"Né stranieri né poveri", licei nella bufera
Gravi, classiste, assolutamente non tollerabili. Così la ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Valeria Fedeli bolla le frasi di alcune istituzioni scolastiche contenute nei Rapporto di autovalutazione (Rav) e riportate dalla stampa. A finire nella bufera sono, tra l'altro, le dichiarazioni in cui le scuole descrivono come un vantaggio l'assenza di studenti immigrati o con condizioni economiche non elevate.
"La scuola di cui abbiamo bisogno", sottolinea Fedeli, è "inclusiva" e "accogliente", una scuola "dove nessuno si senta escluso e dove tutte le ragazze e tutti i ragazzi possano, indipendentemente dalla provenienza geografica, dalle condizioni socio-economiche, dal genere, dalla condizione fisica, essere formati per diventare cittadine e cittadini attivi, consapevoli, partecipi".
“Non posso dunque che stigmatizzare il linguaggio utilizzato da alcune istituzioni scolastiche, e riportato dalla stampa - prosegue Fedeli - nella compilazione del Rapporto di autovalutazione (Rav), uno strumento di trasparenza che viene pubblicato e aggiornato sul portale ‘Scuola in chiaro’ per fornire alle famiglie e a chi si iscrive elementi di conoscenza che vanno dal numero di studentesse e studenti, al piano dell’offerta formativa, passando per gli obiettivi di miglioramento che le scuole decidono di darsi, dopo aver analizzato i loro punti di forza e debolezza".
"Quando, nella sezione dedicata al contesto in cui opera la scuola, si inseriscono, alla voce ‘Opportunità’, frasi che descrivono come un vantaggio l’assenza di stranieri o di studentesse e studenti provenienti da zone svantaggiate o di condizione socio-economica e culturale non elevata, si travisa completamente il ruolo della scuola - continua Fedeli - Si negano i contenuti dell’articolo 3 della nostra Costituzione. Si fa un passo indietro rispetto a una delle caratteristiche fondanti della scuola italiana: la capacità di inclusione e integrazione. Una peculiarità riconosciuta anche a livello internazionale”.
Fedeli annuncia poi: “Scriverò oggi stesso all’Invalsi, l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione, affinché faccia immediatamente un attento monitoraggio dei Rapporti di autovalutazione con riferimento a questo tipo di episodi - osserva - L’autonomia nella compilazione da parte delle scuole è sacra. Ma ci sono principi comuni e irrinunciabili a cui tutti dobbiamo ispirarci. A partire da quelli stabiliti nella nostra Costituzione. Leggendo certe espressioni sembra che qualcuno li abbia dimenticati. Alcune frasi appaiono particolarmente gravi, persino classiste. Non sono assolutamente tollerabili e - promette - prenderemo provvedimenti specifici a seguito dei dovuti approfondimenti. Il Rav - conclude - rientra peraltro fra gli strumenti di valutazione delle scuole e dei dirigenti scolastici. Terremo conto anche di questi elementi”.
(fonte: AdnKronos dell'8/02/2018)
“Qui niente poveri né disabili” Le pubblicità classiste dei licei
La prosa con cui alcune scuole del Paese, spesso i licei più prestigiosi e selettivi, si sono offerte alle
famiglie per attrarre l’iscrizione dei loro figli è da censura. Nell’ansia di far apparire un istituto
privo di problemi, pronto a fornire la migliore didattica senza impacci con gli adolescenti stranieri o
i ragazzi bisognosi di sostegno, i dirigenti scolastici hanno licenziato rapporti di autovalutazione
classisti. È tutto visibile sul sito del ministero dell’Istruzione, “Scuola in chiaro”. Oltre ai numeri
degli studenti presenti e alle informazioni sui percorsi di studio, ogni scuola ha offerto una
valutazione di sé. Basata su parametri offerti dal ministero, ma restituita con una propria anima.
L’Ennio Quirino Visconti così si è raccontato: «L’essere il liceo classico più antico di Roma
conferisce alla scuola fama e prestigio consolidati, molti personaggi illustri sono stati alunni».
