sabato 29 settembre 2018

La rivoluzione che avanza. Quella dei migranti - Impariamo dal naufragio di Giona di Raniero La Valle


La rivoluzione che avanza. 
Quella dei migranti
Paul Brill, Il naufragio di Giona (1589)

“Approdi e naufragi” è stato il tema del convegno de L’altra pagina a Città di Castello l’8 e 9 settembre scorso. A queste parole ha dato un senso – anche alla luce della successiva approvazione, il 24 settembre, del Decreto sicurezza e immigrazione del “Governo Salvini” – il primo giorno dei lavori, Raniero La Valle con la sua relazione “Impariamo dal naufragio di Giona”
Il naufragio è innanzitutto quello dei migranti. Per ciò stesso, si porta dietro il «naufragio della comune umanità». L’approdo, di questi tempi tanto negato ai naufraghi, è «la rivoluzione che riesce»: il rivolgimento operato dai migranti, perché «i migranti non si possono fermare», disarmati come sono; e perché ci insegnano che «se siamo cittadini per noi, siamo stranieri per gli altri», «siamo tutti stranieri». 

A seguire il testo integrale della relazione.

Impariamo dal naufragio di Giona
di Raniero La Valle

Un discorso sui migranti dovrebbe cominciare con le statistiche. Dovrebbe dire per esempio che nel 2016 cinquemila sono stati i morti nel Mediterraneo, in media 14 al giorno: è la cifra più alta perché nel 2015 i morti erano stati 3.771, mentre nel 2017 le vittime sono state 3.081.

Dovrebbe poi dire che dal 1 gennaio al 22 giugno 2018 i migranti sbarcati in Italia sono stati solo 16.316, e che in Italia ci sono solo 2,4 rifugiati ogni 1000 abitanti, che è tra le percentuali più basse in Europa.

Un discorso sui migranti dovrebbe dire che nel 2017 ci sono stati 68 milioni e cinquecentomila persone vaganti e costrette alle fuga. I richiedenti asilo che all’inizio dell’anno scorso erano in attesa di una decisione sulla loro richiesta di protezione erano 3 milioni centomila.

Un discorso sui migranti dovrebbe dire che la maggior parte delle persone in fuga sono giovani, nel 53 per cento dei casi sono minori, molti dei quali non accompagnati o separati dalle loro famiglie. Dovrebbe dire che entro il 2050 si prevede che ci saranno nel mondo 250 milioni di migranti ambientali ed esuli che fuggono da guerre e repressioni.

Però un discorso sui migranti non si può fare sui numeri. Le persone non sono numeri. I 150 naufraghi che il governo italiano si è rifiutato per giorni e giorni di far sbarcare a Catania dalla motonave Diciotti rappresentano una tragedia morale e politica più grave rispetto ai 3.000 naufraghi scomparsi in mare senza che nessuno potesse dar loro soccorso.

D’altronde ci sono altri numeri non meno agghiaccianti di quelli che riguardano i profughi: per esempio i numeri che denunciano l’orrore di un fenomeno che credevamo scomparso, la schiavitù. Nel mondo ci sono 45 milioni e 800.000 schiavi; 18 milioni 300.000 solo in India, ma alcune stime parlano di 200 milioni di persone che nel mondo sono in condizioni di schiavitù, nonostante la sua abolizione ufficiale. Anche l’Europa non ne è esente, in Italia si calcola che ce ne siano 128.000, per molti si parla di nuove schiavitù, come quella della tratta degli esseri umani, dello sfruttamento sessuale di donne e bambine considerate come oggetto di proprietà, della vendita di organi. E poi ci sono i numeri spaventosi di tutte le guerre, dal mezzo milione di morti della guerra irachena ai 350.000 della guerra siriana, alle innumerevoli vittime della guerra mondiale a pezzi che, come dice il papa, abbraccia di fatto tutto il mondo. Quindi ci sono statistiche peggiori di quelle che riguardano i migranti.

