sabato 2 dicembre 2017

VIAGGIO APOSTOLICO DI PAPA FRANCESCO IN MYANMAR E BANGLADESH (26 NOVEMBRE - 2 DICEMBRE 2017) 5 - S. Messa - Incontro interreligioso (cronaca, foto, testi e video)


Viaggio Apostolico del Santo Padre in Myanmar e Bangladesh (26 novembre - 2 dicembre 2017)



VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
IN MYANMAR E BANGLADESH
26 NOVEMBRE - 2 DICEMBRE 2017


1 dicembre 2017
Quinta giornata per il Papa in Bangladesh


Papa Francesco ha chiesto perdono ai rohingya, a nome di tutti quelli che li perseguitano e di quanti hanno fatto loro del male, ma soprattutto del mondo che rimane indifferente davanti alla tragedia di un popolo in fuga. Questi fratelli, ha spiegato, sono anche loro immagine del Dio vivente, perciò occorre continuare a fare loro del bene, sull’esempio del Bangladesh che ne ha accolti moltissimi. Non c’è tempo da perdere, bisogna mobilitarsi perché siano riconosciuti i loro diritti, senza chiudere il cuore o voltare lo sguardo altrove. Secondo Francesco infatti la presenza di Dio oggi si chiama anche rohingya: per questo ha assicurato loro che farà tutto ciò che può per aiutarli. Era ormai sera a Dhaka quando il Papa, visibilmente commosso, dopo aver ascoltato a lungo in silenzio le testimonianze di una quindicina di profughi provenienti dai campi di Cox Bazar, ha preso il microfono improvvisando il suo accorato appello. È accaduto alla fine dell’incontro interreligioso ed ecumenico per la pace, svoltosi venerdì 1° dicembre nel giardino della residenza del cardinale arcivescovo, dove il Pontefice ha concluso una intensa giornata, durante la quale, per la prima volta durante un viaggio internazionale, ha anche ordinato nuovi preti: sedici, in una nazione in cui ce ne sono in tutto meno di quattrocento. Ma è il suo abbraccio ai rifugiati — tra i quali due famiglie e una ragazzina di nove anni che ha perso tutti i suoi cari, genitori e fratelli — l’immagine simbolo della visita in Asia che volge al termine. Qui in Bangladesh dicono Milo ne ananda per esprimere «la gioia della comunione», quando si sta bene insieme anche tra persone che professano fedi diverse. Quell’atmosfera che si è respirata durante l’appuntamento di preghiera pomeridiano nel cuore della capitale: il Papa è arrivato trasportato su un coloratissimo risciò, in segno di rispetto per le tradizioni locali. Introdotto da canti e danze folcloristici, che richiamavano le varie anime del popolo bangladese in cui le diversità etniche riflettono quelle religiose, il suggestivo momento è stato arricchito da cinque testimonianze. Le hanno offerte autorevoli esponenti delle comunità musulmana, hindu, buddista, cattolica e della società civile. Il canto per la pace, intonato dal coro, ha preceduto il discorso del Pontefice, incentrato sulla promozione della cultura dell’incontro e della collaborazione, da contrapporre ai virus della corruzione, delle ideologie distruttive, e soprattutto alla tentazione di chiudere gli occhi davanti alle necessità dei poveri, dei rifugiati e delle minoranze perseguitate. Rappresentate a Dhaka proprio dal piccolo gruppo di rohingya, accompagnati da due interpreti della Caritas. Con loro Francesco ha trascorso pochi ma intensi minuti, fatti di sguardi e di lacrime, subito dopo la preghiera ecumenica pronunciata da un vescovo anglicano particolarmente commosso, che si è anche inginocchiato davanti al Papa per farsi benedire. Accolti con un fragoroso applauso dai presenti, uno dietro l’altro i profughi sono saliti sul palco per raccontare al Pontefice le loro drammatiche storie di dolore, di lutti, di violenze, di privazioni, visto che nei campi dove cercano di sopravvivere mancano acqua, cibo, medicinali, vestiti e coperte. Tra loro due donne che indossavano il velo e portavano anche il niqab sul volto lo hanno abbassato. Francesco ha ascoltato tutti con attenzione, il volto assorto, stringendo loro le mani o carezzandone il capo per incoraggiarli. Dopo l’appello, li ha invitati a posare con lui per una foto ricordo, e qualcuno ha iniziato a piangere; infine tutti insieme hanno pregato, ciascuno come sapeva. E attraverso quei gesti Francesco ha come voluto stringere a sé gli oltre seicentomila profughi, metà dei quali sono bambini, ammassati nella località di confine, dove numerose ong stanno offrendo assistenza umanitaria. L’incontro ha suggellato una giornata che si è aperta con la messa celebrata sotto un sole cocente al Suhrawardy Udyan Park di Dhaka. Si tratta di un altro sacrario della nazione: dopo essere stato un club militare delle truppe coloniali britanniche è divenuto l’ippodromo di Ramna, prima di essere destinato a memoriale e museo dell’indipendenza, al cui interno riposano tre grandi leader. Qui il “Bangabandhu” Sheikh Mujibur Rahman pronunciò uno storico discorso prima della guerra che nel 1971 portò alla nascita della giovane nazione. E