martedì 12 giugno 2018

L'impopolarità dell'accoglienza e gli insulti al tweet del Cardinal Ravasi

L'impopolarità dell'accoglienza 

Il concetto di accoglienza è impopolare. Ne prenda atto chi si batte in favore del soccorso in mare e dell’ospitalità ai migranti: siamo una minoranza, per giunta sospettata di un umanitarismo “comodo”, protetto da una solidità economica e sociale che non tiene conto di quanto l’impatto della migrazione si scarichi sulle spalle dei più deboli. 
Poco importa che volontari, medici e paramedici, preti, suore, marinai, poliziotti, militari e altri operatori pro-migranti (sulle cui spalle, in primo luogo, grava la quotidiana fatica dell’accoglienza) non siano affatto “privilegiati” e siano popolo a pieno titolo: popolo salariato e spesso mal pagato. Anni di oscena propaganda giornalistica e politica hanno oramai cristallizzato il falso paradigma dei “buonisti” con il culo al caldo che sono i subdoli nemici della vigorosa reazione popolare all’invasione, alla “sostituzione etnica” (come dicono i tanti fascisti di casa nella Lega, oggi al governo), alla svendita della “razza bianca” all’Islam, all’Africa, al mondo un tempo sottomesso nella sua interezza agli europei e oggi ingovernabile, rigurgitante esseri umani. 
Questo paradigma (falso) ha stravinto. Ha stravinto sui social e anche su buona parte dei media mainstream. 
Chiunque si batta per l’accoglienza, anche per un’accoglienza gestibile e sorvegliata, sappia che sta conducendo una battaglia di minoranza; che ne pagherà il prezzo politico; e che a parte la Chiesa (non tutta) non troverà uno straccio di alleato.

(fonte: L'Amaca di Michele Serra in “la Repubblica” del 12 giugno 2018)



Gli insulti al tweet del Cardinal Ravasi
e ciò che nascondono quei messaggi pieni di livore

