di Brunetto Salvarani
“Solo il grande concilio ecumenico della santa Chiesa di Cristo da tutto il mondo può parlare in modo che il mondo, nel pianto e stridore di denti, debba udire la parola della pace, e i popoli si rallegreranno perché questa Chiesa di Cristo toglie, nel nome di Cristo, le armi dalle mani dei suoi figli e vieta loro di fare la guerra e invoca la pace di Cristo sul mondo delirante”.
Questa proposta fu formulata nel 1934 dal pastore luterano Dietrich Bonhoeffer, all’inizio del nazismo, e poi ripresa sempre in chiave ecumenica da un prete cattolico, anch’egli poi vittima del nazismo, Max Joseph Metzger. Il suggerimento profetico restò inascoltato, ma l’idea circolò, come segno di un’estrema resistenza evangelica contro le derive nazionalistiche e razziste che porteranno alle tragedie della Shoà e della seconda guerra mondiale.
In questi mesi l’Europa sta attraversando una crisi profonda che appare in primo luogo una crisi di senso e di credibilità, e che presenta non pochi punti di contatto con il clima sociale e culturale di quegli anni. Basti pensare, alla rinfusa, alle chiusure identitarie di parecchi Stati; allo sdoganamento aperto del razzismo, dell’intolleranza nei confronti di qualsiasi diversità rispetto a una pretesa idea di normalità e dei peggiori egoismi, non solo sul piano dei linguaggi ma anche dei comportamenti; allo sfruttamento di paure sociali e di rancori collettivi più o meno indotti dagli stessi governanti; alla penosa gestione del fenomeno migratorio; e così via. Si tratta di realtà che attraversano le Chiese stesse, producendo anche presso tanti credenti smarrimento, sfiducia e un sentimento diffuso di resa, come se non ci si potesse opporre a una deriva simile, estremamente preoccupante.
Di fronte a tale situazione occorrerebbe recuperare l’intuizione di Bonhoeffer, più che sul versante di un concilio, sul pronunciamento di parole profetiche che rendano il messaggio di Gesù vivo e in grado di risvegliare coscienze cristiane che sembrano addormentate e incapaci di cogliere la gravità del momento presente. Ci troviamo infatti nel contesto di quello che il Nuovo Testamento definisce kairòs, un tempo decisivo e opportuno che chiama a una risposta e rifiuta il silenzio considerandolo complice dello stato delle cose.
Così, rischiamo di dimenticare che la Bibbia è un immenso trattato dell’ospitalità e può essere letto come il principale contributo della tradizione ebraicocristiana alla crisi della modernità in atto: alla ricerca di una nuova mappa di orientamento e unica vera risposta – realistica ed etica nello stesso tempo – all’immane problema dei profughi e dei migranti in un mondo sempre più globalizzato e segnato dal ritorno di muri e confini, dallo scandaloso divario tra ricchi e poveri e dall’esplosione di violenze incontrollate che hanno fatto dire a papa Francesco che l’umanità sarebbe entrata in una terza guerra mondiale frammentata. Perché non andrebbe dimenticato che il racconto fondante di Israele è quello di un gruppo di ebrei stranieri e – sprovvisti di protezione e indifesi – oppressi sui quali Dio si è chinato prendendo a cuore la loro sorte e rivelandosi loro come un Dio ospitale: un racconto che, istituendoli come ospiti, li chiama a essere a loro volta ospitali.
È questo il significato profondo dell’alleanza stipulata da Mosè sul monte Sinai, in cui lo straniero liberato è chiamato a farsi prossimo a ogni straniero che incontrerà sulla propria strada: «Se verrà a stabilirsi presso di voi uno straniero non molestatelo. Come uno nato tra di voi sarà colui che viene a stabilirsi presso di voi. Lo amerai come te stesso, perché voi siete stati stranieri nella terra d'Egitto. Io sono il Signore Dio vostro» (Lev 19, 33-34).
Diakonia è il termine che nel Nuovo Testamento indica il servizio fraterno e ospitale che i credenti in Cristo praticavano verso i più poveri e bisognosi. È un campo che, oggi, il dialogo tra le grandi comunità di fede non sta ancora arando appieno, eppure il terreno è fertile e, con un po’ di lavoro e di fiducia reciproca, è plausibile immaginare di poterne ricavare frutti abbondanti. Qualche seme gettato qui e là ha già fornito i primi esiti consolanti, che occorrerebbe valorizzare appieno: penso, fra gli altri, all’azione ecumenica a sostegno degli immigrati, a partire dai Corridoi umanitari voluti dalla comunità di Sant’Egidio, dalla Federazione della Chiese Evangeliche in Italia e dalla Tavola Valdese; alle iniziative interreligiose di preghiera in cui ogni anno si ricordano i profughi morti nel Mediterraneo, il 3 ottobre, Giornata della Memoria e dell’Accoglienza; alla disponibilità con cui tante persone di diverse fedi, spesso nel silenzio e senza riconoscimenti sociali di sorta, si impegnano in scuole di alfabetizzazione o centri di accoglienza per migranti. Ce n’è abbastanza per augurarsi che i leader di tutte le Chiese europee battano un colpo e colgano questa situazione per mostrare cosa significhino davvero le radici cristiane del vecchio continente.
Infatti, «ogni albero si riconosce dal suo frutto» (Lc 6, 44a), e questo frutto, fatto di amore e solidarietà, di vicinanza al prossimo e di carità concreta, potrebbe – e dovrebbe! – essere un frutto ecumenico.
Come ha ricordato papa Francesco nel suo recente incontro ginevrino al Consiglio Ecumenico delle Chiese del 21 giugno scorso, è necessario sapere che «scegliere di essere del Signore prima che di destra o di sinistra, scegliere in nome del Vangelo il fratello anziché se stessi significa spesso, agli occhi del mondo, lavorare in perdita. L’ecumenismo è una grande impresa in perdita. Ma si tratta di perdita evangelica». Mentre «le distanze che esistono fra le chiese non siano scuse – ha sostenuto Bergoglio – perché è possibile già ora camminare secondo lo Spirito: pregare, evangelizzare, servire insieme, questo è possibile e gradito a Dio!”.
E se è possibile già ora fare qualcosa insieme, non dobbiamo perdere tempo. Ad esempio, recuperando una proposta fatta da Paolo Naso sul numero di luglio di Jesus, sarebbe importantissimo che nascesse quanto prima un organismo ecumenico che unisca cattolici, ortodossi e protestanti nella testimonianza e nell’azione per i diritti dei migranti e la difesa dell’umanità che accoglie e che salva le vite in mare. In questo campo, infatti, più che mai l’unione fa la forza e la credibilità del cammino ecumenico.
* Brunetto Salvarani è saggista, esperto di dialogo ecumenico e interreligioso, docente di Teologia del Dialogo alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna
Vedi anche il post con il discorso integrale del Papa a Ginevra citato nell'articolo: