrazione dell’Eucaristia. Ribadisco la mia più ferma riprovazione per questo episodio di violenza, che reca nuovi lutti in questa comunità cristiana, ed elevo le mie preghiere per i defunti e per i feriti. Il Signore, Principe della pace, converta il cuore dei violenti e conceda agli abitanti di quella regione una convivenza serena.

E oggi, nell’ultimo giorno della Giornata Mondiale della Gioventù, come offerta della Messa hanno portato una lista di venti giovani che non hanno potuto sapere come si svolgeva la Giornata della Gioventù, mediante la televisione, mediante la radio, giovani allievi della Scuola Cadetti di Polizia “Generale Francisco de Paula Santander”, in Colombia, uccisi dall’odio terrorista. Questi giovani sono stati un’offerta nella Messa, e in ricordo di essi mi permetto in questo Angelus di nominarli, e ciascuno nel proprio cuore, se non ad alta voce nel proprio cuore, dica quella parola che si usa dire in queste istituzioni quando si nomina un morto: “presente”. Che siano presenti davanti a Dio. Cadetto Luis Alfonso Mosquera Murillo; cadetto Oscár Javier Saavedra Camacho; cadetto Jonathan Efraín Suescón García; cadetto Manjardez Contreras Juan Felipe; cadetto Juan Diego Ayala Anzola; cadetto Juan David Rodas Agudelo; cadetto Diego Alejandro Pérez Alarcón; cadetto Jonathan Ainer León Torres; cadetto Alán Paul Bayona Barreto; cadetto Diego Alejandro Molina Peláez; cadetto Carlos Daniel Campaña Huertas; cadetto Diego Fernando Martínez Galvéz; cadetto Juan Esteban Marulanda Orozco; cadetto César AlbertoOjeda Gómez; cadetto Cristian Fabián González Portilla; cadetto Fernando Alonso Iriarte Agresoth; cadetto Ercia Sofía Chico Vallejo; cadetto Cristian Camilo Maquilón Martínez; cadetto Steven Rolando Prada Riaño; cadetto Iván René Munóz Parra. Ti preghiamo, Signore, di concedere loro la pace, e che anche al popolo colombiano Tu conceda la pace. Amen.

[Benedizione]

Di nuovo vi ringrazio per quello che state facendo qui, è grande, è molto bello. Dio vi benedica, e pregate per me. Grazie!


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INCONTRO CON I VOLONTARI DELLA GMG
Stadio Rommel Fernández (Panama)
Domenica, 27 gennaio 2019




E' con un grazie e un invito alla testimonianza rivolto a tutti i volontari che hanno reso possibile la GMG a Panama, che Papa Francesco conclude la XXXIV Giornata Mondiale della Gioventù. L'appuntamento, nello Stadio Rommel Fernández Juan Diaz, è ancora una volta una festa grande, grande come la speranza accesa nei cuori di tutti i giovani che con il Pontefice hanno vissuto insieme questi sei giorni in Centro America.
Chi sono i volontari

Sono cristiani, musulmani, buddisti ed ebrei. Alcuni senza fede ma tutti mossi dalla generosità umana, racconta nel suo saluto di benvenuto al Papa, il coordinatore generale della GMG, Rómulo Aguilar: "Crediamo che questi giovani abbiano dato al mondo tutto ciò che avevano, e siamo molto grati"
Le testimonianze

Davanti a Francesco, sul palco, tre ragazzi raccontano la propria esperienza di servizio. Bartosz Placak, giovane polacco, rappresentante dei 'volontario di lunga data', parla della bellezza dei carismi, "che sono i veri tesori della Chiesa", ma anche dei momenti difficili: "Durante il cammino a Panama - dice - ho conosciuto molte mie debolezze, che so di dover superare. Guardando sempre alla Vergine Maria, noi volontari dobbiamo sapere che i frutti raccolti non sono per noi stessi".


Poi è la volta di Stella Maris, panamense di 21 anni, che con la sorella decide di vendere caramelle e muffin per poter partecipare, nel 2016, alla GMG in Polonia: "Abbiamo raccolto una somma che ci avrebbe permesso di viaggiare. Ma i miei tre nonni sono morti nello stesso mese - prosegue - e abbiamo dovuto usare quel denaro per poter coprire le spese". "Al momento della chiusura della GMG in Polonia, hanno annunciato che la sede seguente sarebbe stata Panamá. Così mi sono resa conto di com’è il Signore e di come predispone ogni cosa".

La terza testimonianza è affidata a una giovane volontaria della prossima Gmg che si terrà in Portogallo, a Lisbona. Parole di gratitudine e commozione quelle di Maria Margarida: "quando nel 2022, nella nostra città, pregheremo in tutte le lingue e rinnoveremo la richiesta di essere confermati nella nostra fede da Sua Santità Papa Francesco, sappremo che vivremo un momento unico di grazia".
Il servizio e la Pentecoste

Il desiderio di mettere in evidenza il valore della parola 'servizio' è il cuore del discorso rivolto ai volontari dall'arcivescovo di Panama, José Domingo Ulloa Mendieta. Una parola che racchiude un mandato e che rimanda alla Pentecoste: "Analogamente alla Pentecoste sperimentata dagli apostoli - sottolinea - dobbiamo uscire dai nostri recinti, paure e comodità per intraprendere il cammino del rinnovamento ecclesiale e sociale, dove i giovani sono i protagonisti". Due i compagni di viaggio di questi ragazzi, spiega ancora l'arcivescovo, la forza dello Spirito Santo e la Vergine Maria, nell'augurio che, conclude Ulloa Mendieta, i volontari espandano lo spirito di servizio nei loro ambienti per essere "dispensatori dell'amore misericordioso di Dio, in un mondo ferito e fratturato dall'indifferenza e dall'assenza di umanità".
Le parole del Papa

