Smartphone DIPENDENTI
di Stefania Grassini
Il messaggio Whatsapp, il post su Facebook o Instagram, applicazioni irrinunciabili e poi mail, notizie e giochi. Alter: «Un dispositivo studiato per attirare ogni istante la nostra attenzione» Quella notifica di Whatsapp che proprio non possiamo perdere, il post di Facebook che sembra imprescindibile, il nostro profilo Instagram e i like in aumento o in diminuzione, i tweet in arrivo, e quella notizia incredibile che dobbiamo condividere subito. Tutto concorre a tenerci sempre connessi, attaccati agli schermi dei nostri smartphone, da cui ci attendiamo continue novità e gratificazioni.
Nel nostro rapporto con il cellulare "intelligente" che portiamo in tasca o nella borsa siamo ormai arrivati a un punto di simbiosi tale che dovremmo abituarci a guardarlo come una sorta di slot machine, un dispositivo studiato per creare dipendenza, dove nulla è lasciato al caso ma ogni dettaglio ha lo scopo di rendere estremamente difficile staccare gli occhi (e le dita) dallo schermo. Nell' era del sovraccarico informativo, la risorsa veramente preziosa è la nostra attenzione: per attirarla e trattenerla è in atto una lotta senza esclusione di colpi tra i protagonisti del Web. In palio ci sono gli enormi investimenti della pubblicità online, che hanno bisogno di individuare destinatari quanto più possibile interessati ai prodotti che propongono. «Siamo nell' economia dell' attenzione, dove servizi come Facebook, Instagram o Twitter cercano di attrarci e farci tornare sempre più spesso e per un tempo più lungo sui propri siti. In una situazione del genere i meccanismi che creano dipendenza sono vincenti», spiega Adam Alter, professore di marketing e di psicologia alla New York University, autore di un volume uscito di recente negli Stati Uniti, Irresistible, in cui studia come sono nate e si sono affermate quelle che l' autore chiama «tecnologie della dipendenza».
Professor Alter, in che modo i servizi che usiamo più spesso riescono a tenerci agganciati, rendendo molto difficile distaccarcene?
«I social media ci coinvolgono in vari modi: i like, i retweet, i commenti, le condivisioni ci inducono a produrre e condividere contenuti sempre nuovi allo scopo di ottenere apprezzamenti. È un meccanismo alla base della dipendenza: la gratificazione di vedere che qualcuno è d' accordo con noi e approva ciò che facciamo. Il rinforzo positivo che otteniamo induce la produzione di dopamina e quindi il desiderio di ripetere sempre più spesso quell' esperienza. Ma non c' è garanzia che otterremo gratificazioni simili in futuro: su Instagram ad esempio una foto può ottenere un gran numero di like e quella successiva nessuno. Proprio questa incertezza aumenta la dipendenza, spingendoci a provare e riprovare, nella speranza di un feedback positivo».
Proprio come una slot machine «Esatto. Un altro espediente usato spesso è quello di porre obiettivi - arrivare a mille amici, a cento like o duecento condivisioni - e questo estende il coinvolgimento nel tempo. Molto comune è anche lo scorrimento continuo del testo, senza separazione tra una pagina e l' altra, una tecnica adottata fra gli altri da Facebook e Instagram. Non si raggiunge mai la fine della propria bacheca e si può continuare a scorrere teoricamente all' infinito.
Siamo così portati a continuare a controllare, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo e interessante».
Questo tipo di dipendenza può essere in qualche modo paragonato a quella da sostanze come droga o alcol?
«Certamente non ha le stesse conseguenze sul piano fisiologico - non provoca morte o gravi malattie come la tossicodipendenza o l' alcolismo - ma riguarda un numero molto più elevato di persone: è da considerare a rischio praticamente chiunque abbia accesso a un telefono cellulare. La definizione di dipendenza che preferisco è quella di un' esperienza che si continua a ripetere compulsivamente nel breve periodo e che a lungo termine danneggia il proprio stato psicologico, finanziario, sociale e in certi casi anche fisico. È il modo in cui molti di noi usano gli schermi, spesso a scapito della propria vita di relazione».
Quali sono gli strumenti o i servizi più insidiosi da questo punto di vista?
«Certamente l' email ci fa perdere molto tempo ogni giorno, ma credo che i problemi principali derivino dai videogames, penso in particolare al popolare "World of Warcraft", un gioco di ruolo online che coinvolge decine di milioni di persone, circa la metà dei quali, secondo alcune ricerche, avrebbero sviluppato forme di vera dipendenza. Negli Stati Uniti e in altre parti del mondo ci sono cliniche specializzate nella cura di questa patologia».