qui l’esercito pakistano si arrese, al termine di un sanguinoso conflitto costato molte vite umane. Poiché la Chiesa fu in prima linea nell’assistenza e nella riabilitazione delle vittime della guerra di liberazione, essa pur rappresentando un’esigua minoranza (lo 0,24 per cento) nel quarto paese per popolazione islamica nel mondo gode di un discreto prestigio. E la messa di stamane ha testimoniato in modo visibile sia la capacità organizzativa sia la fede devota della comunità cattolica. Accolto secondo la tradizione asiatica con una ghirlanda di fiori, il Pontefice l’ha messa al collo prima di salire sulla papamobile scoperta bianca — un piccolo veicolo di fabbricazione indiana — con cui ha compiuto un ampio giro tra i centomila fedeli presenti, giunti da ogni angolo della nazione. Tra loro i bambini, con le vesti della prima comunione, che sventolavano nastri colorati e tante suore che si riparavano dalla calura con i cartoncini azzurri delle copertine dei libretti liturgici. Sull’austero altare, allestito in modo semplice con canne di bambù e paglia, Francesco ha presieduto l’Eucaristia per l’ordinazione di sedici nuovi sacerdoti locali: dieci diocesani, un oblato di Maria e cinque della congregazione della Santa Croce. Tra loro Jashmin Murmu, che viene da Dinajpur ed è il primo prete del suo villaggio dell’etnia Santal — nel paese vivono diverse tribù indigene — mentre Cizar Costa è originario di Rajshahi: «Tutti hanno studiato nell’unico seminario maggiore del Bangladesh, che attualmente ospita quattrocento studenti» ci ha detto il rettore Emmanuel Kanon Rozario. A presentarli per nome, uno a uno, è stato il vescovo Shorot Francis Gomes, ausiliare di Dhaka. Una volta al cospetto del Pontefice il cardinale D’Souza, primo porporato nella storia del paese, ha chiesto per loro l’ordinazione. Felice per la presenza di tanti famigliari e amici degli ordinandi, all’omelia — tratta dal rituale per l’ordinazione dei presbiteri — il Papa ha raccomandato un ministero incentrato sull’amore, l’amicizia e il servizio agli altri. Poi si è alzato in piedi per pronunciare alcune parole a braccio, subito tradotte in bengali. Al canto delle litanie dei santi i sedici giovani si sono sdraiati a terra; quindi il Pontefice ha imposto le mani sul capo di ciascuno, recitando la preghiera di consacrazione. La vestizione con la stola e la casula, e l’unzione delle mani hanno completato il suggestivo rito, culminato con la liturgia eucaristica. Alcune parti in lingua nazionale, l’offertorio in quella mandi, i canti negli idiomi tripura e santal, e un originale rito dell’incenso hanno caratterizzato la messa, concelebrata da alcuni cardinali e vescovi della regione — tra cui i porporati Gracias, Toppo e Alencherry — che il Papa ha salutato al termine del rito. Rientrato in nunziatura nel primo pomeriggio, Francesco ha ricevuto la visita del primo ministro Shekh Hasina. La figlia del “padre della nazione” si trovava in Germania quando suo padre fu assassinato ed è stata costretta a vivere a lungo in esilio. Divenuta leader dell’opposizione, dal 1996 ha assunto la guida del governo del Bangladesh, con incarichi rinnovati nel 2008 e nel 2014. Al termine del colloquio, durato 15 minuti, Francesco ha donato un trittico di medaglie, ricevendo in cambio il modellino d’argento di una caratteristica imbarcazione dei pescatori del golfo del Bengala. Quindi in automobile ha raggiunto Ramna, ove risiede il cardinale D’Souza e dove riposano i suoi predecessori, gli arcivescovi Theotonio Amal Ganguly e Michael Rozario. Nel complesso — che comprende la cattedrale, l’arcivescovado, la casa per anziani sacerdoti e il seminario — il Pontefice ha benedetto i mosaici commemorativi delle tre visite papali — quella di Montini, il 27 novembre 1970, di Wojtyła, il 19 novembre 1986, e la sua — oltre alla prima pietra di un nuovo centro pastorale. Quindi si è diretto all’interno della cattedrale di Santa Maria per pregare in silenzio nella cappella del Santissimo Sacramento. Nella circostanza il Pontefice ha reso omaggio alle tombe dei tre precedenti ordinari diocesani e improvvisato un breve saluto alle persone presenti. Infine, nella casa per sacerdoti anziani, si è rivolto alla Conferenza episcopale: una dozzina di presuli, tra i quali Paul Ponen Kubi, il primo adivasi, come vengono chiamati gli autoctoni. Nel suo discorso, integrato con diverse aggiunte subito tradotte in inglese dall’interprete, Francesco ha espresso apprezzamento per il piano pastorale del 1985, rilanciando l’opzione per i poveri. Al momento del congedo ha salutato alcuni preti ammalati, quindi ha raggiunto i partecipanti all’incontro interreligioso, durante il quale ha lanciato l’appello per i rohingya. Al termine il rientro in nunziatura.
(fonte: Davanti alla tragedia di un popolo in fuga di Gianluca Biccini in “L'Osservatore Romano” 1/12/2017)