E’ un grazie a tu per tu, personale, quello di Papa Francesco ad ogni singolo volontario presente nel più grande stadio di Panama. Una consuetudine nel solco della tradizione delle Giornate Mondiali della Gioventù che dedica l’appuntamento conclusivo all’incontro con chi ne rende possibile la realizzazione. Sul palco, prima del discorso del Pontefice, i ragazzi propongono una versione pop dell'Annuncizione, che sembra proprio apprezzata da Francesco.
Comunione e gioia nel servire

La gioia ha il sopravvento sulla stanchezza di questi ragazzi che Francesco abbraccia con gratitudine. I tre volontari che hanno condiviso la loro esperienza sul palco, il Papa li chiama per nome, Bartosz, Stella Maris del Carmen e Maria Margarida, riconoscendo l'importanza fondamentale del loro gesto

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari volontari:

Prima di terminare questa Giornata Mondiale della Gioventù, ho voluto incontrarmi con tutti voi per ringraziare ciascuno del servizio che avete compiuto in questi giorni e durante gli ultimi mesi che hanno preceduto la Giornata.

Grazie a Bartosz, Stella Maris del Carmen e Maria Margarida per aver condiviso le loro esperienze in prima persona. Per me è stato molto importante ascoltarvi e rendermi conto della comunione che si crea quando ci uniamo per servire gli altri! Sperimentiamo come la fede acquista un sapore e una forza completamente nuovi: la fede diventa più viva, più dinamica e più reale. Si sperimenta una gioia – lo vediamo qui – una gioia diversa, per aver avuto l’opportunità di lavorare fianco a fianco con gli altri per raggiungere un sogno comune. So che tutti voi avete sperimentato tutto questo.

Voi ora sapete come batte il cuore quando si vive una missione, e non perché qualcuno ve l’ha raccontato, ma perché l’avete vissuto. Avete toccato con mano che «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).

Avete dovuto anche vivere momenti duri che vi hanno richiesto diversi sacrifici. Come ci dicevi, Bartosz, uno sperimenta anche le proprie debolezze. Il bello è che queste debolezze non ti hanno fermato nel tuo impegno e nemmeno sono diventate la cosa centrale, né la più importante. Le hai sperimentate nel servizio, sì; cercando di capire e di servire gli altri volontari e i pellegrini, certo; però hai avuto il coraggio di non farti frenare da questo, di non farti paralizzare, e sei andato avanti. Che i nostri limiti, le nostre debolezze non ci paralizzino! Andare avanti, con i nostri difetti – poi li correggeremo – con le nostre debolezze…, andare avanti, e così è la bellezza di saperci inviati, la gioia di sapere che al di sopra di tutti gli inconvenienti abbiamo una missione da portare avanti. Non lasciare che i limiti, le debolezze e nemmeno i peccati ci frenino e ci impediscano di vivere la missione, perché Dio ci chiama a fare quello che possiamo e a chiedere quello che non possiamo, sapendo che il suo amore ci prende e ci trasforma in maniera graduale (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 49-50). Non spaventatevi se vedete le vostre debolezze; non spaventatevi neanche se vedete i vostri peccati: rialzatevi e avanti, sempre avanti! Non rimanete a terra, non chiudetevi, andate avanti con quello che avete di più importante, andate avanti, che Dio sa perdonare ogni cosa! Impariamo da tanti che come Bartosz hanno messo il servizio e la missione al primo posto, e il resto vedrai che verrà in aggiunta.

Grazie a tutti, perché in questi giorni siete stati attenti e disponibili fino ai più piccoli, ai più quotidiani e fino ai dettagli apparentemente più insignificanti, come offrire un bicchier d’acqua, e – contemporaneamente – avete seguito le cose più grandi che richiedevano molta pianificazione. Avete preparato ogni particolare con gioia, creatività e impegno, e con molta preghiera. Perché le cose pregate si sentono e si vivono in profondità. La preghiera dà spessore e vitalità a tutto quello che facciamo. Pregando scopriamo di far parte di una famiglia più grande di quanto possiamo vedere e immaginare. Pregando “apriamo il gioco” alla Chiesa che ci sostiene e ci accompagna dal cielo, ai santi e alle sante che ci hanno segnato il cammino, ma soprattutto pregando “apriamo il gioco” a Dio, perché Egli possa agire e possa entrare e possa vincere.