Come immagina l' evoluzione di queste tecnologie?
«Temo molto gli sviluppi della realtà virtuale e della realtà aumentata, che renderanno ancora più facile il distacco dalla situazione reale in cui ci troviamo per sfuggire in un mondo virtuale in cui tutto sembra perfetto».
Come possiamo sottrarci allora ai rischi di dipendenza, e educare i nostri figli a farlo?
«Non è facile, ma possiamo abituarci a smettere di usare i nostri dispositivi in certi momenti della giornata. E poi dobbiamo insegnare a farlo anche ai più giovani in famiglia, proprio come li educhiamo a salutare, ringraziare e in generale alle buone maniere nei rapporti con gli altri. In particolare è molto importante non usare il cellulare immediatamente prima di dormire: la luce emessa dallo schermo segnala al nostro cervello che è ancora giorno e induce una forma di jetlag, incidendo sulla qualità del sonno sia degli adulti che dei ragazzi».
In Italia è in corso un vivace dibattito sull' opportunità di utilizzare i telefoni cellulari in classe come strumento didattico con il quale gli insegnanti potrebbero coinvolgere maggiormente gli studenti. Cosa ne pensa?
«Le dico solo che alla Business School della New York University non è consentito utilizzare alcuna tecnologia in aula: niente telefono, computer portatile o iPad. Ed è un' impostazione che condivido pienamente».
(Fonte: Avvenire del 26.10.2017)
Smartphone Il cervello è sotto attacco
di Alessandro Farruggia
SIAMO sempre più dipendenti dai nostri smartphone. Anche psicologicamente. E non ce ne rendiamo conto. Una ricerca dell' analista Ben Bajarin mostra come un utilizzatore medio di uno smartphone Apple lo consulti 80 volte al giorno, 30mila all'anno. Questo potrebbe avere effetti negativi, secondo alcuni anche su come funzionano i processi cognitivi. Uno studio su 166 soggetti pubblicato nel 2015 Journal of Experimental Psychology, ha scoperto che quando i telefoni delle persone suonano o vibrano mentre sono nel bel mezzo di un compito impegnativo, la loro attenzione si riduce, e il loro lavoro diventa più lento, sia che controllino il telefono o meno. Nella stessa direzione vanno Peter Nikken e Marjon Sholes della Erasmus university di Rotterdam in uno studio su 896 bambini olandesi pubblicato sul Journal of child and familys studies affermano che «l' attuale generazione di bambini e adolescenti sta sviluppando un' attenzione sempre più breve a causa del loro maggiore contatto con gli smartphone, e l' uso in età più giovane». Alcuni studi vanno oltre. Jeongmine Lee e altri ricercatori della Ewha university di Seul affermano che «gli studenti con il punteggio più alto nella dipendenza da smartphone hanno ottenuto un punteggio significativamente più basso nelle scale dei flussi di apprendimento».
E anche la memoria puo essere influenzata dall' uso dello smartphone. Un noto studio di Betsy Sparrow pubblicato su Science nel 2011 pone l' accento sul cosiddetto Google effect e mostra che «l' aspettativa di poter accedere successivamente alle informazioni attraverso un motore di ricerca può renderci meno propensi a codificare e memorizzare tali informazioni nella memoria a lungo termine».
IN UN ARTICOLO pubblicato sul Journal of the Association for Consumer Research, Adrian Ward e i suoi colleghi dell' università di Austin hanno scritto che «l' integrazione degli smartphone nella vita quotidiana sembra causare un effetto negativo sul cervello che può diminuire abilità mentali vitali come l' apprendimento, il ragionamento logico, il pensiero astratto, la risoluzione dei problemi e la creatività». Per provare la loro tesi lui e tre colleghi hanno reclutato 520 studenti universitari all' UCSD e hanno dato loro due test, uno sulla capacità cognitiva disponibile, il secondo che misura l' intelligenza fluida. L' unica variabile nell' esperimento è stata la posizione degli smartphone dei soggetti. Ad alcuni studenti è stato chiesto di mettere il telefono davanti a loro sulla scrivania; ad altri è stato chiesto di stivare il telefono in tasca o in borsa; ad altri è stato chiesto di lasciare il telefono in una stanza diversa. I risultati sono stati impressionanti. In entrambi i test, i soggetti i cui telefoni sono stati in vista hanno i punteggi peggiori, mentre quelli che hanno lasciato i loro telefoni in una altra stanza ha avuto i punteggi più alti.