 

SANTA MESSA E ORDINAZIONE PRESBITERALE
Suhrawardy Udyan Park (Dhaka)
Venerdì, 1° dicembre 2017








Al termine dell'omelia tratta dal Rituale per l’Ordinazione dei presbiteri il Papa ha aggiunto a braccio:
Adesso voglio rivolgermi a voi, cari fratelli e sorelle che siete venuti a questa festa, a questa grande festa di Dio nell’Ordinazione di questi fratelli sacerdoti. So che tanti di voi siete venuti da lontano, con un viaggio di più di due giorni… Grazie per la vostra generosità! Questo indica l’amore che voi avete per la Chiesa, questo indica l’amore che voi avete per Gesù Cristo. Grazie tante! Grazie tante per la vostra generosità, grazie tante per la vostra fedeltà. Andate avanti, con lo spirito delle Beatitudini. E mi raccomando, oggi, mi raccomando, pregate sempre per i vostri sacerdoti, specialmente per questi che oggi riceveranno il sacramento dell’Ordine sacro. Il popolo di Dio sostiene i sacerdoti con la preghiera. E’ vostra responsabilità sostenere i sacerdoti. Qualcuno di voi potrà domandarmi: “Ma, padre, come si fa per sostenere un sacerdote?”. Fidatevi della vostra generosità. Il cuore generoso che voi avete vi dirà come sostenere i sacerdoti. Ma il primo sostegno del sacerdote è la preghiera. Il popolo di Dio - cioè tutti, tutti - sostiene il sacerdote con la preghiera. Non stancatevi mai di pregare per i vostri sacerdoti. Io so che lo farete. Grazie tante! E adesso continuiamo il rito dell’Ordinazione di questi diaconi che saranno i vostri sacerdoti. Grazie.