Avete voluto dedicare il vostro tempo, la vostra energia, le risorse a sognare e costruire questo incontro. Avreste perfettamente potuto scegliere altre cose, voi avete voluto impegnarvi. Questa parola, che vogliono cancellare: impegno. Questo vi fa crescere, questo vi fa diventare grandi, così come siete, ma impegno. Dare il meglio di sé per rendere possibile il miracolo della moltiplicazione non solo dei pani ma della speranza. E voi, dando il meglio di voi stessi, impegnandovi, fate il miracolo della moltiplicazione della speranza. Abbiamo bisogno di moltiplicare la speranza. Grazie! Grazie per tutto questo! E in questo dimostrate, ancora una volta, che è possibile rinunciare ai propri interessi a favore degli altri. Come hai fatto anche tu, Stella Maris. Io avevo letto le testimonianze prima, per questo ho potuto scrivere questo; e quando ho letto la tua ho sentito qualcosa come una voglia di piangere. Hai rinunciato ai tuoi interessi: avevi raccolto centesimo su centesimo per poter partecipare alla Giornata Mondiale della Gioventù a Cracovia, ma hai rinunciato per poter coprire le spese dei funerali dei tuoi tre nonni. Hai rinunciato per onorare le tue radici, e questo ti fa donna, ti fa adulta, ti fa coraggiosa. Hai rinunciato a partecipare a qualcosa che ti piaceva e che avevi sognato per poter aiutare e sostenere la tua famiglia, per onorare le tue radici, per poter essere lì; e il Signore, senza che te lo aspettassi né lo pensassi, ti stava preparando il regalo della Giornata Mondiale della Gioventù nella tua terra. Al Signore piace fare questi scherzi, al Signore piace rispondere in questo modo alla generosità: Lui sempre vince in generosità. Tu gli dai un pochino così, e Lui ti dà un mucchio così! Così è il Signore, che ci possiamo fare?, ci ama così. Come Stella Maris, anche molti di voi hanno fatto rinunce di ogni tipo. Tanti di voi avete fatto rinunce… Pensate adesso: a che cosa ho rinunciato io per diventare volontario? Pensateci un momento... Voi, con quello che avete pensato, avete dovuto accantonare sogni per prendervi cura della vostra terra e delle vostre radici. Questo il Signore lo benedice sempre, non si lascia vincere in generosità. Ogni volta che rinviamo qualcosa che ci piace per il bene degli altri e specialmente dei più fragili, o per il bene delle nostre radici come sono i nostri nonni e i nostri anziani, il Signore ce lo restituisce al cento per uno. Ti vince in generosità, perché nessuno può vincerlo in generosità, nessuno può superarlo nell’amore. Amici, date e vi sarà dato, e sperimenterete come il Signore vi verserà in grembo «una misura buona, pigiata, colma e traboccante» (Lc 6,38), come dice il Vangelo.

Cari amici, avete fatto un’esperienza di fede più viva, più reale; avete vissuto la forza che nasce dalla preghiera e la novità di una gioia diversa frutto del lavoro fianco a fianco anche con persone che non conoscevate. Adesso viene il momento dell’invio: andate, raccontate, andate, testimoniate, andate, trasmettete quello che avete visto e udito. E questo, non fatelo con tante parole ma, come avete fatto qui, con gesti semplici, con gesti quotidiani, quelli che trasformano e fanno nuove tutte le cose, quei gesti capaci di creare un “chiasso”, un “chiasso” costruttivo, un “chiasso” d’amore. Vi racconto una cosa: quando sono arrivato, il primo giorno, per la strada c’era una signora con un cappello, una signora anziana, una nonna; era lì, vicino alla recinzione dove io passavo con l’auto, e aveva un cartello che diceva: “Anche noi nonne sappiamo fare chiasso!”. E aggiungeva: “Con saggezza”. Unitevi ai nonni per fare “chiasso”, sarà un chiasso incisivo, un chiasso geniale! Non abbiate paura, andate e parlate. Mi sembrava tanto vecchietta la signora e le ho chiesto l’età: aveva 14 anni meno di me. Che vergogna!

Chiediamo al Signore la sua benedizione. Che benedica le vostre famiglie e le vostre comunità e tutte le persone che incontrerete nel prossimo futuro. Mettiamo anche sotto il manto della Vergine Santa il nostro cuore, quello che sente il nostro cuore. Che lei vi accompagni. E come vi ho detto a Cracovia, non so se ci sarò alla prossima Giornata Mondiale della Gioventù, ma vi assicuro che Pietro ci sarà e vi confermerà nella fede. Andate avanti, con forza e coraggio e, per favore – sono un’anima peccatrice –, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

[Preghiera]

E adesso vi do la benedizione. Mettiamo nel nostro cuore quello che siamo, quello che desideriamo, le persone con cui abbiamo lavorato in questi giorni, gli altri volontari, la gente che abbiamo visto. Mettiamo nel cuore i nostri amici, perché ricevano anche loro la benedizione; e mettiamo nel nostro cuore anche quelli che non ci vogliono bene, i nemici – ognuno di noi ne ha qualcuno –, perché Gesù benedica anche loro; e tutti insieme possiamo andare avanti.

[Benedizione]

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Un fuori programma di Papa Francesco a Panama ... Legge un cartello fa fermare la macchina e abbraccia una signora di 99 anni cieca ... per donarle un ricordo (video)

Un fuori programma di Papa Francesco a Panama ... 
Legge un cartello fa fermare la macchina 
abbraccia una signora di 99 anni cieca ...
per donarle un ricordo 



"Ho 99 anni, sono cieca. Solo se mi abbracci conserverò anch'io un ricordo della tua presenza". Questo cartello, sventolato con forza da un'anziana donna, ha colpito Papa Francesco durante la sua visita a Panama. Il Pontefice ha quindi deciso di fermare il corteo, di scendere dalla sua auto e di andare ad abbracciare la donna. E' rimasto con lei qualche minuto, l'ha accarezzata, le ha sussurrato qualcosa all'orecchio. Poi, dopo aver salutato e stretto le mani anche alle altre persone attorno, ha ripreso il suo percorso.

