giovedì 7 giugno 2018

«Così in terra» un film che fa pensare - In viaggio con don Ciotti: il film sulla vita spericolata del sacerdote incendiario


In viaggio con don Ciotti: il film sulla vita spericolata del sacerdote incendiario

«Così in terra», il film di Paolo Santolini sulle battaglie del prete scomodo, è anche un percorso tra i problemi di un Paese stretto tra mafia, povertà e corruzione


Il primo che incendiò, tostando semi di zucca quand’era piccolo, fu un pagliaio. Da allora Luigi Ciotti non ha smesso mai. Infiammare le coscienze è il senso della sua vita. Per questo Vasco Rossi e lui si son presi: «Un fratello ritrovato. Due vite spericolate. Come sono tutte le vite che si lasciano guidare dall’inquietudine». Tanto da spingere il Blasco a voler introdurre lui il film «Così in terra» che racconta la storia del «prete più amato e più detestato» nel nostro Paese. Tutto cominciò, come racconta nella pellicola diretta da Paolo Santolini che andrà in onda venerdì sera su Rai3, con un fiocco e un calamaio. Nipote d’un mugnaio, «Pio Luigi Tabacchi, Moliner» (come ricorda la lapide), figlio d’un manovale della montagna bellunese più povera, spinto dalla miseria a emigrare addirittura in Calabria e poi a Napoli, nato a Pieve di Cadore ma subito portato dai genitori qua e là dove c’era uno straccio di lavoro fino a insediarsi a Torino, Luigi si scontrò subito, alle elementari, col pregiudizio. La mamma gli aveva arrangiato qualcosa che paresse un grembiule. Mancava il fiocco, però. E la maestra, spazientita, un giorno sbuffò: «Montanaro!». Lui, offeso, afferrò il calamaio e glielo gettò addosso: «Feci male, sia chiaro. Quel gesto, però, fu in qualche modo l’inizio di un percorso. Quello di chi non accetta le ingiustizie».

Viaggio nell’Italia ferita


È un viaggio in Italia, il film «Così in terra». Nell’Italia inquieta. Ferita. Periferica. Disoccupata. Miserabile. Brutta. Inquinata. Violenta. Quella che affoga nei problemi. Ma che si scuote appena ricordi uomini come Don Peppino Diana che a Casal di Principe scriveva «se la camorra ha assassinato il nostro Paese, noi lo si deve far risorgere. Bisogna risalire sui tetti, a riavvicinare la parola di vita» e perciò fu assassinato.Un viaggio tutto di corsa. Da un appuntamento all’altro. Sempre attaccato al telefonino («Siamo in ritardo! Siamo in ritardo!») mentre l’auto della scorta che gli hanno imposto da 29 anni e in particolare da quando Totò Riina fece sapere che lo voleva morto («Ciotti, Ciotti, putissimu pure ammazzallo») schizza via da una parte all’altra della penisola. L’incontro coi giovani sull’usura nel Lazio («Siamo in ritardo! Siamo in ritardo!»). La preghiera in ricordo di una vittima della nuova mafia pugliese («Siamo in ritardo! Siamo in ritardo!»). Il dibattito nella scuola lombarda sulla corruzione («Siamo in ritardo! Siamo in ritardo!»). Una vita a perdifiato.

Incontri

Eccolo arrancare sui monti calabresi col vescovo di Locri Francesco Oliva fino a una radura dove Maria Teresa racconta durante la messa di essere la vedova di «un meccanico ucciso a Locri circa 20 anni fa» e di essere «rimasta sola con tre bambini piccoli» e di non aver ancora avuto giustizia. Eccolo a un raduno di preti nel Casertano dove un sacerdote racconta di un parroco che, nonostante fosse stato messo in guardia, ha accettato i soldi di un camorrista per restaurare il tabernacolo e così adesso «Gesù sta in una custodia di camorra». Eccolo dalle parti di Trapani che incoraggia i ragazzi annunciando entusiasta la nascita d’una cooperativa di giovani per usare terreni confiscati a Matteo Messina Denaro e la scelta di dare a questa cooperativa il nome di Rita Atria, che si rivoltò contro la mafia cui era legata la sua famiglia e si uccise a diciotto anni per la disperazione d’esser stata isolata.

Prete scomodo

È scomodo, Luigi Ciotti. Ustionante. Incontentabile. La «capacità di faticare e la santa prepotenza», per usare le parole di Fiamma Nirenstein, con cui in cinquant’anni ha raccolto intorno a sé centinaia di migliaia di persone prima col gruppo Abele e poi con la rete associativa di Libera, non piacciono a tutti. Lo sa. Ha pestato i piedi a tanti. E sa pure che il rigore deve valere per tutti. Basti sentire una sfuriata nel bel mezzo di un’assemblea: «Noi chiediamo la tolleranza zero agli altri. Ma dobbiamo chiedere la tolleranza zero anche all’interno nostro. Perché nei nostri mondi e nella nostra realtà ci sono anche furbi. Che cosa fai? “Antimafia! Antimafia!”. Cosa fai? “Parlo sempre di legalità! Ho fatto qui, ho fatto là, vado su, vado giù...”. Nooo, bisogna esser sobri. Guardare alla sostanza dei problemi. Tutti a promuover convegni, convegni, convegni...». La guerra vera alla mafia, è certo, la fanno i testimoni ai quali dà voce. Come Vincenzo Agostino, che dal giorno lontano in cui ammazzarono suo figlio Nino e la moglie incinta non si è più tagliato la barba e i capelli e come una specie di tragico mago Merlino tuona in chiesa: «Io nella città di Palermo non scenderò mai più e non mi taglierò più barba e capelli se non avrò verità e giustizia».