Però ci sono numeri e numeri. E c’è una ragione per la quale i numeri che riguardano i migranti sono oggi più importanti di tutti gli altri numeri. Perché sono i numeri di un fenomeno che segnala e causa un passaggio d’epoca. Le grandi migrazioni in corso ci dicono che stiamo passando da una a un’altra età del mondo, che siamo nel pieno di una discontinuità storica. È come se stessimo scoprendo un’altra volta che la terra è tonda, e tutto dipende da come vi reagiremo, così come tutto dipese da come si reagì alla scoperta dell’America. È su come rispondere a questa novità dirompente che massimamente sono chiamate in causa la nostra etica, la nostra cultura, la nostra politica, il nostro diritto, cioè la nostra capacità di stare al mondo e di dare un ordine al mondo.

Naturalmente è chiamata in causa anche la nostra fede; ma io oso sperare che la nostra fede la risposta ce l’abbia e che anzi, con papa Francesco, questa risposta l’abbia già data, come del resto l’ha data qualche giorno fa la Chiesa italiana nel caso della liberazione dei migranti prigionieri a Catania, e non certo per fare un piacere a Salvini.

Vi ho detto i motivi per i quali il discorso sui migranti non può essere il discorso dei numeri, dei flussi, non può essere il calcolo di quanti ne potremmo accogliere perché facciano loro i lavori che ci servono o di quanti addirittura ne avremmo bisogno in Italia e in Europa per compensare il nostro deficit demografico, il nostro egoismo procreativo; questo sarebbe ancora un modo utilitaristico e usuraio di affrontare il problema, anche se purtroppo è proprio questo il modo mercantile e meschino con cui questo problema è affrontato dall’Europa in declino.

Il naufragio fondatore

Vorrei invece parlare dei migranti come del kairós del tempo che viene. E prima di parlare degli approdi, che del resto sono negati, dobbiamo parlare dei naufragi.

Per farlo io vorrei risalire dai naufragi di oggi a un altro naufragio, che è un po’ il prototipo dei naufragi nel Mediterraneo, è un po’ il naufragio fondatore della storia del Mediterraneo. Freud parla di un delitto fondatore che sta all’origine delle società e delle culture. Io vorrei parlare qui di un naufragio fondatore.

Il naufragio fondatore è quello di Giona, il profeta. Come sapete dal racconto biblico, la sua presenza sulla nave che da Giaffa andava a Tarsis è causa di una grande tempesta, e allora i marinai per salvarsi lo gettano a mare, e lì nel cuore del mare le acque lo sommergono, l’abisso lo avvolge, l’alga si avvince al suo capo, la terra chiude le sue spranghe dietro di lui, e nel contempo il mare placa la sua furia.

Dunque col naufragio di Giona sembra che tutto sia finito; i marinai che lo hanno gettato in mare sono in salvo, e così anche la nave, il Mediterraneo è ritornato calmo, le terre che lo circondano sono al sicuro, mentre il naufrago è scomparso, inghiottito dai flutti, non darà più fastidio e pena a nessuno. È un po’ quello che pensiamo noi, che pensa l’Europa, quando i barconi dei profughi spariscono dai radar, non importa dove siano andati a finire, tanto sono numeri, di morti, di dispersi oppure di respinti, di deportati lì dove non vorrebbero andare.

Ma così non è, non tutto è finito: Giona, inghiottito da un pesce, è da questo rigettato sull’asciutto e torna a incombere sul futuro come una partita che non si è chiusa. Infatti il pericolo rappresentato da Giona diventa ancora maggiore di quello di prima, perché si volgerà contro la grande città che troneggia sulla terraferma a cui egli annunzierà addirittura la distruzione, in pratica il genocidio, pretendendo che sia Dio stesso ad eseguirlo. In effetti non si sa in che modo debba avvenire la distruzione e lo sterminio di Ninive; secondo la Bibbia sarà opera di Dio, ma qui la Bibbia si sbaglia, Dio non fa nessun genocidio, però ancora non era venuto Gesù a dirlo, non era ancora venuto a fare l’esegesi di Dio, e quindi la Bibbia non lo sa. E così anche noi oggi non sappiamo chi sarà nel nostro tempo a perpetrare devastazioni e genocidi. Però una cosa la Bibbia ebraica sapeva, e una cosa possiamo sapere anche noi; che se Ninive si converte, se i cittadini di Ninive, dal più grande al più piccolo, si ravvedono e cambiano la loro condotta, e se i re di Ninive, invece di diffondere odio e paura, si alzano dal trono e chiedono che ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani, la città non sarà distrutta, e il genocidio non ci sarà.