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Lo scrittore Geda rilegge Don Bosco: «Un visionario con i piedi per terra» Intervista di Alessandro Zaccuri

Lo scrittore Geda rilegge Don Bosco:
«Un visionario con i piedi per terra»
Intervista di Alessandro Zaccuri

È dedicato al fondatore dei salesiani il nuovo libro dell'autore torinese:
«Il suo metodo educativo è ancora attualissimo»

Se gli si chiede quale sia la sua posizione personale, Fabio Geda risponde con le parole di un personaggio dei suoi romanzi: «Credo nella ricerca – dice –. Per me non conta la risposta, ma solo la domanda. Credo in Dio? No. Ritengo necessario cercarlo? Sì». Che lo scrittore torinese stia parlando sul serio lo si capisce, a colpo d’occhio, da titolo e sottotitolo del suo nuovo libro, Il demonio ha paura della gente allegra. Di don Bosco, di me e dell’educare (Solferino, pagine 192, euro 16,50), in uscita dopodomani. La data non è scelta a caso, perché il 31 gennaio corrisponde alla memoria liturgica del fondatore dei salesiani. La conoscenza approfondita della storia e dello stile educativo del santo piemontese emerge da tutto il libro, nel quale convergono anche molti elementi autobiografici e di reportage. Nato nel 1972, una laurea in Scienze della comunicazione accantonata per dedicarsi all’attività di educatore, Geda è diventato noto al grande pubblico con Nel mare ci sono i coccodrilli, che nel 2010 ha ricostruito la vicenda del giovanissimo profugo afgano Enaiatollah Akbari. L’attenzione per l’adolescenza è da sempre uno dei tratti distintivi della scrittura di Geda, declinata in generi diversi, compresa la serie distopica Berlin,realizzata per Mondadori insieme con Marco Magnone. Anche Il demonio ha paura della gente allegra comincia con il ritratto di un ragazzo, che è lo stesso Geda di qualche anno fa. «Torino è la città dei santi sociali – ricorda – e chi la vive in un certo modo non può fare a meno di accorgersene. Il segno lasciato da don Bosco e dagli altri è molto profondo, è un riverbero che ancora oggi rimane sospeso nell’aria. Penso al Sermig di Ernesto Olivero, al Gruppo Abele di don Ciotti...». 

Lei quando si è accorto di questa eco? 
Molto presto, fin da ragazzino. Sono un ex allievo salesiano, sono stato a lungo scout: la mia formazione è questa, nonostante il percorso successivo mi abbia allontanato dalla Chiesa. Ora come ora mi trovo a più agio nella laicità, ma mi piace pensare che, in fondo, anche i santi sociali partono da una dimensione di fede per poi intervenire nella quotidianità con un’apertura assoluta, che non esclude mai nessuno. Le ragioni del loro agire mi interessano meno dell’agire stesso, come ho cercato di dimostrare anche con alcune delle storie che attraversano questo libro. La mia convinzione è che, quando ci si spende per gli altri, ci si muove già in una prospettiva spirituale. 

Quali sono, in tutto questo, le particolarità del metodo salesiano? 
Don Bosco lo riassumeva in tre parole: amorevolezza, ragione, religione. Il passo iniziale è sempre rappresentato dall’ascolto, dall’accoglienza che permette ai ragazzi di rispecchiarsi in uno sguardo buono. Voler loro bene non basta, occorre che si sentano amati. Questa è la base del rapporto educativo, il presupposto che permette di ragionare su di sé e sugli altri. 

E la religione? 
È la tensione al trascendente, che ciascuno finisce per interpretare a modo suo, ma che in ogni caso non può essere ignorata, né fraintesa in termini di intolleranza o di mancanza di rispetto. Il minimo comun denominatore è sempre il sentimento di umanità che ci lega gli uni agli altri. 

Mi scusi, ma non le viene mai il sospetto che ai tempi di don Bosco fosse tutto un po’ più facile? 
Ci troviamo in un frangente difficilissimo, questo è fuori discussione. Molte categorie del passato sono contestate o addirittura rifiutate, la confusione sembra dilagare ovunque. Detto questo, non possiamo rinunciare ai princìpi fondamentali dell’educazione e della convivenza solo perché ci sentiamo confusi. Al contrario, questo è il momento di tornare all’essen- ziale, a quei pochi punti fermi che rimangono irrinunciabili. 

Quali sono? 
Il valore dell’esempio, il dovere della coerenza, la gentilezza, la solidarietà verso i più deboli. C’erano già all’epoca di don Bosco ed erano i ragazzi dei quartieri poveri, che vivevano in condizioni del tutto simili a quelle che si possono riscontrare nei centri di accoglienza attuali. 

Dunque il passato non va mitizzato? 
Era già don Bosco a sostenerlo. Nel libro mi soffermo molto sulla “lettera da Roma” che il fondatore scrive nel 1884, quattro anni prima della morte. I salesiani esistevano da un quarto di secolo, ma don Bosco scorgeva già i segni di un possibile isterilimento. Per evitarlo invitava a mettersi in discussione, a fare la propria parte, a non affidarsi esclusivamente su un carisma che dovrebbe sortire una specie di effetto magico. Una straordinaria lezione di concretezza, che si può applicare anche a molti altri contesti. 

Dopo tanto tempo, che cosa la colpisce ancora in don Bosco? 
Le sue doti di affabulatore e di comunicatore, espresse anche attraverso la semplicità e l’efficacia della scrittura. Ma mi impressiona molto anche la sua capacità di mediare, non per amore del compromesso, ma in vista di un bene comune che va perseguito e realizzato a ogni costo. Era un visionario con i piedi per terra: ricorreva al linguaggio dei sogni per farsi intendere da tutti e intanto si inventava il contratto di “apprendizzaggio”, come si diceva allora. 

