sabato 1 luglio 2017

"Mele" come Charlie e tanti altri... Tutti hanno il diritto di essere messi nelle condizioni di vivere al meglio la vita che resta.

«Mio figlio come Charlie, vivo malgrado tutto»

Parla la mamma di Emanuele, 9 anni, disabile. È affetto dalla stessa patologia del piccolo inglese. Un futuro incerto, ma trabocca di vita
Mamma Chiara con il figlio Emanuele di 9 anni

Guardi le foto di Emanuele quando aveva 10 mesi e di Charlie oggi, e non sai qual è l’uno e qual è l’altro, entrambi splendidi come tutti i neonati, ma entrambi impegnati a succhiare una vita già in salita da strumenti e sondini. «Sono nati con la stessa malattia, grave e sconosciuta. Solo che Emanuele è nato in Italia, Charlie in Inghilterra, dove i giudici hanno sentenziato che deve morire». 

Chiara Paolini, maestra elementare, 42 anni, dalla sua casa di Lucca giorni fa ha inviato un video-appello alla Corte Europea dei diritti umani: i giudici stavano valutando se dare corso alla sentenza della Corte suprema britannica, decisa a staccare la spina al piccolo, o accogliere il ricorso disperato dei genitori di Charlie. «Siate umani e siate coraggiosi – dice nel video la mamma di Emanuele, che oggi ha 9 anni –, lasciate vivere Charlie Gard. Non giudicate la sua vita finché non l’ha vissuta».

Un appello che scaturisce dalla storia incredibile del suo "Mele".

Quando è nato, anche a Mele i medici non davano speranza di vita. Era tanto grave che a 4 mesi ricevette la Cresima con il rito urgente dei bambini in punto di morte. Oggi è un bambino felice di essere al mondo. Ecco perché rivolgo lo stesso appello non più ai giudici, ma ai medici inglesi: quel bambino è ancora vivo, possono ancora scegliere di non ucciderlo. I suoi familiari, con cui sono in contatto costante, hanno fatto tutto il percorso giuridico, ma la Corte Suprema sostiene che "il migliore interesse del bambino" è di essere ucciso. Sua madre e suo padre volevano portarlo negli Stati Uniti per una terapia sperimentale, avevano anche il milione di sterline donato dalla gente, ma gli è stato risposto che la terapia, risultata efficace per altre malattie mitocondriali, non è ancora stata approvata per la forma di Charlie. Insomma, non è affatto certo che funzionerebbe, dunque non vale la pena tentare, visti i danni neurologici del bambino. La cosa più inquietante è questa: Mele e Charlie non sono malati terminali, hanno una patologia progressiva e bisogno di un’assistenza molto forte. Anche mio figlio era attaccato al ventilatore per respirare e oggi non può camminare, è nutrito con un sondino naso-gastrico, è parzialmente cieco e non sente, non può piangere né ridere... apparentemente, perché dentro di sé fa tutto questo. Quella che per i medici era una condizione disperata si è poi dimostrata il terreno fertile in cui è maturata la sua straordinaria personalità: Mele "parla" con il computer usato dai malati di Sla, gioca a scacchi e mi batte, dipinge quadri, e a studenti che lo hanno invitato ha spiegato cos’è l’arte: «Un talento che viene dal cuore». Abbiamo scoperto che a scuola, come tutti i bambini, ha imparato anche le parolacce! Nessuno sa dirci ora quanto vivrà, nessuno si lancia più in previsioni sul futuro, ma la sua vita è stata rispettata così com’era. E il suo presente è bellissimo.

Cosa le hanno detto i parenti di Charlie dopo la sentenza di Strasburgo?

La zia mi ha detto che a giorni gli daranno una forte sedazione, poi spegneranno il respiratore e Charlie morirà soffocato.

Qualcuno sostiene che tenerlo in vita è accanimento terapeutico.

Io parlo per la mia esperienza. Nessun genitore sopporta di veder soffrire suo figlio, in un ospedale vidi rianimare Mele 12 volte e ho detto basta, «la tredicesima non ci sarà!». Per fortuna non è mai arrivata. Per Charlie non chiederei mai cure aggressive, ma di non togliergli il supporto vitale, ossia il respiro. Non si può tenerlo intubato e sedato da otto mesi, non è umano, meglio una tracheotomia e lasciarlo andare a casa: accadono molte sorprese... Queste malattie sono sconosciute, non sappiamo se si riprenderebbe ma non possiamo escluderlo, e ucciderlo non è certo la soluzione. I bambini non accusano nessuno quando sono malati, vogliono solo stare nelle braccia dei loro genitori, godono di essere accarezzati. Mele è contento di svegliarsi la mattina con mamma e papà e i due fratelli, di andare a scuola, di vedere il mondo. Ci dice «tu sei il mio tesoro». Eppure anch’io all’inizio la pensavo come i giudici inglesi.

Nei confronti di suo figlio?

A 10 mesi, in accordo con i medici, avevamo deciso di dargli la morfina e portarlo a casa per lasciarlo morire. Ma una notte stava soffocando e io l’ho salvato con l’"ambu", il pallone da rianimazione. Un medico della Mangiagalli mi disse: «Tu con la bocca dici che lo vuoi accompagnare alla morte, ma con le azioni vuoi che viva». Così al Gaslini di Genova Mele fu intubato per la prima volta. Meno male che ho trovato medici che forse non gli davano nessuna possibilità ma avevano rispetto per noi genitori. Il messaggio della Corte Europea invece è micidiale.

