martedì 24 ottobre 2017

La narrazione del futuro torni positiva di Alessandro D'Avenia

La narrazione del futuro torni positiva



di Alessandro D'Avenia







Sono in prevalenza giovani, con un titolo di studio superiore, in cerca di lavoro. Per loro la narrazione del futuro in Italia appartiene al genere tragico, quindi vanno in cerca di Paesi (prevale l’Europa «ricca» e in seconda battuta l’America) in cui il lavoro, oggetto del desiderio che li fa muovere, appartiene a una narrazione diversa.

Una narrazione più aperta alla speranza, da ascrivere almeno ai generi del thriller, dell’azione, dell’avventura. 

Mi occupo di scuola e di narrazioni, non di sociologia, e quel che ho visto in questi anni è la progressiva erosione e caduta delle narrazioni di futuro di marca italica, soprattutto per chi ha visto precipitare attività di artigianato, di impresa piccola e media, crescere la pressione fiscale, la disoccupazione giovanile rinvigorita da politiche di assunzione affamanti e basate sul precariato venduto per flessibilità… 

Sono narrazioni spesso corrispondenti al vero quelle che spingono le nuove generazioni a varcare i confini (ho due sorelle che abitano all’estero per queste ragioni) e non riesco a biasimare chi si è convinto del fatto che le proprie energie migliori non possano andar sprecate tra burocrazia, raccomandazioni, formazione infinita e inutilmente prolungata. Valga l’esempio della scuola: per insegnare è ormai necessaria una laurea di cinque anni, il superamento di alcuni esami integrativi per accedere al concorso indetto ogni due anni, il superamento del concorso che immette in un tirocinio formativo di tre anni e sottopagato (il primo anno 400 euro giusto per farsi un’idea della considerazione sociale delle nuove leve, con un aumento negli altri due anni non ancora quantificato...), se tutto va bene allo scadere dei tre anni si ottiene la cattedra, chissà dove. A conti fatti si diventa insegnanti di ruolo, se non si sbaglia un colpo, in almeno 9-10 anni, cioè a quasi 30 e magari si voleva anche metter su famiglia… La formazione di un giovane viene prolungata a dismisura, perché il lavoro non c’è (crisi demografica e indiscriminata e decennale produzione di precari da sanare fanno il resto). 

Questo è un piccolo carotaggio di esperienza personale, ma vedo accadere lo stesso in molti altri ambiti, sia per chi voglia fare percorsi universitari sia per chi voglia imparare un mestiere. Ho visto crescere in questi anni il numero dei maturati disposti a partire subito o addirittura decidere di frequentare l’ultimo anno in una scuola all’estero così da poter entrare nel sistema universitario o di formazione corrispondente.

Il tasso di disoccupazione giovanile determina fisiologicamente paure e narrazioni di futuro centrifughe, salvo poi risvegliarsi in una città straniera e scoprire che non è tutto così facile. 
Manca in questo momento un sistema di orientamento serio che strutturi percorsi di formazione e di studio adeguati ai singoli e alle richieste lavorative, così da non finire in generici calderoni di massa che servono solo a demotivare e a ingrossare le file dei disoccupati, di chi lavora in nero, o chi un lavoro non lo cerca neanche. 

La scuola del nostro Paese è un osservatorio perfetto per verificare quanto ci importi del nostro futuro: l’unica mossa che è stata fatta in ambito di orientamento è quella tutta impressionistica dell’alternanza scuola-lavoro, non supportata da risorse sufficienti, e quindi affidata alla libera iniziativa, con effetti di totale paralisi di alcune scuole, di proposte eccentriche in altre (alternanza scuola-gioco più che lavoro), di valide ed efficaci possibilità per chi ha già risorse e percorsi che saprebbe e saprà intraprendere indipendentemente dalla scuola. Si tratta di un sistema che punta all’adattamento, non certo alla scoperta di nuove strade e alla valorizzazione dei talenti. La mancanza di permeabilità tra scuola, formazione, università, lavoro, non genera narrazioni di futuro che possano nutrire i sogni e impegnare i progetti di un ragazzo riottoso all’adattamento e voglioso di esplorare il mondo con la novità che vuole introdurvi. 

Questo vuoto narrativo viene spesso riempito da immagini seducenti ed esotiche. A volte si tratta di semplici illusioni, a volte di possibilità reali, come ho potuto constatare tra i ragazzi che conosco. Alcuni ce la fanno, alcuni tornano delusi, altri cominciano carriere molto accidentate che bisogna a tutti i costi farsi piacere, altri ancora vorrebbero tornare ma quello che hanno studiato spesso non è spendibile in un sistema autoreferenziale come il nostro, in cui è faticosissimo fare un passaggio di università nell’ambito della stessa facoltà, figuriamoci un cambio di facoltà o di sistema universitario. 

Ma ci sono moltissimi che restano in Italia e costruiscono i loro progetti con pazienza e impegno, perché sanno che la formazione che possono ricevere qui è ancora eccellente in molte realtà nelle quali sono gli stranieri a venire. Perché non erigerle a sistema? 

Noi ci muoviamo sulla base di narrazioni che integrano e nutrono ciò che ancora non ha consistenza. Un bambino nella sua stanza al buio teme che sotto il letto ci siano le sue peggiori paure, per questo chiama i genitori. Il più delle volte basta accendere una lampadina, guardare la realtà e cominciare a inventare il futuro che manca insieme a interlocutori validi, e scappare non serve. Ma a volte, accesa la luce si scopre che non sono solo paure, ma ostacoli che non tutti sono disposti ad affrontare per amor di patria.
E andare via è la scelta migliore
(Fonte: La Stampa del 18.10.2017)