Il nostro naufragio

Questo apologo può aiutarci a capire la situazione in cui siamo.

Siamo in una situazione di naufragio. Ma il naufragio non è principalmente quello dei migranti. È il nostro naufragio. Quando a livello di governo, col favore dell’opinione pubblica monitorato dai sondaggi, si arriva a concepire una sorta di Guantanamo italiana, e si tengono prigionieri 150 naufraghi su un nave militare italiana nel porto di Catania, questo è un naufragio. È il naufragio della comune umanità; ma è anche il naufragio della Costituzione italiana, che all’art. 13 dice che la libertà personale è inviolabile, che nessuno può coartarla se non un giudice e secondo la legge, e questo vale non solo per i cittadini ma per tutti, né possono esistere nel nostro ordinamento zone franche dal diritto. Il ministro dell’Interno è giustamente indagato perché egli non ha alcun potere sulla vita e sulla libertà delle persone recuperate in mare alle quali non può impedire lo sbarco e l’esercizio dei propri diritti, sia il diritto di chiedere l’asilo, sia il diritto alla protezione dei minori, sia il diritto alla salute, e in ogni caso il diritto alla vita.

Ma il naufragio è anche quello dell’Europa, e qui Salvini ha ragione, perché le frontiere che si chiudono in Italia sono le frontiere che aveva già chiuso l’Europa, sono le norme di sbarramento dello scellerato trattato di Dublino, sono i fili spinati tesi a bloccare la rotta dei Balcani, sono la caccia ai profughi a Ventimiglia e sulle Alpi francesi, sono le baracche dei migranti rase al suolo e bruciate nella città satellite o “giungla” di Calais, come sono le motovedette italiane fornite dal ministro Minniti alla Libia perché catturino e riportino i fuggiaschi negli inferni da cui sono usciti.

E il naufragio è anche quello degli Stati Uniti dove Trump innalza ed allunga il muro col Messico già costruito da Clinton e da Obama.

Allora ecco in che consiste il vero naufragio. Esso consiste nel ricadere in quella notte oscura da cui l’Europa e il mondo erano usciti alla fine della Seconda guerra mondiale. E fu quando essi decisero che mai più avrebbe dovuto esserci un genocidio, e che anzi quella parola nuova che era stata coniata per definirlo sarebbe stata una parola destinata a morire insieme alla realtà da lei nominata, che non avrebbe dovuto prodursi mai più. Per questo il primo atto che le Nazioni che si erano unite nella guerra antifascista e si incontrarono a San Francisco per dare inizio a un mondo nuovo, fu la Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio. Il Novecento non era stato avaro di genocidi, anche se nessuno ancora li aveva chiamati così: dal genocidio degli Armeni a inizio del secolo a quello degli Ebrei al culmine dei suoi orrori, ma anche degli zingari e di altre specifiche aggregazioni umane che si volevano eliminare come tali, dagli omosessuali ai dissidenti politici, agli uomini considerati di qualità inferiore.

Perciò nella Convenzione contro il genocidio si ebbe cura di affermare che si intende per genocidio non solo lo sterminio di un popolo intero, ma ogni atto volto «a distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso come tale»; dunque il popolo che la Convenzione intende tutelare è ogni gruppo umano accomunato da fattori e circostanze che fortemente lo identificano; e tra gli atti sanzionati per tale crimine vengono esplicitati le lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo, la sottoposizione del gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale, le misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo.

