mercoledì 27 dicembre 2017

Il Natale “arrabbiato” di Francesco di Piero Schiavazzi

Il Natale “arrabbiato” di Francesco 
di Piero Schiavazzi


Mentre il solstizio d'inverno splendeva sull'oro dei mosaici e il cerimoniere spandeva incenso sull'altare dei pontefici, Francesco ha riservato a se stesso e riversato sul mondo senza risparmio il terzo dono dei magi, quello della mirra. 
Nella serie "cult" e ad alto share dei Natali televisivi non era infatti mai accaduto che il "verbo" prendesse corpo e s'incarnasse in modo così concreto e provocatorio, sovrapponendo ai passi di Maria e Giuseppe "le orme di milioni di persone che non scelgono di andarsene ma che sono obbligati a separarsi dai loro cari, sono espulsi dalla loro terra". 
Bergoglio la definisce "tenerezza rivoluzionaria", ma le parole pronunciate nel cuore della notte hanno colpito con durezza inaudita da breacking news, spezzando la tregua elettorale appena iniziata e rilasciando ai migranti, seduta stante, "il documento di cittadinanza". Ritirando contestualmente il certificato di battesimo alle democrazie cristiane dell'Est Europa, che nei proclami dell'astro nascente, il trentunenne cancelliere austriaco Sebastian Kurz, rifiutano le quote di Bruxelles e fanno del Danubio la frontiera di una "brexit" spirituale: foriera dello scisma strisciante tra i due cristianesimi, egalitario e identitario, del Papa e dei nuovi guru. 
Se la politica rinuncia o elude, Francesco denuncia e allude. Che più chiaro non si può. Confermando l'attitudine – abitudine a un uso diretto, dirompente delle scritture, applicate ai problemi del momento, dal Mediterraneo al Rio Grande, da Gerusalemme ai Rohingya, senza mediazioni o interpretazioni. 
Ad intra e ad extra: nel Natale "arrabbiato" di Francesco ce n'è per tutti. Dentro le mura, in Urbe, e contro i muri, nell'Orbe. 
Dal discorso del 21 dicembre, che ha proiettato sulla curia e sul tramonto precoce del processo di riforma l'ombra del giorno più corto dell'anno, sino alla benedizione di oggi a mezzodì, che ha posizionato sulla Terra Santa lo zenit dei mediatico, rigettando il fatto compiuto e progettando "la coesistenza di due Stati, all'interno di confini concordati tra loro e internazionalmente riconosciuti". Nel suo excursus, Bergoglio assume lo sguardo dei bambini, dal buco nero dell'Africa Centrale, che li rapisce innocenti e restituisce combattenti, al cielo incandescente della Corea, dove la scia luminosa della cometa si confonde con quella dei missili balistici. 
Mentre il pianeta si contende Gerusalemme, la Chiesa di Francesco ritorna bambina e si protende a Betlemme: verso le tante, anonime Betlemme che spuntano dalla storia e sbiadiscono nella memoria, fluida, dei contemporanei, ma trovano fissa dimora e promessa fioritura nell'agenda, e sull'atlante, del Romano Pontefice. Ossia nel programma e nell'organigramma di un prossimo conclave. Rinnovando venti secoli dopo la magia e l'energia rigeneratrice del Natale cristiano. Fuor e fior di metafora. E' questo l'epilogo geografico dell'apologo evangelico, nell'orizzonte dell'umanità globalizzata. Come in un film di Frank Capra o in una fiaba dei fratelli Grimm, al traguardo del quinto anno pontificato, la parabola del Papa venuto dai confini del mondo racconta di sconfitte interne e riforme mancate, sicuramente, ma pure di cenerentole elette regine, immantinente, calzando la scarpetta cardinalizia e scalzando dalla vetta natalizia dell'albero gerarchico nomenclature a lungo intangibili. Morelia e Mérida, Les Cayes e San José de David, Bamako e Ouagadougou, Bangui e Santiago de Cabo Verde, Port Louis e Port Moresby, Nuku'alofa e Tlalnepantla, Cotabato e Pakse, Dacca e Yangon: dalle sabbie del Sahel alle spiagge dei mari del Sud, dai deserti che spingono alla fuga i diseredati ai sobborghi delle metropoli che li attraggono. Città semisconosciute o isole sperdute, in fondo alle hit della notorietà e del reddito, ricevono la chiamata degli angeli, alla stregua dei pastori, e vengono ammesse al presepe di Bergoglio, per contemplare da vicino il figlio di Dio e prepararsi un giorno all'elezione del suo Vicario. 
Se la "sfinge" curiale – per rassegnata constatazione di Francesco e significativa citazione di Monsignor De Mérode - rimane impassibile e apparentemente invincibile davanti al tentativo di riformarla, o ripulirla, "con uno spazzolino da denti", è altrettanto vero che la "piramide" nel suo insieme, a livello globale, risulta spiazzata a tratti spazzata via, progressivamente, dalla più grande redistribuzione di potere geopolitico, e genealogico, nella storia bi-millenaria dell'istituzione. Al punto da chiedersi quale sia l'obiettivo autentico del Pontefice: tra il bersaglio immobile dell'Urbe, che di anno in anno delegittima e destabilizza con ironia creola (un dentista, restando al celebre paragone del gesuita De Mérode, osserverebbe che non riuscendo a curare la carie la devitalizza e incapsula, per contenerne il danno), e lo scenario dell'Orbe, dove viceversa il movimento, e cambiamento, si mostrano continui e irreversibili. 
Un filo rosso che di viaggio in viaggio, attraverso una tenace, sagace tessitura di nomine cardinalizie, ha modificato la pigmentazione purpurea del mappamondo e collocato le "chiese bambine" in vantaggio su Roma e Gerusalemme. Un "codice Bergoglio", che dallo scoglio di Lampedusa e dal groviglio del Bangladesh - Myanmar conduce dritto sulla soglia della Sistina, dove si sceglierà l'eletto al soglio, con il bagaglio di genialità e ingenuità, inesperienza e intraprendenza che l'anagrafe reca in dote. Mentre risuonano le parole del profeta: "Non sei davvero il più piccolo capoluogo ... da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo".

(fonte: “l'Huffington Post” 25 dicembre 2017)

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