venerdì 26 gennaio 2018

LE SFIDE DEL PRESENTE La carità, umile e discreta compagna di vita di Bruno Forte

LE SFIDE DEL PRESENTE
La carità, umile e discreta 
compagna di vita
di Bruno Forte







Può la carità essere luce, stimolo e sfida per la cultura del nostro presente? Per tentare una risposta a questa domanda ricorro alla parola poetica di un grande del nostro tempo: Mario Luzi. Con la forza evocativa e sintetica che solo la poesia riesce ad avere, Luzi invita a operare una sorta di «battesimo dei nostri frammenti», che offra un orizzonte di senso alle opere e ai giorni. È quanto appunto è in grado di fare la carità, buona novella di un amore gratuito che ci avvolge e ci trascende tutti, “immemorabile evangelio”: «C’era, sì, c’era - ma come ritrovarlo / quello spirito nella lingua / quel fuoco nella materia. / Chi elimina la melma, chi cancella la contumelia? / Sepolto nelle rocce, … / così cova l’incendio / l’immemorabile evangelio...» («Per il battesimo dei nostri frammenti», in Tutte le poesie, Garzanti). La priorità per la nostra cultura dovrà essere dunque anzitutto quella di riconoscere l’“immemorabile evangelio” nascosto sotto la melma o sepolto nelle rocce, onde farne sprigionare l’incendio: non la forza dei potenti e la logica dei violenti salverà il mondo, ma l’irradiarsi evangelico della carità. Sarà la carità a consentirci di valorizzare il bene presente in ogni frammento, senza rinunciare all’orizzonte unificante dell’amore che salva, facendoci riconoscere il Vangelo nei segni dei tempi, nei frammenti della vita e della storia comune, nel servizio alla persona umana e al bene comune. Un tale esercizio della carità richiederà certo uno sforzo esigente, che impegni nella costruzione della convivenza civile donne e uomini nuovi, ricchi di forti motivazioni etiche e pronti a dialogare con tutti, capaci di dare e ricevere il perdono e, se necessario, disposti a sacrificarsi per il bene di tutti.

Ne deriverà in primo luogo l’urgenza di formarsi a un’etica della responsabilità, capace di anteporre il primato della rettitudine della coscienza a ogni interesse e profitto, per quanto vantaggiosi. A questa occorrerà affiancare una non meno necessaria etica della solidarietà, che impedisca all’impegno morale di chiudersi nella sfera rassicurante della “retta intenzione” e lo proietti verso la ricerca delle mediazioni storiche necessarie al servizio di tutti. Su questo fronte, credenti e non credenti dovranno camminare insieme, poiché la posta in gioco è l’uomo e la costruzione di una famiglia dei popoli e delle culture a misura della dignità di ogni persona umana. Perché contribuisca alla formazione di questo “ethos”, la carità dovrà avere caratteristiche esigenti, sì da essere inseparabilmente umile, discreta e bella. “Umile” è la carità che non sceglie il suo oggetto in forza della gratificazione che se ne aspetta, da null’altro motivata ad amare che dall’urgenza del bene stesso e dall’altrui bisogno. 
È la carità che trova il suo modello e la sua fonte nel Dio che, come afferma san Bernardo, «non ci ama perché siamo buoni e belli, ma ci rende buoni e belli perché ci ama»: un amore impossibile, che da soli non riusciremmo mai a vivere, e tuttavia possibile, perché Lui ce ne rende capaci. È la carità che, come dice Paolo, «non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13,5-7). In questa luce, Benedetto XVI nell’Enciclica Caritas in veritate avanza un’idea che sembra provocatoria ed è tuttavia suffragata dall’esperienza delle varie forme di “finanza etica” e di “economia di comunione” che vanno sviluppandosi nel mondo: la rilevanza del principio di gratuità in economia (n. 34). Se è vero che non si crescerà se non insieme, il reinvestimento di una parte degli utili al servizio della promozione umana e sociale dei più deboli potrà essere garanzia di benessere per tutti: «Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica» (n. 35). Senza la carità l’economia implode, perché resta priva dell’audacia e della tensione al bene comune necessarie a ispirare scelte a fondo perduto, capaci di innescare processi positivi di cambiamento, perfino di rivoluzionaria portata sociale ed economica.

La carità dovrà poi essere “discreta”, tale cioè da non imporre modelli prefabbricati, capace di mettersi in ascolto, entrando in quel processo di discernimento, che assume la complessità e la confronta con le esigenze della giustizia per avanzare proposte credibili.
I medievali hanno espresso in una formula densa la capacità della carità di offrire luce al discernimento: «Ubi amor, ibi oculos». Proprio così, la carità è capace di coniugarsi alla passione dell’intelligenza, ne ha anzi bisogno. Dice Agostino: «Fides nisi cogitetur nulla est», la fede se non è pensata non è. 
Analogamente, la carità, che dalla fede è sorretta, se non è esercitata con intelligenza, rischia di non essere vera. C’è bisogno di vivere la carità da adulti pensosi, non negligenti nell’essere fedeli alla storia e alle attese di una più grande giustizia. È un simile esercizio della carità che saprà riconoscere, accogliere e testimoniare la bellezza che salva: la carità sarà “bella” se le opere che essa ispira nasceranno da un sincero spirito di umiltà e da una scelta convinta a favore dei poveri, maturata e alimentata nel cuore, invocata e accolta dall’alto. Una carità così vissuta si porrà in ascolto della cultura del tempo e a sua volta la feconderà, ricevendone e offrendole stimoli, svegliando urgenze e attenzioni specialmente verso chi non ha voce o risulta invisibile allo sguardo dei grandi e dei potenti di turno. La cultura, insegnava don Lorendo Milani, non chiude gli occhi davanti ai bisogni dei poveri, avverte anzi la necessità di conoscerli e farli presenti, per spingere tutti a scelte e comportamenti di vita solidali con loro.

In questo senso resta più che mai vero - come afferma la Lettera a una professoressa dei suoi ragazzi di Barbiana - che «cultura è appartenere alla massa e possedere la parola»: una cultura così intesa non è che l’altro nome della carità pensata e vissuta, portata al concetto e giocata nel dono di sé fino alla fine
(Fonte: Il Sole 24Ore del 14 gennaio 2018)