Se ora applichiamo tali criteri alla specifica condizione umana dei migranti, vediamo come anch’essi siano un popolo, un popolo in cammino, di uomini e donne che in gruppi ed aggregazioni le più diverse, insieme affrontano il mare o le rotte terrestri per andare da un Paese all’altro, tutti muovendosi con le stesse motivazioni e condividendo lo stesso destino; ed è questo popolo come tale, nelle sue diverse espressioni, che l’Occidente e molti Paesi d’arrivo respingono e perseguono per la sola e comune ragione che si tratta di un popolo di migranti; si tratta cioè di aggregati umani che le politiche e gli ordinamenti di questi Stati negano nel loro stesso diritto di esistere, di avere una cittadinanza, di essere ricompresi nelle regole del diritto; e proprio come è vietato nella Convenzione dell’ONU, i membri di questi gruppi sono esposti a lesioni gravi della loro integrità fisica e mentale, e i gruppi stessi sottoposti a condizioni che di fatto li distruggono in modo totale o parziale, le donne sono messe in condizioni per cui sono impedite le nascite, e spesso i fanciulli sono separati dal gruppo e forzatamente inclusi in un altro.

Perciò in un appello partito da un’assemblea di “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”, appello che ha poi raccolto migliaia di firme a cominciare da quelle di quattro Premi Nobel per la pace, noi abbiamo definito il delitto che si commette nei confronti delle collettività dei migranti come un genocidio. Si tratta di un appello a resistere a questa deriva omicida, per dare luogo invece a «un mondo non genocida» – non più genocida – che, come vorrebbe essere la Chiesa di papa Francesco, sia patria di tutti e soprattutto patria dei poveri.

Il documento parte dalla denuncia che oggi si ragiona, si decide e si governa come se la scelta di porre fine all’età dei genocidi nel ‘45 non ci fosse stata. E infatti il rifiuto, anche italiano, di firmare il Trattato per l’interdizione delle armi nucleari, la minaccia di combattersi con l’atomica tra Corea del Nord e Stati Uniti, la distruzione di popoli interi per abbatterne dittatori e regimi, l’economia che uccide concentrando le ricchezze nelle mani di pochi e attentando alla vita di popolazioni intere, la devastazione dell’habitat naturale della terra, sono altrettante forme di genocidio, attuato o promesso; e quanto alla questione dei profughi il genocidio consiste nel fatto che «intercettare il popolo dei migranti e dei profughi, fermarlo coi muri e coi cani, respingerlo con navi e uomini armati, discriminarlo secondo che fugga dalla guerra o dalla fame e toglierlo alla vista così che non esista per gli altri, significa fondare la civiltà sulla cancellazione dell’altro, che è lo scopo del genocidio».

E ancora possiamo dire, come dice il documento che «riguardo al popolo dei migranti, un popolo fatto di molte nazioni, l’illusione di salvare la civiltà scartando pezzi di mondo è particolarmente infelice, perché il rifiuto di accogliere migranti e profughi li rende clandestini, li trasforma in rei non di un fare, ma di un esistere. La conseguenza è che gli stessi Stati di diritto e di democrazia costituzionale tradiscono se stessi perché accanto ai cittadini soggetti di diritto concentrano masse di persone illegali, giuridicamente invisibili e perciò esposte a qualunque vessazione e sfruttamento, pur avendo tutti non solo lo stesso suolo che li accoglie ma lo stesso sangue» umano che li nutre.

Una resistenza messianica

È contro tutto questo allora che bisogna reagire e resistere. Però c’è un’importante novità. Ci sembra infatti di dover dire che la resistenza oggi necessaria non sia una resistenza qualsiasi, una resistenza ordinaria come quella che nel Novecento si oppose ai fascismi, ma debba essere una resistenza messianica.

Perciò quel nostro appello a resistere l’abbiamo chiamato katécon. Katécon è la parola che usa san Paolo nella II lettera ai Tessalonicesi per descrivere la resistenza, la forza frenante che dovrà intercettare le forze della distruzione e impedire che il mondo abbia fine. Perché saremo in pericolo. Quello che sarà all’opera, in quei tempi decisivi, dice san Paolo, sarà il mistero dell’anomia, sarà l’anomos, che alcuni interpreti traducono come l’anticristo. Nella realtà si tratta della perdita di ogni legge, dello scempio e della perdita del diritto, della pretesa dell’uomo e del potere “senza legge”, anomos appunto, di mettersi al di sopra di tutto additando se stesso come Dio. Sono gli idoli. Questa è la previsione di san Paolo. Ora, secolarizzando questo concetto teologico, come l’Occidente a dire di Carl Schmitt ha sempre fatto fin qui, possiamo dire che è proprio questo il punto a cui oggi noi siamo, in questa fase selvaggia della globalizzazione capitalistica, che riconosce solo la legge del denaro e calpesta ogni altra legge, riducendo a nulla i diritti di tutti.