Secondo lei, come si troverebbe con i ragazzi di oggi? 
Benissimo, perché nel tempo non sono i ragazzi a essere cambiati, ma il modo in cui la società si rivolge a loro, da una parte criticandoli con malevolenza e dall’altra caricandoli di una responsabilità che non sono in grado di sostenere. Pare quasi che non ci sia alternativa tra lo sgridarli per qualsiasi cosa e il salutarli come salvatori di un mondo che noi, gli adulti, abbiamo contribuito a rovinare. 

L’alternativa quale sarebbe? 
Un’alleanza tra le generazioni. Dai più giovani viene l’entusiasmo, da chi è più maturo viene l’esperienza. Un piano così sarebbe piaciuto molto a don Bosco. Anzi, adesso che ci penso è proprio un’idea sua
(Fonte: Avvenire)

SAN GIOVANNI BOSCO, 
STORIA DI UN PADRE E MAESTRO DELLA GIOVENTÙ

Fondatore dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice, fu canonizzato alla chiusura dell’anno della Redenzione nel 1934. Il 31 gennaio 1988 Giovanni Paolo II lo dichiarò «padre e maestro della gioventù». «Alla scuola di don Bosco, noi facciamo consistere la santità nello stare molto allegri e nell’adempimento perfetto dei nostri doveri», disse san Domenico Savio.



GUARDA IL VIDEO
La rubrica sui santi dedicata a San Giovanni Bosco,
di Padre Gianluigi Pasquale dell’Ordine dei Frati Minori Cappuccini, 
professore nella Pontificia Università Lateranense

mercoledì 30 gennaio 2019

Un "esperimento" del prof. Enrico Galiano per combattere "l'analfabetismo emotivo" che ha già colpito tanti adulti e sta cominciando a contagiare anche i ragazzi

Un "esperimento" del prof. Enrico Galiano per combattere 
"l'analfabetismo emotivo" 
che ha già colpito tanti adulti e sta cominciando a contagiare anche i ragazzi

Pubblichiamo il testo di due post che il professor Enrico Galiano ha messo sul suo profilo Facebook dopo aver fatto un esperimento in classe con i suoi ragazzi di terza media.


Ieri ho detto ai ragazzi: “Domani venite a scuola con una bottiglietta d'acqua vuota”.
Sui loro volti, lampante che neanche le insegne di Las Vegas, la domanda “E che cavolo si inventerà stavolta il prof?”
“Lo vedrete domani”.

Oggi sono entrato in classe. Con un secchio.
Ho detto ai ragazzi di sedersi in cerchio. Ho dato a ciascuno di loro un piccolo foglio di carta.
Gli ho detto: “Adesso pensate alla persona a cui volete più bene al mondo. Poi disegnate un omino stilizzato e vicino ci scrivete il suo nome”
“Ma io posso scriverne due?”
“Certo, anche tre se vuoi!”
E dopo ho chiesto loro di riempire la bottiglietta, di versarla nel secchio e di tornare a sedersi.
L'idea me l'ha data un libro: Ammare, di Alberto Pellai e sua moglie Barbara Tamburini. Perché domenica è la Giornata della Memoria, e sinceramente a me di parlare solo di Shoah non mi va più.
Perché per pensare che il passato si stia ripetendo identico bisogna essere un po' miopi. Ma per non vedere pezzi di quel passato nel nostro presente, bisogna essere proprio ciechi.

Davanti ai loro occhi ho fatto una grande barca di carta, e gli ho detto di metterci ciascuno il proprio foglietto sopra. Poi ho appoggiato la barca sulla superficie dell'acqua. Infine ho iniziato a far vacillare il secchio, fino a che la barchetta non si è ribaltata, facendo cadere giù tutti i foglietti. Tutti quei nomi, quegli omini, giù in fondo al secchio.

C'era chi aveva messo il papà, chi la migliore amica, chi il cuginetto di un anno.

Si è creato un silenzio incredibile. Più di un minuto senza che nessuno fiatasse. E se qualcuno sa come sono i ragazzi di terza media, sa che avere un minuto di totale spontaneo silenzio è quasi un miracolo.
C'erano anche degli occhi lucidi. Oltre ai miei, dico.

E allora ho raccontato loro del naufragio del 18 aprile 2015, in cui nel Canale di Sicilia sono morte più di mille persone, tante quasi come nel Titanic. La loro barca, un peschereccio fatiscente che di persone ne poteva contenere al massimo duecento. 
E ho raccontato loro di una di quelle: un bambino più piccolo di loro, originario del Mali, che è stato ritrovato con la pagella cucita sulla giacca.
“Secondo voi perché un bambino dovrebbe salire su una barca così?”
“Per far vedere che aveva studiato!”
“Per dire a tutti che era bravo a scuola!”
E poi un ragazzino macedone, di fianco a me, a bassa voce ha detto:
“Forse per far vedere che non era cattivo, come molti pensano di tutti quelli che arrivano”.

La campanella è suonata. Anche per non appesantire troppo il momento, ho detto loro di mettere a posto tutto, di andare a ricreazione. Sono usciti, e piano piano hanno ricominciato a parlare, a chiedersi la merenda, le solite cose.
Sono rimasto solo a sistemare la mia roba.

Poi è successa una cosa.
A un certo punto sento dei passi dietro di me.
Tre ragazze.
“Scusi prof”
“Sì?”
“Noi vorremmo...”
“Voi vorreste...?”
La più coraggiosa delle tre prende il coraggio e dice tutto in un fiato:
“Possiamo tirare fuori quei fogli da lì?”.