Leggi il testo integrale dell'Omelia tratta dal Rituale per l’Ordinazione dei presbiteri

Guarda il video integrale della Messa

INCONTRO CON I VESCOVI DEL BANGLADESH
Casa per Sacerdoti anziani (Dhaka)
Venerdì, 1° dicembre 2017





Parole spontanee del Santo Padre prima di entrare in Cattedrale

Buonasera!

Ringrazio tutti voi che siete qui presenti, leader cristiani, laici che lavorano al servizio del Regno di Dio.

Semplicemente mi hanno detto che devo fare un saluto e mi viene in mente una parola da condividere con voi. L’Apostolo Paolo diceva che sentiva dentro di sé: “Guai a me se non evangelizzo!”.

Noi vogliamo che si viva il Vangelo come una grazia, come un tesoro, e lo abbiamo ricevuto gratuitamente. Dobbiamo chiedere al Signore di sentire ciò che sentiva Paolo. Sentire quel fuoco, quell’ansia nel cuore per evangelizzare. Non si tratta di fare proselitismo, no. La Chiesa, Regno di Dio, non cresce per proselitismo, cresce con la testimonianza. Si tratta di mostrare con la parola e la vita il tesoro che ci è stato donato. E questo è evangelizzare. Io vivo così, vivo questa parola, e che gli altri vedano; ma non è fare proselitismo.

Vi ringrazio per quello che fate, vi ringrazio per l’impegno, vi ringrazio perché mostrate il dono che Dio ci ha dato.

E oso chiedervi un favore: custodite il tesoro che Dio ci ha donato nel Vangelo. E il modo migliore di custodirlo è la grazia di Dio. Perciò vi chiedo di pregare molto, pregate molto perché venga questa grazia e vi conservi il tesoro.

E andiamo avanti nel cammino facendo vedere questo tesoro che Dio ci ha donato gratuitamente e che dobbiamo offrire agli altri gratuitamente.

Ed ora come fratelli tutti insieme chiediamo questa grazia gli uni per gli altri, recitando la preghiera che Gesù ci ha insegnato.

[Padre nostro]

Il Signore vi benedica e vi protegga. Faccia splendere il suo volto su di voi e vi mostri la sua grazia. Vi sveli il suo volto e vi conceda la grazia. Amen.

Non dimenticatevi di pregare per me.


DISCORSO DEL SANTO PADRE AI VESCOVI DEL BANGLADESH

Eminenza, 
Cari Fratelli nell’Episcopato,

Quanto è bene per noi stare insieme! Ringrazio il Cardinale Patrick [D’Rozario] per le sue parole di introduzione, con cui ha presentato le svariate attività spirituali e pastorali della Chiesa in Bangladesh. Ho particolarmente apprezzato il suo riferimento al lungimirante Piano Pastorale del 1985, che ha messo in luce i principi evangelici e le priorità che hanno guidato la vita e la missione della comunità ecclesiale in questa giovane nazione. La mia personale esperienza di Aparecida, che ha lanciato la missione continentale in Sud America, mi ha convinto della fecondità di tali piani, che coinvolgono l’intero popolo di Dio in un continuo processo di discernimento e di azione.

Mi piace anche la durata di questo piano pastorale, perché una delle malattie dei piani pastorali è che muoiono giovani. Ma questo è vivo dall’’85: complimenti! Auguri! Si vede che è stato ben fatto, che riflette la realtà del Paese e i bisogni pastorali; e riflette anche la perseveranza dei vescovi.