«Ora che i nostri telefoni hanno reso così facile raccogliere informazioni online - ha scritto sul Wall Street Journal Nicholas Carr, che dal 2008 pubblica lavori critici sugli effetti degli smartphone - i nostri cervelli stanno probabilmente affidando sempre più il lavoro di ricordare alla tecnologia. Peccato che solo codificando le informazioni nella nostra memoria biologica possiamo tessere le ricche associazioni intellettuali che costituiscono l' essenza del sapere personale e danno origine al pensiero critico e concettuale».
MA ALTRI negano che le ricerche siano conclusive. Così Enry Wilmer Lauren Sherman e e Janon Chain della Temple university su Frontiers in Psycology. «Sebbene la ricerca sui potenziali impatti cognitivi della tecnologia smarphone sia in crescita - osservano - i risultati rimangono contraddittori e inconcludenti. Nonostante la natura inconcludente della letteratura, i titoli dei media incoraggiano una percezione pubblica che i risultati sono conclusivi e che gli smartphone hanno un impatto definitivo e negativo sul funzionamento cognitivo»
(Fonte: La Nazione del 23.10.2017)
Lo psichiatra: dissociati dalla realtà
«Troppi giovani malati di social»
di Giovanni Panettiere
Rimini - LO RIPRENDE mentre sta esalando gli ultimi respiri, lo fotografa e poi posta tutti i filmati su Facebook. In diretta. La morte va in scena, attimo dopo attimo, in una macabra telecronaca 'live'.
«SEMPRE più ragazzi riducono la loro esistenza alle piattaforme social, vale solo quello che si fotografa, posta, condivide, in uno stato di dipendenza dal carattere patologico. Come se ciò che accade nella vita reale per loro non si verificasse affatto». Che cosa si muove nelle menti di questi giovani è oggetto di studio quotidiano per lo psichiatra Federico Tonioni (nella foto). Classe 1968, lo specialista al Policlinico Gemelli di Roma coordina il gruppo di intervento contro la dipendenza da Internet.
È un malato di web anche il ragazzo che, invece di soccorrere un motociclista agonizzante, telefonino alla mano, filma in presa diretta su Facebook una scena raccapricciante? «Più che per una sorta di narcisismo e di ricerca della popolarità, spesso riscontrabili in pazienti di questo tipo, mi pare che il giovane in questione si sia connesso al web per una sorta di autodifesa.
In preda al panico, per non essere schiacciato dalla responsabilità e dall' angoscia, si è rifugiato nel social».
La dissociazione dal reale, però, è identica a quella di chi ha in Internet la propria droga. «Il meccanismo è quello. Anche qui assistiamo a un estromettersi dal presente. Il raccontare su Facebook quanto stava accadendo davanti ai suoi occhi è servito a questa persona per non partecipare, perché probabilmente non era in grado o non voleva, quantomeno inconsciamente, affrontare la situazione. E con questo non voglio certo giustificarlo, né condannarlo. Non sta a me farlo».
Al netto della tragedia di Riccione, cresce il numero di ragazzi che abdicano alla vita reale per chiudersi nei social o, più in generale, nel web? «Il fenomeno è sicuramente in aumento, nei nostri ambulatori lo riscontriamo quotidianamente.
Dal 2009 a oggi abbiamo preso in carico oltre 1.200 nuclei familiari, per lo più segnati da qualche disturbo nell' affettività».
L' iperconnessione è il primo campanello d' allarme? «Non proprio. Facebook e Twitter incarnano una nuova forma di comunicazione che non va demonizzata a priori e in cui tutti o quasi invischiati. Il rischio clinico si ha, invece, nel momento in cui questi giovani rinunciano ad uscire con gli amici, al loro tempo libero per stare davanti allo schermo».
Tutto virtuale, niente reale? «C' è in questi pazienti una grande difficoltà nel provare e tollerare le emozioni dal vivo. Queste devono essere filtrate in quanto non si riescono più ad assorbire. Due ragazzi parlano anche sulla chat, ma in questo modo nel rapporto si perde il rossore, l' espressività dei loro volti. I corpi parlano e molti giovani non sono in grado di sopportarlo».
Che cosa innesca tutto questo? «Un nuovo tipo di assenza genitoriale. In molti casi, quando questi pazienti erano ancora dei bambini, i loro padri e le loro madri hanno usato i cellulari e i pc come delle babysitter. Come dire, la dissociazione questi ragazzi l' hanno sperimentata, in maniera costante, fin da quando erano piccoli»
(Fonte: La Nazione del 23.10.2017)
Gli esperti parlano di «nomofobia»
Quando emerge una difficoltà a staccarsi fisicamente dal telefono ma esistono diversi disturbi non solo psicologici legati all’uso eccessivo dei dispositivi mobile ...