Sintonia


Davanti ai ragazzi, li prende di petto. Chiamandoli per nome: «Nel primo anniversario della strage di Capaci in cui era morto il giudice Falcone con sua moglie, ero a Palermo. Vicino a me c’era una signora tutta vestita di nero che piangeva. In modo ininterrotto. Capisci, cara Matilde, la vedevo piangere, piangere, piangere… Non riusciva a fermare il suo pianto disperato. Non sapevo cosa fare. Piangeva. A un certo punto mi prese la mano. Mi scosse. Mi guardò in faccia. Non dimenticherò mai la domanda che mi fece: “Perché non dicono mai il nome di mio figlio?”. Capii. Certo, era giusto ricordare Falcone, la moglie e “i ragazzi della scorta”. Ma il primo diritto di quei ragazzi era d’essere chiamati per nome. Quella mamma voleva sentire il nome di suo figlio». Chi non lo sopporta lo vede solo come una specie di Savonarola bravissimo, con la sua retorica torrenziale, a sfruttare le emozioni. Altri restano folgorati da quella capacità magnetica di cogliere un punto per tirarsi dietro chi ancora vuole credere in qualcosa. Vasco non ha dubbi: «È un uomo di grande umanità, profondità, semplicità. Col quale mi sono subito sentito a casa». Gli piace, dice, «la sua predilezione per la diversità. Gli strambi. I freaks. I dimenticati. I giudicati». E poi «la sua cura della terra in quanto tale e non come semplice prologo del cielo». Perché vedere il film? Risponde: «Perché fa pensare».

Guarda il trailer del film «Così in terra»

Venerdì 8 giugno 2018, alle 21:15, RAI3 presenta in prima visione assoluta COSÌ IN TERRA, racconto cinematografico di uno degli uomini più amati e detestati d’Italia: prete combattente costantemente sotto scorta, grande organizzatore, fondatore del “Gruppo Abele” e ideatore di “Libera”, agitatore carismatico e travolgente, spina nel fianco del sistema politico/economico italiano. Da oltre cinquant’anni il suo è un lavoro volto a unire e mettere in risonanza le parti sane e attive del Paese, a denunciare senza mezzi termini crimine organizzato e corruzione, a ricordarci che in una società civile non c’è ‘zona grigia’, perché l’indifferenza equivale a complicità. Un lavoro di tessitura e denuncia, amoroso, tenace e temerario. Un antidoto al qualunquismo sazio degli scontenti che si limitano a sdegnarsi e lamentarsi, un invito ad agire. Il buon cinema non costruisce altarini e eroi, non fa prediche, non vuol persuadere nessuno. La sua unica ‘passione’ è la cura della complessità e della pluralità dei punti di vista.

Ecco perché COSÌ IN TERRA è lontano anni luce dall’agiografia e anche dalla linearità del biopic: il film di Paolo Santolini è un’indagine a tutto campo, aperta e appassionata, su un personaggio che non può essere ridotto a semplice oggetto mediatico. Stando accanto a lui e agli uomini della sua scorta per oltre due anni, filmandolo in diverse occasioni pubbliche e private, osservandone i gesti, il rapporto con la natura, la fisicità, l’ostinata fiducia nella parola, il regista ci propone di provare a capire cosa ci sia dietro l’instancabile fare del suo personaggio, cosa lo muova a quel fare.

COSÌ IN TERRA non è un atto di fede, ma un invito a pensare con la nostra testa, a guardare con occhio critico quanto accade su questa terra e a immaginare quel che ognuno di noi potrebbe fare.


(fonte: LIBERA)

Uno mattina presenta "Così in terra", il docufilm di Paolo Santolini su don Ciotti. Ospite in studio il presidente del Gruppo Abele e di Libera, discute di immigrazione, caporalato, 'ndrangheta, a partire dall'omicidio recente di Soumayla Sacko, il bracciante e sindacalista maliano fucilato domenica a San Calogero, in Calabria.

"... dobbiamo recuperare più umanità tutti ... se non diventiamo capaci di trasformare le emozioni, che sono legittime, in sentimenti, in responsabilità ... devono diventare sentimenti e parole che sono azioni e risposte concrete, perché contemporaneamente a queste parole di valore,  di grande sottolineatura ed attenzione (ndr il riferimento è al ricordo dell'omicidio di Soumayla Sacko nel discorso del premier Conte in senato), ne abbiamo sentite dire altre di una violenza verbale rispetto alla storia di tanti amici che arrivano da lontano, e la violenza verbale alimenta anche altre forme di violenza nei fatti. Ci vuole una coerenza da parte di tutti, parliamo di persone, parliamo della loro dignità e della loro libertà, è stata anche la nostra storia... non basta accorgersi che gli altri esistono intorno a noi, gli altri dobbiamo sentirli dentro di noi ...
... io rappresento un noi ... Il mio impegno non è tanto contro le mafie, la corruzione, la povertà, certo, il mio impegno che condivido con gli altri è per la dignità e la libertà delle persone e per la vita delle persone. E auguro a tutti, anche a chi ci ascolta, di diventare sempre più capaci di riempire la vita di vita, di senso, di significato, di vivere, di non lasciarsi vivere!"