La resistenza messianica, il katècon, consiste appunto in questo, che contro il meccanismo idolatrico avanzante, sia in campo una forza frenante, una volontà antagonista che lo trattenga, lo arresti, ne abbia ragione. Noi pensiamo che questa forza che trattiene, questo antagonista che si alzi e impedisca che i popoli siano devastati, siano i popoli stessi. Sono i popoli stessi che devono operare il cambiamento, cambiando anzitutto se stessi, uscendo ciascuno dall’autoidolatria del “noi per primi”, del “prima l’America”, “prima l’Europa”, “prima l’Italia”, “prima la Padania”. Sono i popoli che cambiando se stessi cambiano la storia, sono Ninive che si ravvede, sono i re di Ninive che invece di esercitare il dominio convertono il potere e lo mettono al servizio della causa della liberazione.

Quello che noi vediamo è un rovesciamento, del resto annunciato dal Vangelo, per cui le vittime diventano esse stesse le artefici della vittoria.

Una rivoluzione che riesce

Protagonista di questo rivolgimento è proprio il popolo dei migranti. È chiaro che le migrazioni non si potranno fermare, e in questo Salvini è già sconfitto, ma anche l’Europa è sconfitta. Del resto non siamo stati noi a deciderlo; a deciderlo sono stati proprio gli apprendisti stregoni che vorrebbero ora fermare i flussi che essi stessi hanno suscitato. Hanno voluto una globalizzazione incontrollata, che il denaro avesse libero transito da un capo all’altro della Terra, hanno creato supermercati e centri commerciali che sono uguali in tutto il mondo, hanno voluto cancellare le differenze, sopprimere le monete, ridurre l’uomo all’unico modello dell’homo oeconomicus, e farne nient’altro che un consumatore, hanno voluto trasformare i cittadini in clienti, i partiti in comitati d’affari, hanno mercificato e uniformato i format televisivi in tutto il mondo, livellato la comunicazione, censurato l’informazione, e dopo tutto questo vorrebbero che persone e popoli se ne stessero fermi dove stanno, non si mettessero in movimento per andare da una parte all’altra della Terra creando nuovi equilibri, come fanno i liquidi in un sistema di vasi comunicanti? I migranti non si possono fermare perché non arrivano con armi e bastoni, come forse avrebbero motivo di fare dato che, come ha detto l’arcivescovo di Palermo, noi siamo stati i loro predoni, siamo stati «i predoni dell’Africa» e non solo. Ma se venissero in armi sarebbe un gioco fermarli, potenti come siamo. Invece arrivano nudi ed inermi e si fanno salvare da noi. Per questo sono invincibili. Salvini dice di aver vinto perché 100 profughi della Diciotti li ha presi la Chiesa italiana. Ma appunto questo vuol dire che sono entrati in Italia, insieme ai malati sbarcati già prima, non sono stati respinti e sono stati salvati da noi. E così avverrà anche in futuro. Se i migranti sono una rivoluzione, questa è una rivoluzione che riesce.

I soggetti della liberazione

E qui c’è la risposta ad una domanda che ci ponemmo in un convegno a Cortona nel 1986, nel momento in cui il comunismo stava finendo e noi dicemmo che non per questo doveva venir meno l’istanza della rivoluzione. Insieme a Claudio Napoleoni e alla migliore intelligenza cattolica del tempo, dicemmo che la rivoluzione che restava necessaria non era definibile, come avevano fatto i comunisti fino ad allora, solo come un’«uscita dal capitalismo», ma più radicalmente doveva essere un’uscita dal sistema di dominio e di guerra. Uscire dal sistema di dominio voleva dire anche rovesciare il dominio delle cose sull’uomo, del prodotto su chi lo produce, voleva dire rovesciare il dominio dell’uomo sull’uomo, di un popolo sugli altri popoli, e privare lo stesso dominio del suo strumento sovrano, la guerra. Una bella rivoluzione da fare, non violenta. Ma quali avrebbero potuto essere i soggetti di questa rivoluzione? La classe operaia non c’era più, qualcuno disse che allora sarebbero state le donne, altri dissero i giovani, altri i popoli nuovi, le masse oppresse del Terzo Mondo. Nessuna di queste ipotesi si è avverata, e la rivoluzione non c’è stata.