L’illustrazione orgogliosa si addentra nei primi dettagli di censo: «Le famiglie che scelgono il liceo
sono di estrazione medio-alto borghese, per lo più residenti in centro, ma anche provenienti da
quartieri diversi, richiamati dalla fama del liceo». Fin qui, un dato di fatto. «Tutti, tranne un paio, gli
studenti sono di nazionalità italiana e nessuno è diversamente abile». La percentuale di alunni
svantaggiati «per condizione familiare è pressoché inesistente», mentre «si riscontra un leggero
incremento dei casi di Dsa». Sono i Disturbi specifici di apprendimento. Il finale è una conclusione
che spiazza: «Tutto ciò», e si intende la quasi assenza di stranieri e la totale assenza di poveri,
«favorisce il processo di apprendimento». Il buon apprendimento dei figli della buona borghesia di
Roma Centro.
Al Visconti, «dove la maggior parte delle risorse economiche proviene dai privati, in primis le
famiglie», dove la presidente della Camera Laura Boldrini ha tenuto lezioni sulle fake news, la
“quota studenti con cittadinanza non italiana” è pari allo 0,75 per cento del totale. Lo dicono le
tabelle. Solo che lo 0,75 per cento di 669 studenti non fa «un paio», ma cinque. E la quota di iscritti
con «famiglie svantaggiate» è dello 0,8 per cento, un po’ più di «pressoché inesistente». Ecco, se si
esce dalla pagina vetrina, quella che serve a far propaganda e richiamare iscrizioni, si scopre che i
numeri del Visconti su stranieri e poveri sono più alti.
Anche l’intro dell’autovalutazione del liceo D’Oria di Genova, prestigioso e tradizionale classico,
offre una presentazione di sé che accarezza l’idea per cui “poveri e disagiati costituiscono un
problema didattico”. Ecco cosa c’è scritto nel Rav: «Il contesto socio-economico e culturale
complessivamente di medio-alto livello e l’assenza di gruppi di studenti con caratteristiche
particolari dal punto di vista della provenienza culturale (come, ad esempio, nomadi o studenti di
zone particolarmente svantaggiate) costituiscono un background favorevole alla collaborazione e al
dialogo tra scuola e famiglia, nonché all’analisi delle specifiche esigenze formative nell’ottica di
una didattica davvero personalizzata». Senza altre questioni da affrontare, sembra di capire, ci
possiamo dedicare ai limitati e ricchi studenti indigeni. Infatti: «Il contributo economico delle
famiglie sostiene adeguatamente l’ampliamento dell’offerta formativa».
Il Parini di Milano, altro classico storico, anche questo statale, illustra nella presentazione: «Gli
studenti del liceo classico in genere hanno, per tradizione, una provenienza sociale più elevata
rispetto alla media. Questo è particolarmente avvertito nella nostra scuola. A partire da tale
situazione favorevole, la scuola ha il compito (obbligo) di contribuire a elevare il livello culturale
dei suoi allievi». La dirigente scolastica del Parini, non a caso, ammette «qualche criticità nelle
attività di inclusione».
È un classico parificato, però, ad utilizzare il linguaggio più esplicito sul tema. Il Giuliana
Falconieri, Roma Parioli. Così la sua autovalutazione: «Gli studenti del nostro istituto appartengono
prevalentemente alla medio-alta borghesia romana. La spiccata omogeneità socio-economica e
territoriale dell’utenza facilita l’interazione sociale». Ci si parla solo tra pari grado, e poi: «Non
sono presenti né studenti nomadi né provenienti da zone particolarmente svantaggiate». In questa
scuola, tuttavia, c’è una questione particolare: «Negli anni sono stati iscritti figli di portieri e/o
custodi di edifici del quartiere. Data la prevalenza quasi esclusiva di studenti provenienti da
famiglie benestanti, la presenza seppur minima di alunni provenienti da famiglie di portieri o di
custodi comporta difficoltà di convivenza dati gli stili di vita molto diversi».
Clara Rech, preside del Visconti di Roma, autrice di una delle autovalutazioni da censura, dice: «Il
numero di battute a disposizione era limitato e pago un eccesso di sintesi. Rettificherò quel
passaggio. Sono stata onesta nel rappresentare un dato oggettivo: al Visconti ci sono pochi studenti
stranieri e non abbiamo disabili. Volevo dire che la didattica ordinaria, così, è più semplice:
recuperare l’italiano di uno straniero chiede risorse e tempo. Credo che tutti gli studenti, ricchi e
poveri, debbano crescere insieme e credo nella multiculturalità».