Questa notte, mentre sfogliavo su internet i resoconti delle notizie della giornata, mi sono soffermato su un articolo di “La Repubblica” che dava conto dei vari insulti degli utenti social proferiti a seguito del tweet del Cardinal Ravasi sulla terribile situazione dei migranti tuttora ospitati in mezzo al Mediterraneo nella nave di soccorso Aquarius. Più si scorrevano i vari tweet di risposta al telegrafico messaggio del Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, dove semplicemente si citava un passo del Vangelo secondo Matteo in cui c’è scritto “ero straniero e non mi avete accolto”, e più il tenore degli insulti, anche personali, aumentavano a dismisura fino a sconfinare nello scurrile. “Se li prenda lei cardinale in Vaticano”, “togliamo il 5 per mille alla Chiesa cattolica (che in realtà poi è l’8 per mille) così con quei soldi aiutiamo gli africani”, “invece che regalare monili a signore americane vada a fare missioni in Africa” , “eravate pedofili e non vi hanno arrestato”, “i soldi dello Ior investiteli tutti in Africa”, “accoglieteli voi nei vostri super attici”. Questi sono solo alcuni dei messaggi apparsi sui social, i più “benevoli” e tra i meno volgari che mi sento di poter citare senza dover dar troppo spazio ai professionisti dell’odio viscerale che, anche sotto anonimato, pullulano sui social. 
Ma perché così tanto livore e odio? Perché arrivare ad accusare, denigrare, colpire con l’arma della calunnia e della diffamazione solo per rispondere alla citazione di un brano del Vangelo che tutti possono leggere e, se cristiani, dovrebbero già conoscere come fondamento della dottrina millenaria della Chiesa. Il messaggio del Cardinale Ravasi non era accusatorio o di condanna verso qualcuno. Era semplicemente un modo per riportare all’attenzione dei credenti un passo del Vangelo che deve farci riflettere dinnanzi al concreto dolore di chi soffre gli effetti di una drammatica, e in certi casi forzata, emigrazione. Eppure non si è perso neanche un secondo per controbattere a quel tweet di neanche 40 caratteri con sproloqui, offese, calunnie gratuite e diffamazioni. 
Davanti a tutto questo odio nel rispondere ad un uomo di Chiesa che cita solo il Vangelo dobbiamo chiederci tutti il perché di tale sfogo. Non serve qui inoltrarci sulle partigianerie politiche ma domandarci che cosa spinge decine, centinaia e migliaia di persone a rispondere con tale enfasi negativa al testo di un tweet che riporta solo 7 parole di Gesù riferiteci dal Vangelo. Perché non appena si palesa il problema dell’accoglienza dei migranti si da il via a una querelle senza fine dove ogni colpo basso, ogni ipocrisia, ogni uso mortale della parola sembra essere consentito, anzi doveroso? 
Che senso ha mischiare le cose in un grande calderone dove poi non si distingue più niente? Cosa c’entrano le crociate del Medioevo in Terra Santa, lo Ior, gli attici in Vaticano, lo scandalo della pedofilia, l’8 o il 5 per mille dei contribuenti con il problema epocale dell’immigrazione dall’Africa e dai paesi più poveri verso l’Europa e le società più ricche? Perché sentirsi in diritto, in dovere e persino in libertà di offendere il Vaticano, la Chiesa e un suo rappresentante addirittura scrivendo fake news che sembrano avere come unico obiettivo quello di indebolire la credibilità, fino a denigrarne la persona, di colui che viene ritenuto un avversario da abbattere per le sue idee? Perché non limitarsi a cercare il dialogo e ad esprimere con ragionevolezza, fermezza e pacatezza il proprio punto di vista opposto senza scendere nelle volgarità, nella menzogna e nella calunnia?
Non è in discussione il sacrosanto diritto di poter contestare il pensiero, seppur recondito, di un Cardinale che interviene per far conoscere la propria opinione attraverso una citazione evangelica. Chiunque può e deve sentirsi libero di esprimere il proprio punto di vista critico e suggerire spunti di riflessione opposti e ulteriori. Ciò che non si può accettare è assistere al linciaggio mediatico che ricopre di insulti chi cerca di esprimere la propria posizione e quella della Chiesa che rappresenta. In tutto questo non c’entrano la passione politica, le divergenze di opinione o la differente idea che si ha del mondo e della umanità. Qua si tratta di correttezza, di rispetto, di dialogo. Rispondere con questi insulti sembra essere quasi una violenza che serve a far impaurire chiunque abbia solo l’intenzione di uscire dal coro unanime di chi oggi crede di rappresentare la maggioranza. 
Ma tutto questo non basta. Occorre andare oltre e approfondire i motivi che spingono questi nostri “fratelli” ad essere così lividi, cattivi e addirittura calunniatori nei loro messaggi social. Perché lo sono e perché sentono addirittura il bisogno di precisare che sono dei credenti? Perché esprimere così rudemente il proprio pensiero fino ad offendere l’altro che neanche si conosce? Perché non riuscire a coniugare meglio il proprio punto di vista con la compulsiva voglia di scrivere messaggi velenosi e pieni di insulti? A ben vedere la stessa risposta si può ritrovare esaminando attentamente quei messaggi, quei tweet, quei testi pieni di insulti. Se si sta attenti si può notare in ognuno di loro una concreta motivazione personale, una “goccia che ha fatto traboccare il vaso”, un disagio personale diventato una lancinante ferita, a volte intima, che porta chi scrive ad essere “cattivo” e definitorio nelle proprie conclusioni.