Ora quella dei migranti è una vera rivoluzione. Basta vedere come stiano facendo saltare gli equilibri politici in Europa, basta vedere come stiano smascherando il mitico sogno americano negli Stati Uniti. Ebbene, l’unico modo in cui la crisi dei migranti si può concludere, che sia all’altezza della sfida, è il riconoscimento dello ius migrandi, del diritto di migrazione come diritto fondamentale umano universale, come fu già proclamato all’inizio della modernità ma oggi è negato. E allora sarà una vera rivoluzione, in quanto tutto dovrà cambiare nell’economia, nella cultura e nel diritto, perché un mondo dove nessuno sia straniero non può essere organizzato come è stato fin qui, cioè come un mondo di cittadini e stranieri, comunitari ed extracomunitari, Romani e Barbari, Greci e Sciti, Ebrei e Gentili.

Ebbene i soggetti di questa rivoluzione sono i migranti stessi. Essi non sono turisti, viaggiatori, deportisti, “palestrati” come dice la volgarità di quanti lottano contro di loro. L’ONU non li chiama nemmeno migranti. Sono rifugiati, fuggiaschi, richiedenti protezione e asilo, sfollati interni, Internally Displaced People, ed è impossibile distinguere tra migranti economici e politici. Sono soggetti rivoluzionari perché non dicono, ma fanno, mettono in gioco i loro corpi, usano mani e piedi, lottano per la vita dando la vita, perseguono un fine che se raggiunto non vale solo per loro, ma per tutti, perché ne verrebbe un mondo diverso e magari questo fine sarà raggiunto per altri, non da loro. Per questo sono rivoluzionari, e sono non violenti perché non mettono in questione il sistema con le armi, ma ne svelano l’ottusità e ingiustizia col semplice muoversi, andare, sfidare il mare ma anche le torture e i lager. Fanno obiezione di coscienza a un mondo che non li vuole.

Si può fare la controrivoluzione contro di loro, ma come si è visto non funziona. E allora ci vuole un’altra risposta. La risposta politica è quella di passare, nell’ordinamento giuridico, dal riconoscimento del diritto d’asilo (come c’è anche nella Costituzione italiana) all’affermazione come diritto universale dello ius migrandi (che non è solo il diritto di lasciare il proprio Paese, già riconosciuto dalla Convenzione internazionale sui diritti civili e politici, ma è il diritto di stabilirsi in qualsiasi Paese); ciò vuol dire aprire porti e frontiere, far viaggiare su navi ed aerei, sancire la libertà di circolazione delle persone e non solo del denaro e delle merci in tutto il mondo.

Ma questa risposta politica ha bisogno di una motivazione non solo di opportunità o utilità, ha bisogno di una motivazione molto più profonda. Si tratta infatti di rispondere a una radicale esigenza che riguarda lo stesso ordine umano. La vera risposta è riconoscere la vera ragione per cui questa diversa risposta deve essere data.

E la ragione è l’unità e l’eguaglianza della intera famiglia umana, che forma un solo corpo oltre ogni diversità di nazioni, di culture, di lingua, di condizioni economiche e sociali, di religioni.