Ci siamo chinati, li abbiamo tirati su uno per uno, insieme. 
E intanto io le guardavo, e dentro di me pensavo che finché tre ragazze decidono di saltare la ricreazione per tirare su dal fondo di un secchio dei fogli di carta, c'è ancora motivo per credere in un mondo diverso.








Solo due cose.
La prima è grazie. Un grazie infinitamente grande a tutte le persone che in questi giorni mi hanno scritto, che hanno condiviso con me il proprio stato d'animo riguardo al mio esperimento con la barchetta. Ho cercato di rispondere a tutti i messaggi ma non so se ci sono riuscito. In quel caso chiedo scusa, appena ho un secondo provvedo.
Grazie perché non è un momento facile per essere ottimisti, ma tutto questo affetto per me e i miei ragazzi aiuta. Tanto.

La seconda è per quei pochi commenti intrisi di odio, carichi di offese, che ho avuto la sfortuna di leggere. 
Ecco, volevo solo dirvi che il modo in cui questa piccola storia è rimbalzata dappertutto in pochissime ore mi ha fatto capire che potete urlare quanto volete, ma non farete mai il rumore che possono fare tre ragazzine di tredici anni chinandosi a raccogliere dei foglietti di carta da un secchio.
Non vincerete voi. State vincendo, sì. Ma non vincerete.


Guarda il video di Enrico Galiano da Massimo Gramellini


Omelia p. Gregorio Battaglia (VIDEO) - III Domenica del Tempo Ordinario / C - 27/01/2019



Omelia p. Gregorio Battaglia



 III Domenica del Tempo Ordinario / C - 

27/01/2019

Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto

... Tutto l'interesse di Gesù è quello di essere attento a tutti coloro che sono fuori dalla vita, coloro che hanno perso la speranza, coloro che sono oppressi, coloro che sono ciechi, coloro che non riescono più a reimpostare la propria esistenza e Lui scopre che questo è il senso della sua vita, per questo il Padre lo ha inviato in mezzo a noi, e lo ha inviato perché diventasse per noi questo segno del progetto di Dio, del Padre, quel Padre che non vuole gente che sia schiava, quel Padre che non sopporta l'inutilità delle persone, persone perdute non ne vuole vedere. E Gesù sente dentro di sé questa urgenza del Padre e dice: "oggi questa parola si compie per voi, voi che ascoltate".
E noi che siamo in questo atteggiamento di ascolto vogliamo guardare Gesù, vogliamo comprendere fino in fondo in che senso Lui è per noi liberazione, in che senso Lui è per noi spazio di accoglienza e ci permette di dare un respiro nuovo alla nostra vita, non più oppressa dai peccati, non più schiacciata, in Lui questa possibilità di respirare, ma anche imparare a fare della nostra vita questa attenzione...
Oggi si apre per noi l'anno dell'accoglienza, ma c'è accoglienza nel mio cuore?...
Io non mi sento di commentare questa pagina e non sentire il dolore e la vergogna di questi giorni ...

Guarda il video


VIAGGIO APOSTOLICO A PANAMA 23-28 GENNAIO 2019 - Santa Messa per la Giornata Mondiale della Gioventù: «Voi giovani siete l’adesso di Dio! ...Che voi possiate sentire di avere una missione, che vi lasciate innamorare, e il Signore deciderà tutto.» (cronaca, foto, testi e video)

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
A PANAMA IN OCCASIONE DELLA
XXXIV GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ
23-28 GENNAIO 2019

Domenica, 27 gennaio 2019

PANAMA
8:00 Santa Messa per la Giornata Mondiale della Gioventù nel Campo San Juan Pablo II – Metro Park

SANTA MESSA PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA GIOVENTÙ
Campo San Juan Pablo II – Metro Park (Panama)
Domenica, 27 gennaio 2019





“L’esperienza di comunione ecclesiale e di rinnovamento spirituale e pastorale che abbiamo vissuto insieme al Vicario di Cristo rimarrà impressa nella vita di ciascuno di noi”. A garantirlo è stato l’arcivescovo di Panama, mons. José Domingo Ulloa Mendieta, salutando il Papa all’inizio della Messa finale della Gmg al Metro Park, a cui partecipano circa 700mila giovani, molti dei quali hanno passato la notte qui, dopo la Veglia della sera precedente. “Questa ricchezza della fede, vissuta in allegria e speranza attraverso i tanti giovani, ci dice che cos’è la speranza, che è possibile realizzare i nostri sogni”. “Siamo convinti che i giovani del mondo che hanno vissuto questa Gmg hanno scoperto la Vergine Maria e il modello di impegno cristiano”, ha proseguito Ulloa: “Grazie per averci permesso di preparare, organizzare e celebrare questa Giornata mondiale della gioventù, dal sapore mariano, uno stile molto latinoamericano e caraibico, con spazi di preghiera, di formazione, di rinnovamento e di conversione pastorale”. “Inizia una nuova tappa nell’evangelizzazione di questo continente della speranza e nell’amore – ha annunciato il vescovo – nel quale i giovani ci spingono ad essere una Chiesa in uscita, a non aver paura di incontrarsi col mondo per annunciare la Buona Novella, con la passione dei discepoli e missionari di Gesù Cristo. Grazie, Santo Padre, per la sua fedeltà a Gesù Cristo e per il suo impegno nella Chiesa, con una Chiesa povera, vicina e misericordiosa. Grazie per averci ricordato che nessun progetto politico o sociale può essere fatto lasciando fuori i giovani”.

OMELIA DEL SANTO PADRE

«Nella sinagoga, gli occhi di tutti erano fissi su di lui. Allora cominciò a dire loro: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato”» (Lc 4,20-21).