La realtà della comunione è stata al cuore del Piano Pastorale e continua ad ispirare lo zelo missionario che distingue la Chiesa in Bangladesh. La vostra stessa guida episcopale è stata tradizionalmente segnata dallo spirito di collegialità e di mutuo sostegno. E questo è grande! Questo spirito di affetto collegiale viene condiviso dai vostri sacerdoti e, tramite loro, si è propagato alle parrocchie, alle comunità e alle diverse forme di apostolato delle vostre Chiese locali. Esso trova espressione nella serietà con cui, nelle vostre diocesi, vi dedicate alle visite pastorali e dimostrate concreto interesse per il bene della vostra gente. Vi chiedo di perseverare in questo ministero di presenza. Voglio sottolineare che cosa vuol dire: non solo farsi vedere - si può farsi vedere mediante la tv -; ma una presenza come quella di Dio in noi, che si è fatto vicinanza, che si è fatto prossimità nell’Incarnazione del Verbo, nella condiscendenza, quella condiscendenza del Padre che ha mandato il Figlio a farsi uno di noi. E mi piace come voi abbiate coniato questa parola: “ministero di presenza”. Il vescovo è uno che è presente, che è vicino ed è prossimo. Sempre. Ripeto: perseverare in questo ministero di presenza, che solo può stringere legami di comunione unendovi ai vostri sacerdoti, che sono vostri fratelli, figli e collaboratori nella vigna del Signore, e ai religiosi e alle religiose che rendono un così fondamentale contributo alla vita cattolica in questo Paese.

Una parola vorrei sottolineare sui religiosi. Siamo abituati a dire: sì, ci sono due vie di santificazione nella Chiesa: la via presbiterale e la via laicale. Ma le suorine, cosa sono? Laiche? No. Per favore, bisogna far crescere l’idea che c’è una terza via di santificazione: la via della vita consacrata. Che non è un aggettivo: “questo è un laico, una laica consacrata”; è un sostantivo: “questo è un consacrato, questa è una consacrata”. Come diciamo “questo è un laico o una laica”, e “questo è un sacerdote”. E’ importante.

Nello stesso tempo, vi chiederei di mostrare una vicinanza anche più grande verso i fedeli laici. Loro devono crescere. Bisogna promuovere la loro effettiva partecipazione nella vita delle vostre Chiese particolari, non da ultimo tramite le strutture canoniche che fanno sì che le loro voci vengano ascoltate e le loro esperienze apprezzate. Riconoscete e valorizzate i carismi dei laici, uomini e donne, e incoraggiateli a mettere i loro doni al servizio della Chiesa e della società nel suo complesso. Penso qui ai numerosi zelanti catechisti di questa nazione - i catechisti sono i pilastri dell’evangelizzazione! -, il cui apostolato è essenziale alla crescita della fede e alla formazione cristiana delle nuove generazioni. Essi sono veri missionari e guide di preghiera, specie nelle zone più remote. Siate attenti ai loro bisogni spirituali e alla loro costante formazione nella fede. I catechisti. Ma anche i laici che ci aiutano e ci sono vicini, i consiglieri: i consiglieri pastorali, i consiglieri negli affari economici. In una riunione avuta sei mesi fa, ho sentito dire che forse un po’ più della metà delle diocesi, la metà o un po’ di più, ha i due consigli che il Diritto Canonico ci chiede di avere: quello pastorale e quello degli affari economici. E l’altra metà? Questo non può essere. Non è solo una legge, non è solo un aiuto, è spazio per i laici.

In questi mesi di preparazione per la prossima assemblea del Sinodo dei Vescovi, siamo tutti sollecitati a riflettere su come rendere meglio partecipi i nostri giovani della gioia, della verità e della bellezza della nostra fede. Il Bangladesh è stato benedetto con vocazioni al sacerdozio – oggi l’abbiamo visto! – e alla vita religiosa; è importante assicurare che i candidati siano ben preparati per comunicare le ricchezze della fede agli altri, particolarmente ai loro contemporanei. In uno spirito di comunione che unisce le generazioni, aiutateli a prendere in mano con gioia ed entusiasmo il lavoro che altri hanno iniziato, sapendo che essi stessi un giorno saranno chiamati a loro volta a trasmetterlo. Quell’atteggiamento interiore di ricevere l’eredità, farla crescere e trasmetterla: questo è lo spirito apostolico di un presbiterio. Che i giovani sappiano che il mondo non incomincia con loro, che loro devono cercare le radici, devono cercare le radici storiche, religiose… Far crescere quelle radici e trasmettere i frutti. Insegnate ai giovani a non essere sradicati; insegnate loro a colloquiare con gli anziani. Quando sono entrato qui [nell’Arcivescovado] c’erano i seminaristi delle medie. Dovevo fare loro due domande, en passant, ma ne ho fatta una soltanto, la prima, la più naturale: “Giocate a calcio?”. Tutti: “Sì!”. La seconda era: “Andate a trovare i nonni, i preti anziani? A sentire le storie della loro vita, del loro apostolato?”. I formatori del seminario devono educare i giovani seminaristi ad ascoltare i vecchi preti: lì ci sono le radici, lì c’è la saggezza della Chiesa.