In molti modi si può parlare di questa unità della famiglia umana, che storicamente è sempre stata lacerata e divisa, ma anche sempre ha conosciuto l’anelito a una ricomposizione, ha sentito la spinta a una progressiva contaminazione e integrazione. Il meticciato è stato storicamente un fenomeno ben più potente della fissità identitaria. Francisco De Vitoria all’inizio dell’età moderna, vi rintracciava un diritto originario, quando scriveva nella sua Relectio de Indis che «all’inizio del mondo, quando tutto era comune, era lecito a ognuno trasferirsi e muoversi in qualunque regione volesse; ora non pare che la divisione dei territori abbia annullato questo diritto, dal momento che l’intenzione dei popoli non è mai stata di abolire, con quella divisione, la comunicazione reciproca fra gli uomini. Non sarebbe lecito ai francesi proibire agli spagnoli di muoversi in Francia o anche di vivervi, né viceversa, purché questo non rechi loro danno e tanto meno faccia loro torto», e questo perché totus orbis aliquo modo est una respublica, tutto il mondo in qualche modo è una repubblica. Questa dunque è un’aspirazione che già appartiene alla nostra cultura: un’unità che non faccia torto alle differenze.

Ma la risposta più radicale che dà ragione dell’innegabile unità della famiglia umana, la vorrei trarre da una suggestione ricevuta in occasione dell’ultima festa del Corpus Domini. Nella lettura biblica prima della festa una suora camaldolese, ha ricordato che in un’antica liturgia romana della Messa c’erano due “epiclesi”, cioè due invocazioni, prima della consacrazione; nella prima si chiedeva, come di consueto, che il pane e il vino si trasformassero nel corpo e nel sangue di Cristo, nella seconda si chiedeva che fossero i partecipanti al rito a trasformarsi essi stessi nel corpo e nel sangue del Signore: questo infatti è l’eucarestia. In tal modo mentre il pane e il vino diventano il “corpo mistico” di Cristo, rappresentando così il “mistero” che non si vede, gli uomini, le donne, i poveri, i popoli, la storia, diventano il “corpo reale di Cristo”, che invece si vede. «Non è un’immagine, ma è realmente carne» hanno scritto di recente i gesuiti della Civiltà Cattolica.

Un altro gesuita, Henri De Lubac, commentando un testo della Didaché, ci ha trasmesso la celebre analogia: «Come il pane e il vino sono formati da una miriade di chicchi di grano e di gocce spremute da grappoli d’uva, così questa comunità si forma dall’unificarsi di tutte le persone che partecipano all’eucarestia e diventano membri dell’unico corpo di Cristo». Le analogie non sono innocue; e questa, portata fino in fondo, dice che questa unità si realizza, secondo il gesto compiuto da Gesù, se il pane viene spezzato, e in quanto spezzato viene poi condiviso e così si ristabilisce l’unità.

Così è dell’unità di tutti gli uomini tra loro. Prima essa è spezzata, frantumata, dispersa; poi, in forza della condivisione realizzata tra loro, essi giungeranno all’unità.

Oggi siamo all’umanità spezzata; e mai la sua carne è stata più frantumata e lacerata come da quando celebriamo la libertà della globalizzazione che non può realizzarsi che in forza di un capitalismo integrale, di quel neoliberismo ignaro delle persone e dei corpi che papa Francesco ha chiamato «globalizzazione dell’indifferenza».

È questa umanità spezzata che va ora ricomposta. Viene perciò il tempo dell’umanità condivisa. Il compito più grande, il vero cambiamento non solo per l’Italia, ma per l’Europa e per il mondo, è di portare all’unità la carne spezzata delle nostre storie divise, mediante culture e politiche di condivisione, estendendo alle persone la libertà di muoversi e di stabilirsi che abbiamo dato alle cose. Per questo lo slogan “Prima l’America”, o uno che fosse “Prima i bianchi”, ma anche, quello oggi più in auge, “Prima i cittadini”, sono contro il nuovo traguardo dell’umano. Perché siamo tutti di colore, e siamo tutti stranieri. Infatti se siamo cittadini per noi, siamo stranieri per gli altri, e gli altri sono cittadini per noi. Certo non è per oggi raggiungere questo traguardo, ma questo è il cammino da iniziare, questo è il percorso, su questo va giudicato ogni cambiamento e promessa di cambiamento.

Se questo faremo non faremo naufragio, o almeno torneremo ad uscire dal ventre del pesce, e tutti insieme arriveremo all’approdo.


(fonte: Adista Documenti n° 34 del 06/10/2018)

Giotto, Giona e la balena

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