giovedì 5 ottobre 2017

«Riscoprire le proprie radici». - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
5 ottobre 2017
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 



Papa Francesco:
Nostalgia delle radici”


Mettersi «in cammino per ritrovare le proprie radici» e in esse trovare «la forza di andare avanti». È questo l’itinerario umano e spirituale suggerito da Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta giovedì 5 ottobre. Un percorso importante, ineludibile, perché, ha detto, «un popolo senza radici è ammalato» e «una persona senza radici è ammalata».

Lo spunto della riflessione è giunto dalla prima lettura del giorno (Neemia, 8,1-4.5-6.7-12) nella quale si narra di una «grande assemblea liturgica» che, dopo l’esilio, vede «radunato nel tempio» tutto il popolo d’Israele. È di fatto, ha spiegato il Pontefice, «la fine di una storia durata più di settant’anni», quella «della deportazione del popolo di Dio in Babilonia». Furono anni «di tristezza» e «di pianto». Quel pianto che fu di Neemia «quando ricordava Gerusalemme; ricordava le notizie che aveva ricevuto di quei pochi che erano rimasti là, nella miseria, nella schiavitù... piangeva tanto. Aveva tristezza nel cuore». Fu allora che «il Signore mosse il cuore del re per capire questa tristezza, quando Neemia versava il vino». E lì cominciò «il dialogo per tornare a Gerusalemme», per «ritornare alla casa».

Francesco si è soffermato a riflettere sulla tristezza del popolo di Israele che aveva «nostalgia della sua città e piangeva». Una nostalgia espressa, ad esempio, nel salmo 136, dove si dice essi «lungo i fiumi di Babilonia sedevano e piangevano». Del resto, come potevano «cantare i canti del Signore in terra straniera»? Infatti le loro «cetre erano lì, sui salici». Eppure, ha sottolineato il Papa, «loro non dimenticavano. È vero: il ricordo può indebolirsi, ma loro avevano quella volontà di non dimenticare: “Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo”». Pensando a quella situazione, il Pontefice ha suggerito un parallelo con la «nostalgia dei migranti, la nostalgia di quelli che sono lontani dalla patria e vogliono tornare». E ha anche ricordato il canto popolare genovese Ma se ghe pensu ascoltato durante la sua recente visita nel capoluogo ligure: un omaggio a «tutti i migranti che volevano essere lì, alla messa del Papa, ma erano lontani, nella nostalgia».

Fu così, ha continuato Francesco riprendendo il racconto dell’Antico testamento, che Neemia si adoperò per riportare il popolo «alla sua città». E «cominciò il viaggio». Un viaggio che sarà «per ri-trovare la città e per ri-costruire la città». Non era semplice, ha detto il Papa: «doveva convincere tanta gente, portare le cose per costruire la città, le mura, il tempio, ma soprattutto era un viaggio per ri-trovare le radici del popolo».

Il popolo infatti, dopo tanti anni, «non aveva perso le radici, ma si erano indebolite». Occorreva «riprendere le radici», cioè «l’appartenenza a un popolo». Del resto, ha spiegato il Pontefice, «senza le radici non si può vivere: un popolo senza radici o che lascia perdere le radici, è un popolo ammalato». Allo stesso modo «una persona senza radici, che ha dimenticato le proprie radici, è ammalata». Bisogna quindi «riscoprire le proprie radici e prendere la forza per andare avanti, la forza per dare frutto e, come dice il poeta, “la forza per fiorire perché quello che l’albero ha di fiorito viene da quello che ha di sotterrato”».

Va comunque considerato, che «in questo cammino ci sono state tante resistenze» e che sono passati anni prima che il popolo potesse arrivare all’assemblea liturgica descritta nella lettura. Se c’è, infatti, «la volontà del popolo di trovare le radici», vi sono anche «le resistenze» di quelli «che preferiscono l’esilio». Un esilio che non è solo «fisico»: per Francesco esiste anche «l’esilio psicologico: l’auto-esilio dalla comunità, dalla società, quelli che preferiscono essere popolo sradicato, senza radici». Una condizione che si ritrova anche nell’uomo di oggi, e che è una vera e propria «malattia»: l’auto-esilio psicologico, infatti, «fa tanto male, toglie le radici, ci toglie l’appartenenza».

In ogni caso, il popolo d’Israele andò avanti, vennero ricostruiti il tempio e le mura, e il popolo «si radunò per ripristinare la propria appartenenza, per ripristinare le radici, cioè per ascoltare la Legge». La Scrittura descrive una scena grandiosa: «Dal mattino presto fino oltre mezzogiorno» il popolo «era lì, in piedi, si inginocchiava, adorava, si alzava e ascoltava la parola che lo scriba Esdra leggeva, la parola di Dio, la Legge e che spiegavano i Leviti. E il popolo piangeva, piangeva...». Stavolta però, ha notato Francesco, «non era il pianto di Babilonia» ma «il pianto della gioia, dell’incontro con le proprie radici, l’incontro con la propria appartenenza». E infatti Neemia disse loro: «“Andate, fate festa”, cioè: “Mangiate carni grasse e bevete vini dolci e mandate porzioni a quelli che nulla hanno di preparato. Non vi rattristate”». Ha spiegato il Papa: «L’uomo e la donna che ritrovano le proprie radici, che sono fedeli alla propria appartenenza, sono un uomo e una donna in gioia, di gioia e questa gioia è la loro forza. Si passa quindi «dal pianto di tristezza al pianto di gioia; dal pianto di debolezza per essere lontani dalle radici, lontani dal loro popolo, al pianto di appartenenza: “Sono a casa”».

Può essere utile a tutti, ha suggerito quindi il Pontefice, riprendere il capitolo 8 del libro di Neemia «e leggerlo: è bellissimo, questo passo». Può infatti dare lo spunto per chiedersi: «Io lascio cadere il ricordo del Signore, il ricordo della mia appartenenza? Io sono capace di incominciare un cammino, fare strada per ritrovarmi con le mie radici, con la mia appartenenza? O preferisco l’auto-esilio, l’esilio psicologico, chiusa, chiuso in me stesso?». Ma anche per domandarsi: «Ho paura di piangere?». Infatti, ha spiegato il Papa, «se tu hai paura di piangere, avrai paura di ridere, perché quando si piange, quando si piange di tristezza, si piangerà di gioia, dopo». Ma, ha aggiunto, questa «è una capacità per la quale dobbiamo chiedere la grazia: del pianto, del pianto pentito, triste per i nostri peccati, ma anche del pianto della gioia perché il Signore ci ha redenti, ci ha perdonato e ha fatto nella nostra vita quello che ha fatto con il suo popolo». E ha concluso: «Chiediamo al Signore questa grazia: di andare in cammino per incontrarci con le nostre radici».

(fonte: L'Osservatore Romano)

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