Una notevole attività sociale della Chiesa in Bangladesh è diretta all’assistenza delle famiglie e, specificamente, all’impegno per la promozione delle donne. La gente di questo Paese è nota per il suo amore alla famiglia, per il suo senso di ospitalità, per il rispetto che mostra verso i genitori e i nonni e la cura verso gli anziani, gli infermi e i più indifesi. Questi valori sono confermati ed elevati dal Vangelo di Gesù Cristo. Una speciale espressione di gratitudine è dovuta a tutti coloro che lavorano silenziosamente per sostenere le famiglie cristiane nella loro missione di dare quotidiana testimonianza all’amore riconciliante del Signore e nel far conoscere il suo potere di redenzione. Come l’Esortazione Ecclesia in Asia ha segnalato, «la famiglia non è semplicemente l’oggetto della cura pastorale della Chiesa, ma ne è anche uno degli agenti di evangelizzazione più efficaci» (n. 46).

Un obiettivo significativo indicato nel Piano Pastorale, e che si è davvero dimostrato profetico, è l’opzione per i poveri. La Comunità cattolica in Bangladesh può essere fiera della sua storia di servizio ai poveri, specialmente nelle zone più remote e nelle comunità tribali; continua questo servizio quotidianamente attraverso il suo apostolato educativo, i suoi ospedali, le cliniche e i centri di salute, e la varietà delle sue opere caritative. Eppure, specie alla luce della presente crisi dei rifugiati, vediamo quanto ancora maggiori siano le necessità da raggiungere! L’ispirazione per le vostre opere di assistenza ai bisognosi sia sempre la carità pastorale, che è sollecita nel riconoscere le umane ferite e rispondere con generosità, a ciascuno personalmente. Nel lavorare per creare una “cultura di misericordia” (cfr Lett. ap. Misericordia et misera, 20). In questo lavoro, le vostre Chiese locali dimostrano la loro opzione per i poveri, rafforzano la proclamazione dell’infinita misericordia del Padre e contribuiscono in non piccola misura allo sviluppo integrale della loro patria.

Un importante momento della mia visita pastorale in Bangladesh è l’incontro interreligioso ed ecumenico che avrà luogo immediatamente dopo il nostro incontro. La vostra è una nazione dove la diversità etnica rispecchia la diversità delle tradizioni religiose. L’impegno della Chiesa di portare avanti la comprensione interreligiosa tramite seminari e programmi didattici, come anche attraverso contatti e inviti personali, contribuisce al diffondersi della buona volontà e dell’armonia. Adoperatevi incessantemente a costruire ponti e a promuovere il dialogo, non solo perché questi sforzi facilitano la comunicazione tra diversi gruppi religiosi, ma anche perché risvegliano le energie spirituali necessarie per l’opera di costruzione della nazione nell’unità, nella giustizia e nella pace.

Quando i capi religiosi si pronunciano pubblicamente con una sola voce contro la violenza ammantata di religiosità e cercano di sostituire la cultura del conflitto con la cultura dell’incontro, essi attingono alle più profonde radici spirituali delle loro varie tradizioni. Essi provvedono anche un inestimabile servizio per il futuro dei loro Paesi e del nostro mondo insegnando ai giovani la via della giustizia: «occorre accompagnare e far maturare generazioni che rispondano alla logica incendiaria del male con la paziente ricerca del bene» (Discorso ai partecipanti alla Conferenza internazionale per la pace, Al-Azhar, Il Cairo, 28 aprile 2017).

