Il Crocifisso non può essere espressione di razzismo ma accoglienza per tutti
di Cristiana Dobner
Chi nelle proprie casa ospita il Crocifisso non intende ostentare un proclama sociologico, diventare attivista di chissà mai quale movimento oppure, peggio ancora, mistificarsi da credente. Brandirlo è un atto che squalifica, che riconduce al pc… non sanno appunto quello che fanno e ingannano chi non riflette, quelli a cui nessuno ha dato testimonianza di fede e mai ha insegnato a pensare
Il legame profondo fra gesto, simbolo e vocabolo esiste ancora?
La grammatica comunicativa oggi appare stravolta.
Nella nostra società in cui le immagini, giustamente, giocano un ruolo essenziale e diventano parte del nostro modo di pensare e di sentire, corriamo anche il grave rischio della mancanza di riflessione che, se non vuole escludere l’immagine non vuole però lasciarsene fagocitare e plasmare.
Pare davvero di essere ridotti al livello del pc, peraltro stupendo strumento in mano al cervello umano, pericoloso strumento di degrado quando incamera la personalità, la travolge e la rende dipendente.
Ripropongo quanto un personaggio ben quotato- John Searle- ha espresso con poche parole: i computer posseggono la sintassi ma non la semantica. Detto in parole povere… in pratica non sanno quello che fanno…
Così in noi, se diventiamo pc, regna la confusione e l’imitazione (coatta) per restare… trendy…
Negli ultimi giorni il crocifisso balza fuori in ogni discorso, in ogni vicenda, in ogni polemica. È solo oggetto, crocifisso con c minuscola.
Dov’è la semantica? Ovvero, sempre in parole povere, chi lo agita, lo affigge, lo impone, non sa quello che fa…
Si stravolge il Suo significato: l’Uomo Gesù Cristo, Figlio di Dio, morto per salvare tutti. Come può diventare espressione alta di ogni razzismo?
Il rifiuto dell’altro è insito nel nostro animo? Non si mascherano così paure e timori di altra origine e causa?
Oggi si viaggia molto, si conosce il mondo, si conoscono però le persone che vivono in quelle località in cui si passa velocemente e di cui nulla si apprende? Conta poter arricchire la propria verbosità citando viaggi e crociere oppure conta aver incontrato persone, civiltà indubbiamente altre ma con cui condividiamo il nostro essere umani?
È finito nell’oblio quella certezza che tutti siamo uomini e donne indipendentemente dal colore della pelle, dei tratti somatici, della lingua?
La coscienza di essere esistenti alla pari di tutti gli altri esistenti non dovrebbe sostenere la nostra apertura mentale e impedirci di cadere nella fossa del razzismo?
Il Crocifisso, con le nostre esclusioni e divisioni, non può che diventare crocifisso, un sigillo molto comodo che maschera e magari rende soporifera la coscienza.
Già cogliere uso e abuso di un simbolo è di per sé negativo e oltraggioso. Portare il Crocifisso nella propria vita o indossarlo sulla propria persona deve esprimere solo la fede nel Creatore che ha inviato il Figlio come Salvatore.
Chi nelle proprie case ospita il Crocifisso non intende ostentare un proclama sociologico, diventare attivista di chissà mai quale movimento oppure, peggio ancora, mistificarsi da credente.
Brandirlo è un atto che squalifica, che riconduce al pc… non sanno appunto quello che fanno e ingannano chi non riflette, quelli a cui nessuno ha dato testimonianza di fede e mai ha insegnato a pensare.
Tutta l’ondata di razzismo, di rifiuto delle persone in reali difficoltà, che ci investe può (e anche deve) trovare luce nel Crocifisso solo quando non è oggetto di discriminazione, di segregazione, ma in Lui viene visto il Risorto.
La gloria del Crocifisso è proprio quella luce nascosta ma pronta ad emanarsi quando la persona lo guardi come fratello, amico, che si è addossato i dolori di tutti per presentarli al Padre e far diventare tutti noi dei Risorti.
Persone chiamate al pellegrinaggio terreno, insieme tutti senza esclusione di sorta, con una meta chiara: il Volto del Padre.
Dobbiamo però incarnare, qui e ora, quanto il Crocifisso testimonia: accoglienza amorosa per tutti.
(fonte: SIR)