Così il Vangelo ci presenta l’inizio della missione pubblica di Gesù. Lo presenta nella sinagoga che lo ha visto crescere, circondato da conoscenti e vicini e chissà forse anche da qualche sua “catechista” di infanzia che gli ha insegnato la legge. Momento importante nella vita del Maestro, con cui il bambino che si era formato ed era cresciuto in seno a quella comunità, si alzava in piedi e prendeva la parola per annunciare e attuare il sogno di Dio. Una parola proclamata fino ad allora solo come promessa di futuro, ma che in bocca a Gesù si poteva solo dire al presente, facendosi realtà: «Oggi si è compiuta».

Gesù rivela l’adesso di Dio che ci viene incontro per chiamare anche noi a prendere parte al suo adesso, in cui «portare ai poveri il lieto annuncio», «proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista», «rimettere in libertà gli oppressi» e «proclamare l’anno di grazia del Signore» (cfr Lc 4,18-19). È l’adesso di Dio che con Gesù si fa presente, si fa volto, carne, amore di misericordia che non aspetta situazioni ideali o perfette per la sua manifestazione, né accetta scuse per la sua realizzazione. Egli è il tempo di Dio che rende giusti e opportuni ogni situazione e ogni spazio. In Gesù inizia e si fa vita il futuro promesso.

Quando? Adesso. Ma non tutti quelli che là lo ascoltarono si sono sentiti invitati o convocati. Non tutti i vicini di Nazaret erano pronti a credere in qualcuno che conoscevano e avevano visto crescere e che li invitava a realizzare un sogno tanto atteso. Anzi, dicevano: “Ma non è il figlio di Giuseppe?” (cfr Lc 4,22).

Anche a noi può succedere la stessa cosa. Non sempre crediamo che Dio possa essere tanto concreto e quotidiano, tanto vicino e reale, e meno ancora che si faccia tanto presente e agisca attraverso qualche persona conosciuta come può essere un vicino, un amico, un familiare. Non sempre crediamo che il Signore ci possa invitare a lavorare e a sporcarci le mani insieme a Lui nel suo Regno in modo così semplice ma incisivo. Ci costa accettare che «l’amore divino si faccia concreto e quasi sperimentabile nella storia con tutte le sue vicissitudini dolorose e gloriose» (Benedetto XVI, Catechesi, 28 settembre 2005).

E non sono poche le volte in cui ci comportiamo come i vicini di Nazaret, quando preferiamo un Dio a distanza: bello, buono, generoso, ben disegnato, ma distante e, soprattutto che non scomodi, un Dio “addomesticato”. Perché un Dio vicino e quotidiano, un Dio amico e fratello ci chiede di imparare vicinanza, quotidianità e soprattutto fraternità. Egli non ha voluto manifestarsi in modo angelico o spettacolare, ma ha voluto donarci un volto fraterno e amico, concreto, familiare. Dio è reale perché l’amore è reale, Dio è concreto perché l’amore è concreto. Ed è precisamente questa «concretezza dell’amore ciò che costituisce uno degli elementi essenziali della vita dei cristiani» (cfr Id., Omelia, 1 marzo 2006).

Anche noi possiamo correre gli stessi rischi della gente di Nazaret, quando nelle nostre comunità il Vangelo vuole farsi vita concreta e cominciamo a dire: “ma questi ragazzi, non sono figli di Maria, di Giuseppe, non sono fratelli di?… parenti di…? Questi non sono i ragazzini che noi abbiamo aiutato a crescere?… Che stia zitto, come possiamo credergli? Quello là, non era quello che rompeva sempre i vetri col pallone?”. E uno che è nato per essere profezia e annuncio del Regno di Dio viene addomesticato e impoverito. Voler addomesticare la Parola di Dio è una tentazione di tutti i giorni.

E anche a voi, cari giovani, può succedere lo stesso ogni volta che pensate che la vostra missione, la vostra vocazione, perfino la vostra vita è una promessa che però vale solo per il futuro e non ha niente a che vedere col presente. Come se essere giovani fosse sinonimo di “sala d’attesa” per chi aspetta il turno della propria ora. E nel “frattanto” di quell’ora, inventiamo per voi o voi stessi inventate un futuro igienicamente ben impacchettato e senza conseguenze, ben costruito e garantito e con tutto “ben assicurato”. Non vogliamo offrirvi un futuro di laboratorio! È la “finzione” della gioia, non la gioia dell’oggi, del concreto, dell’amore. E così con questa finzione della gioia vi “tranquillizziamo”, vi addormentiamo perché non facciate rumore, perché non disturbiate troppo, non facciate domande a voi stessi e a noi, perché non mettiate in discussione voi stessi e noi; e in questo “frattanto” i vostri sogni perdono quota, diventano striscianti, cominciano ad addormentarsi e sono “illusioni” piccole e tristi (cfr Omelia della Domenica delle Palme, 25 marzo 2018), solo perché consideriamo o considerate che non è ancora il vostro adesso; che siete troppo giovani per coinvolgervi nel sognare e costruire il domani. E così continuiamo a rimandarvi… E sapete una cosa? A molti giovani questo piace. Per favore, aiutiamoli a fare in modo che non gli piaccia, che reagiscano, che vogliano vivere l’“adesso” di Dio.