Cari confratelli Vescovi, sono grato al Signore per questi momenti di conversazione e condivisione fraterna. Sono anche contento che questo Viaggio Apostolico, che mi ha condotto in Bangladesh, mi ha permesso di testimoniare la vitalità e il fervore missionario della Chiesa in questa nazione. Nel presentare al Signore le gioie e le difficoltà delle vostre comunità locali, chiediamo insieme una rinnovata effusione dello Spirito Santo, perché ci conceda «il coraggio di annunciare la novità del Vangelo con audacia – parrhesía – a voce alta e in ogni tempo e luogo, anche controcorrente» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 259). Possano i sacerdoti, i religiosi, i consacrati e le consacrate, e i fedeli laici affidati alla vostra cura pastorale, trovare una sempre rinnovata forza nei loro sforzi di essere «evangelizzatori che annuncino la Buona Notizia non solo con le parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio» (ibid.). A tutti voi, con grande affetto, imparto la mia benedizione, e vi chiedo, per favore, di pregare per me. Grazie.

INCONTRO INTERRELIGIOSO ED ECUMENICO PER LA PACE
Residenza dell'Arcivescovado (Dhaka)
Venerdì, 1° dicembre 2017




 


DISCORSO DEL SANTO PADRE

Illustri Ospiti,
Cari Amici,

Il nostro incontro, che riunisce i rappresentanti delle diverse comunità religiose di questo Paese, costituisce un momento molto significativo della mia visita in Bangladesh. Ci siamo radunati per approfondire la nostra amicizia e per esprimere il comune desiderio del dono di una pace genuina e duratura.

Il mio ringraziamento va al Cardinale D’Rozario per le sue gentili parole di benvenuto e a quanti mi hanno accolto con calore a nome delle comunità musulmana, induista, buddista, cristiana e anche della società civile. Sono grato al Vescovo anglicano di Dhaka per la sua presenza, alle varie comunità cristiane e a tutti coloro che hanno contribuito a rendere possibile questa riunione.

Le parole che abbiamo ascoltato, ma anche i canti e le danze che hanno animato la nostra assemblea, ci hanno parlato in modo eloquente del desiderio di armonia, fraternità e pace contenuto negli insegnamenti delle religioni del mondo. Possa il nostro incontro di questo pomeriggio essere un chiaro segno degli sforzi dei leader e dei seguaci delle religioni presenti in questo Paese a vivere insieme nel rispetto reciproco e nella buona volontà. In Bangladesh, dove il diritto alla libertà religiosa è un principio fondamentale, questo impegno sia un richiamo rispettoso ma fermo a chi cercherà di fomentare divisione, odio e violenza in nome della religione.

È un segno particolarmente confortante dei nostri tempi che i credenti e le persone di buona volontà si sentano sempre più chiamati a cooperare alla formazione di una cultura dell’incontro, del dialogo e della collaborazione al servizio della famiglia umana. Ciò richiede più che una mera tolleranza. Ci stimola a tendere la mano all’altro in atteggiamento di reciproca fiducia e comprensione, per costruire un’unità che comprenda la diversità non come minaccia, ma come potenziale fonte di arricchimento e crescita. Ci esorta a coltivare una apertura del cuore, in modo da vedere gli altri come una via, non come un ostacolo.

Permettetemi di esplorare brevemente alcune caratteristiche essenziali di questa “apertura del cuore” che è la condizione per una cultura dell’incontro.

In primo luogo, essa è una porta. Non è una teoria astratta, ma un’esperienza vissuta. Ci permette di intraprendere un dialogo di vita, non un semplice scambio di idee. Richiede buona volontà e accoglienza, ma non deve essere confusa con l’indifferenza o la reticenza nell’esprimere le nostre convinzioni più profonde. Impegnarsi fruttuosamente con l’altro significa condividere le nostre diverse identità religiose e culturali, ma sempre con umiltà, onestà e rispetto.

L’apertura del cuore è anche simile ad una scala che raggiunge l’Assoluto. Ricordando questa dimensione trascendente della nostra attività, ci rendiamo conto della necessità di purificare i nostri cuori, in modo da poter vedere tutte le cose nella loro prospettiva più vera. Ad ogni passo la nostra visuale diventerà più chiara e riceveremo la forza per perseverare nell’impegno di comprendere e valorizzare gli altri e il loro punto di vista. In questo modo, troveremo la saggezza e la forza necessarie per tendere a tutti la mano dell’amicizia.