In tanti di quei messaggi di insulti tra le righe si può notare, infatti, il disagio per non aver trovato lavoro, per essere stato licenziato a causa di politiche di delocalizzazione aziendale, per essere stati vittima di violenze, per non aver ricevuto attenzioni in un momento difficile della propria vita. Ma non solo questo. Si ha paura per la propria sicurezza, per la propria situazione economica e lavorativa, per il proprio tenore di vita, per il futuro dei propri figli. Ci si sente meno protetti, sull’orlo di un baratro che sembra ormai troppo vicino. 
Mettendo insieme tutti questi messaggi e scorporando da ognuno di loro la vera scintilla che ha portato gli autori ad essere così “malvagi” nel rispondere al tweet del Cardinale Ravasi ci si accorge alla fine che ogniqualvolta si parli di immigrazione e di migranti il vero problema non sono quelle persone disperate ma le proprie paure e i propri disagi personali che ritornano come incubi ad ogni nave che raccoglie poveri cristi in balia delle onde. La nostra società si sta sempre più alimentando di paure. I migranti fanno paura perché ormai ci siamo convinti, o ci hanno convinto, che ogni nostro disagio sociale, lavorativo, economico e persino familiare dipende da loro. Ormai l’equazione sta nelle nostre menti e non c’è più bisogno neanche di perdere tempo per risolverla. Purtroppo ora non si può più lavorare perché questa equazione non avvenga ma rimboccarci le maniche perché la si smonti come si fa con un teorema sbagliato sul quale si sono basati tutti i nostri calcoli e assiomi passati. 
Ecco perché l’odio cresce, si autoalimenta e infiamma ogni cosa. In questo molta colpa hanno le istituzioni pubbliche e quella politica che da una parte ha alitato troppo sulle ceneri ancora ardenti di un incendio mai spentosi del tutto, mentre dall’altra non ha saputo dare risposte al crescente disagio sociale. Tuttavia anche la Chiesa, intesa non solo come istituzione religiosa ma soprattutto come intera comunità dei fedeli, ha le sue colpe. Quelle di non aver capito e saputo interpretare queste paure e questi disagi. Anche la Chiesa non si è fatta trovare pronta dinnanzi a questo epocale problema dell’immigrazione perché non ha saputo interpretare al meglio i cambiamenti di una società che corre in fretta verso nuovi baratri. La Chiesa non ha saputo vedere quello scarto e quella indifferenza di casa nostra che serpeggiava sotto la crosta di una società apparentemente sana e robusta che millantava un benessere inesistente. La Chiesa non ha saputo parlare chiaro al cuore dei troppi disoccupati, dei tanti cassaintegrati, dei licenziati per delocalizzazione, delle infinite persone e famiglie vittime della crisi economica e di sistema. Spesso si sono solo effuse false speranze che, rimaste tali, hanno ferito ancora di più gli animi di chi aveva sete o di chi bussava disperatamente ad una porta rimasta sprangata. La Chiesa non ha saputo neanche ben interpretare il disagio delle classi medie, quelle che più avevano aiutato la stessa Chiesa negli ultimi decenni e che ora arrancano convinte di essere lì lì per sprofondare nella povertà più nera.
Abbiamo per troppo tempo affrontato il problema dell’immigrazione come se fosse solo questione di aggiungere un posto a tavola o trovare un paio di scarpe in più magari liberandoci di ciò che ci era superfluo o non più di moda. Lo abbiamo fatto guardando ai migranti solo come dei disperati da accudire e soccorrere. Se badate bene lo si sta facendo anche in queste ore con la vicenda della motonave Aquarius dove i numeri superano ancora una volta i volti veri di chi soffre. Lo abbiamo fatto sempre pensando che fosse una emergenza temporanea che altri avrebbero risolto al posto nostro, prima o poi. Tuttavia abbiamo fatto tutto questo senza renderci conto che lo scarto e l’indifferenza stavano minando dal basso la nostra stessa società e iniziavano a seminare odio tra chi ne era stato vittima innocente. Le paure sono nate da questo e sono cresciute a casa nostra, per le nostre vie e le nostre piazze. Senza un strisciante e profondo disagio delle nostre società occidentali, che alimentano insane e devastanti paure, anche la tremenda situazione dei migranti sarebbe stata affrontata meglio di quanto non lo sia oggi. 
Questi messaggi di risposta al tweet del Cardinal Ravasi ci dimostrano che anche nel nostro Paese, da sempre ritenuto tra i più generosi e solidali al mondo, qualcosa di molto profondo si è inclinato, forse persino rotto. Più che il problema del razzismo, dell’antisemitismo o di qualsivoglia altra formula negativa si voglia usare nel dibattito politico quando si avvicina una elezione, questo ribrezzo verso i migranti in una nazione porto di mare come l’Italia deve trovare una spiegazione più attenta e ponderata. Ciò che alimenta il livore contro l’immigrazione dall’Africa o dal Medio Oriente non è tanto una questione di razza, di religioni diverse, di colore della pelle quanto la convinzione fattasi dogma che il proprio disagio personale deriva dai bisogni dell’altro che si deve o si vuole accogliere. È il più classico sintomo di quella guerra tra nuovi poveri sulla quale, non dimentichiamocelo mai, c’è sempre chi trae lauti guadagni e ne ricava cospicue ricchezze.