Uno dei frutti del recente Sinodo è stata la ricchezza di poterci incontrare e, soprattutto, ascoltare. La ricchezza dell’ascolto tra generazioni, la ricchezza dello scambio e il valore di riconoscere che abbiamo bisogno gli uni degli altri, che dobbiamo sforzarci di favorire canali e spazi in cui coinvolgerci nel sognare e costruire il domani già da oggi. Ma non isolatamente, uniti, creando uno spazio in comune. Uno spazio che non si regala né lo vinciamo alla lotteria, ma uno spazio per cui anche voi dovete combattere. Voi giovani dovete combattere per il vostro spazio oggi, perché la vita è oggi. Nessuno ti può promettere un giorno del domani: la tua vita è oggi, il tuo metterti in gioco è oggi, il tuo spazio è oggi. Come stai rispondendo a questo?

Voi, cari giovani, non siete il futuro. Ci piace dire: “Voi siete il futuro...”. No, siete il presente! Non siete il futuro di Dio: voi giovani siete l’adesso di Dio! Lui vi convoca, vi chiama nelle vostre comunità, vi chiama nelle vostre città ad andare in cerca dei nonni, degli adulti; ad alzarvi in piedi e insieme a loro prendere la parola e realizzare il sogno con cui il Signore vi ha sognato.

Non domani, adesso, perché lì, adesso, dov’è il tuo tesoro, lì c’è anche il tuo cuore (cfr Mt 6,21); e ciò che vi innamora conquisterà non solo la vostra immaginazione, ma coinvolgerà tutto. Sarà quello che vi fa alzare al mattino e vi sprona nei momenti di stanchezza, quello che vi spezzerà il cuore e che vi riempirà di meraviglia, di gioia e di gratitudine. Sentite di avere una missione e innamoratevene, e da questo dipenderà tutto (cfr Pedro Arrupe, S.J., Nada es más práctico). Potremo avere tutto, ma, cari giovani, se manca la passione dell’amore, mancherà tutto. La passione dell’amore oggi! Lasciamo che il Signore ci faccia innamorare e ci porti verso il domani!

Per Gesù non c’è un “frattanto”, ma un amore di misericordia che vuole penetrare nel cuore e conquistarlo. Egli vuole essere il nostro tesoro, perché Gesù non è un “frattanto” nella vita o una moda passeggera, è amore di donazione che invita a donarsi.

È amore concreto, di oggi vicino, reale; è gioia festosa che nasce scegliendo di partecipare alla pesca miracolosa della speranza e della carità, della solidarietà e della fraternità di fronte a tanti sguardi paralizzati e paralizzanti per le paure e l’esclusione, la speculazione e la manipolazione.

Fratelli, il Signore e la sua missione non sono un “frattanto” nella nostra vita, qualcosa di passeggero, non sono soltanto una Giornata Mondiale della Gioventù: sono la nostra vita di oggi e per il cammino!

Per tutti questi giorni in modo speciale ci ha accompagnato come una musica di sottofondo il fiat di Maria. Lei non solo ha creduto in Dio e nelle sue promesse come qualcosa di possibile, ha creduto a Dio e ha avuto il coraggio di dire “sì” per partecipare a questo adesso del Signore. Ha sentito di avere una missione, si è innamorata e questo ha deciso tutto. Che voi possiate sentire di avere una missione, che vi lasciate innamorare, e il Signore deciderà tutto.

E come avvenne nella sinagoga di Nazaret, il Signore, in mezzo a noi, ai suoi amici e conoscenti, di nuovo si alza in piedi, prende il libro e ci dice: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21).

Cari giovani, volete vivere la concretezza del suo amore? Il vostro “sì” continui ad essere la porta d’ingresso affinché lo Spirito Santo doni una nuova Pentecoste, alla Chiesa e al mondo. Così sia.


Guarda il video dell'omelia


SALUTO FINALE

Al termine di questa celebrazione, rendo grazie a Dio per averci dato la possibilità di condividere questi giorni e vivere nuovamente questa Giornata Mondiale della Gioventù.

In modo particolare desidero ringraziare per la sua presenza a questa celebrazione il Signor Presidente di Panamá, Juan Carlos Varela Rodríguez, come pure i Presidenti di altre Nazioni e le altre Autorità politiche e civili.

Ringrazio Mons. José Domingo Ulloa Mendieta, Arcivescovo di Panamá, per la sua disponibilità e i suoi buoni uffici per accogliere nella sua Diocesi questa Giornata, così come gli altri Vescovi di questo Paese e dei Paesi vicini, per tutto quello che hanno fatto nelle loro comunità per dare alloggio e aiuto a tanti giovani.

Grazie a tutte le persone che ci hanno sostenuto con la loro preghiera e che hanno collaborato col loro impegno e il loro lavoro per far diventare realtà il sogno della Giornata Mondiale della Gioventù in questo Paese.

E a voi, cari giovani, un grande «grazie». La vostra fede e la vostra gioia hanno fatto vibrare il Panamá, l’America e il mondo intero. Come abbiamo ascoltato tante volte in questi giorni nell’inno di questa Giornata: “Siamo pellegrini che veniamo oggi qui da continenti e città”. Siamo in cammino: continuate a camminare, continuate a vivere la fede e a condividerla. Non dimenticatevi che non siete il domani, non siete il “frattanto”, ma l’adesso di Dio.

Già è stata annunciata la sede della prossima Giornata Mondiale della Gioventù. Vi chiedo di non lasciar raffreddare ciò che avete vissuto in questi giorni. Ritornate alle vostre parrocchie e comunità, nelle vostre famiglie e dai vostri amici, trasmettete quello che avete vissuto, perché altri possano vibrare con la forza e la speranza concreta che voi avete. E con Maria continuate a dire “sì” al sogno che Dio ha seminato in voi.