L’apertura del cuore è anche un cammino che conduce a ricercare la bontà, la giustizia e la solidarietà. Conduce a cercare il bene del nostro prossimo. Nella sua Lettera ai cristiani di Roma, San Paolo ha così esortato: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (12,21). Questo è un atteggiamento che tutti noi possiamo imitare. La sollecitudine religiosa per il bene del nostro prossimo, che scaturisce da un cuore aperto, scorre come un grande fiume, irrigando le terre aride e deserte dell’odio, della corruzione, della povertà e della violenza che tanto danneggiano la vita umana, dividono le famiglie e sfigurano il dono della creazione.

Le diverse comunità religiose del Bangladesh hanno abbracciato questa strada in modo particolare nell’impegno per la cura della terra, nostra casa comune, e nella risposta ai disastri naturali che hanno afflitto la nazione negli ultimi anni. Penso anche alla comune manifestazione di dolore, preghiera e solidarietà che ha accompagnato il tragico crollo del Rana Plaza, che rimane impresso nella mente di tutti. In queste diverse espressioni, vediamo quanto il cammino della bontà conduce alla cooperazione al servizio degli altri.

Uno spirito di apertura, accettazione e cooperazione tra i credenti non solo contribuisce a una cultura di armonia e di pace; esso ne è il cuore pulsante. Quanto ha bisogno il mondo di questo cuore che batte con forza, per contrastare il virus della corruzione politica, le ideologie religiose distruttive, la tentazione di chiudere gli occhi di fronte alle necessità dei poveri, dei rifugiati, delle minoranze perseguitate e dei più vulnerabili! Quanta apertura è necessaria per accogliere le persone del nostro mondo, specialmente i giovani, che a volte si sentono soli e sconcertati nel ricercare il senso della vita!

Cari amici, vi ringrazio per i vostri sforzi nel promuovere la cultura dell’incontro, e prego che, con la dimostrazione del comune impegno dei seguaci delle religioni a discernere il bene e a metterlo in pratica, aiuteremo tutti i credenti a crescere nella saggezza e nella santità, e a cooperare per costruire un mondo sempre più umano, unito e pacifico.

Apro il mio cuore a tutti voi e vi ringrazio ancora una volta per la vostra accoglienza. Ricordiamoci vicendevolmente nelle nostre preghiere.

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INCONTRO CON IL GRUPPO DI PROFUGHI ROHINGYA

 





PAROLE DEL SANTO PADRE FRANCESCO


Cari fratelli e sorelle, noi tutti vi siamo vicini. E’ poco quello che noi possiamo fare perché la vostra tragedia è molto grande. Ma facciamo spazio nel nostro cuore. A nome di tutti, di quelli che vi perseguitano, di quelli che hanno fatto del male, soprattutto per l’indifferenza del mondo, vi chiedo perdono. Perdono. Tanti di voi mi avete detto del cuore grande del Bangladesh che vi ha accolto. Adesso io mi appello al vostro cuore grande perché sia capace di darci il perdono che chiediamo.

Cari fratelli e sorelle, il racconto ebreo-cristiano della creazione dice che il Signore che è Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. Tutti noi siamo questa immagine. Anche questi fratelli e sorelle. Anche loro sono immagine del Dio vivente. Una tradizione delle vostre religioni dice che Dio, all’inizio, ha preso un po’ di sale e l’ha buttato nell’acqua, che era l’anima di tutti gli uomini; e ognuno di noi porta dentro un po’ del sale divino. Questi fratelli e sorelle portano dentro il sale di Dio.

Cari fratelli e sorelle, soltanto facciamo vedere al mondo cosa fa l’egoismo del mondo con l’immagine di Dio. Continuiamo a far loro del bene, ad aiutarli; continuiamo a muoverci perché siano riconosciuti i loro diritti. Non chiudiamo i cuori, non guardiamo dall’altra parte. La presenza di Dio, oggi, anche si chiama “Rohingya”. Ognuno di noi, dia la propria risposta.


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