(fonte: articolo di Corrado Zunino in “la Repubblica” dell'8 febbraio 2018)
Per correttezza di informazione pubblichiamo anche la smentita del dirigente scolastico
... il documento cui si riferisce il pezzo è un rapporto di autovalutazione richiesto alle scuole dal Ministero, che è una mera rilevazione di dati contesto e non contiene alcun giudizio di merito o di valore. Tanto meno è una pagina pubblicitaria.
Ribadisco altresì che il Liceo E.Q. Visconti è per principio e tradizione una scuola democratica, antifascista e interclassista, in cui vengono accolti ragazzi provenienti dalle più diversificate zone di Roma e provincia e in cui ciascun credo politico, religioso e, in generale, culturale, ha trovato e trova spazio e accoglienza. ...
Leggi tutto dal sito dell'Istituto Visconti: SMENTITA DEL DIRIGENTE SCOLASTICO ALL'ARTICOLO DI REPUBBLICA DELL'8 FEBBRAIO 2018
Ma il solo modo per imparare è confrontarsi con la diversità
Niente neri, niente handicappati, niente nomadi, la lista potrebbe essere lunga, lunghissima, e via via includere tra gli “scarti” chiunque, con la propria alterità, possa rimettere in discussione l’identità italiana.
È più o meno così che alcuni licei del nostro Paese vantano i propri pregi e si fanno pubblicità. Quasi tutti gli studenti sono di «nazionalità italiana» e nessuno è «diversamente abile», recita la presentazione di un celebre liceo romano. Subito dopo aver ricordato la propria «fama» e il proprio «prestigio». Come se ci fosse un legame di causa-effetto tra il colore della pelle e la fama, il prestigio e l’assenza di handicap — che poi sarebbe interessante capire come viene valutato il livello di abilità: li si mette tutti in fila, questi alunni, e li si fa correre, leggere, parlare, mangiare? È più o meno abile una ragazzina anoressica o bulimica? Spesso sono le più brave della classe, ma stando al Dsm, il manuale diagnostico dei disturbi mentali, anche loro, in fondo, dovrebbero essere considerate diversamente abili, e non ammesse, quindi, in un liceo così prestigioso. Come se l’apprendimento fosse ostacolato dalle “differenze”, e la parola d’ordine della contemporaneità fosse l’esclusione di tutti coloro che potrebbero contaminare la purezza della stirpe. Dev’essere lo spirito dei tempi, ormai malato di conformismo, ad aver ispirato presidi, insegnanti, direttori o chiunque abbia ideato questi spot per attirare genitori creduloni, e illuderli che il «processo di apprendimento» possa veramente essere favorito dal “tra di noi”. Anche se poi, in quel “tra di noi”, rischia di non esserci quasi nessuno, e chi immagina che il proprio pargolo sia esente da ogni sorta di handicap, di strada da fare per capire l’esistenza ne ha ancora molta. Non solo, infatti, ognuno di noi è “diversamente abile” rispetto a chiunque altro: diverso, unico, speciale, sempre e comunque “altro” rispetto alle aspettative altrui, “altro” pure rispetto a quello che vorrebbe essere. Ma anche l’apprendimento è favorito dall’incontro con le differenze: per imparare veramente c’è bisogno di uscire dal “tra di noi” e aprirsi alle mille sfumature della vita; anche solo perché sono le differenze che ci insegnano a comporre il puzzle complesso della realtà, a superare gli ostacoli, a immaginare soluzioni alternative quando quelle più scontate falliscono. Certo, molti genitori cercano oggi di rassicurarsi: preferiscono immaginare che i propri figli crescano al riparo dalle difficoltà e non si mescolino con gli “altri”. Ma apprendere significa confrontarsi con le cose vere della vita, e le cose vere della vita, come scriveva Oscar Wilde, si incontrano. A cominciare dalla scuola, appunto, quando si incontra un ragazzo nero o una ragazza in sedia a rotelle, un compagno sordo-cieco o una compagna con disturbi del comportamento alimentare, tanto nessuno ha tutto e nessuno è tutto. La scuola dell’inclusione forse non è più di moda. Peccato. Inutile, però, stupirsi poi del successo popolare del killer di Macerata.
(fonte: articolo di Michela Marzano in “la Repubblica” dell'8 febbraio 2018)