Qual è il messaggio di Strasburgo?

Da oggi sappiamo che la Corte Europea dei diritti umani non ci tutela. È un errore credere che Charlie sia l’eccezione, tutti noi un giorno saremo disabili e quando, dopo Charlie, toccherà agli anziani con la demenza senile, ai neonati prematuri, alle vite decretate "inutili", dove saranno i diritti dell’uomo? Noi genitori di bambini gravi siamo preoccupati, potremo ancora portarli in ospedale se stanno male o dovremo nasconderli in casa? Se il criterio è uccidere un bimbo perché tanto è destinato a morire, allora uccideteci tutti, perché la vita è una malattia mortale.
(fonte: Avvenire)

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«Charlie non è l’unico, bambini con patologie inguaribili e necessità di una assistenza complessa ce ne sono molti, anche in Italia. Il nostro compito, nei loro confronti, è garantire loro la migliore qualità di vita possibile e poi il migliore accompagnamento alla morte». Luca Manfredini è un medico palliativista dell’Ospedale Pediatrico Gaslini di Genova, referente per la terapia del dolore e le cure palliative pediatriche. Soltanto ieri ha accompagnato alla morte un neonato di due mesi e mezzo, malato di SMA: «i suoi genitori avevano chiesto che per lui ci fosse solo accompagnamento, mentre in reparto ci sono bambini in situazioni analoghe ma ventilati. Per ciascuno si tratta di aiutare i genitori a fare la scelta migliore per il paziente, cercando di non condizionarli. Io come medico posso avere delle opinioni, ritenere che per un bambino valga la pena la ventilazione e per un altro meno e posso concepire anche che alcuni tecnici - nel caso di Charlie come in altri che vediamo spesso nel nostro lavoro - possano sostenere che si tratta di accanimento… noi che ci occupiamo di cure palliative abbiamo il compito di trovare un equilibrio, di bilanciare queste due posizioni», afferma Manfredini.

È un punto decisivo, chissà se nella vicenda di Charlie è stato fatto ogni sforzo possibile in questo senso. «Noi dobbiamo aiutare i genitori a scegliere, che significa prospettare con chiarezza i benefici degli interventi ipotizzati e il loro peso, la loro gravosità sul bambino e sulla vita della famiglia, questi bambini, a domicilio, richiedono otto ore al giorno per fare procedure di assistenza», ribadisce Manfredini, «dove con gravosità non intendo quella economica, quella non deve essere mai fatta pesare». E ancora chissà se davvero nemmeno l’ultimo desiderio dei genitori di Charlie, quello di portare a casa per una volta il loro piccolo, non poteva davvero essere accolto: «l’OMS dice che dove possibile le cure palliative devono essere gestite a domicilio, la prospettiva italiana va molto in questa direzione, anche l’hospice è per favorire la gestione a domicilio. Non so quali siano state le motivazioni per cui la richiesta dei genitori di Charlie non sia stata assecondata, noi dove è possibile favoriamo la possibilità che l’ultimo momento sia il più intimo possibile», conclude Manfredini.

Questo non vuole essere un pezzo su Charlie Gard, per dire se sia giusta o sbagliata la scelta che i sanitari e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo hanno fatto. Ogni caso è unico e particolare. Ci sono mamme con figli in condizioni analoghe a quelle di Charlie, che hanno scritto che «nessuno sa dirci ora quanto vivrà, nessuno si lancia più in previsioni sul futuro, ma la sua vita è stata rispettata così com’era. E il suo presente è bellissimo» e altre invece hanno affermato che «si tratta di dignità. Di rispetto. Di accettazione. L'amore di un genitore in queste situazioni è disperato. Incosciente. E irrazionale. L'amore qui è accecato da rabbia e da disperazione. Affrontare una diagnosi e una malattia congenita e/o genetica di determinate portate, è durissima. Fa perdere ogni cognizione della realtà. La dignità di Charlie in questo caso è schiacciata dall'amore disperato dei suoi genitori. La scienza non fa ancora miracoli. Luminari di tutto il mondo hanno scritto che accanirsi su Charlie così è disumano. I nostri figli non sono nostri. Non possiamo infliggergli il nostro amore».

Questo pezzo vuole però ricordare, ancora una volta, che anche quando c’è una malattia inguaribile, anche quando la prospettiva di vita si fa breve, la vita può essere vissuta al meglio. Perché non è vero che Charlie con le cure palliative non c’entri nulla, dal momento che lui non è un malato terminale: le cure palliative non sono solo per i malati oncologici né per i soli malati terminali, non sono qualcosa che deve comparire (come accade ancora) negli ultimi 20 giorni di vita, ma devono accompagnare precocemente e in maniera flessibile un percorso, rispondendo a un bisogno clinico e insieme sociale, psicologico e relazionale. Tutti hanno il diritto di essere messi nelle condizioni di vivere al meglio la vita che resta. A maggior ragione un bambino, verrebbe da dire. Invece proprio i bambini sono i più dimenticati, perché le cure palliative pediatriche sono ancora eccezioni. In Italia i bambini come Charlie, cioè i bambini che hanno una malattia inguaribile e un bisogno assistenziale complesso e che per questo avrebbero bisogno e diritto di ricevere cure palliative sono circa 30-35mila, lo dice nero su bianco l'ultima Relazione al Parlamento sull’attuazione della legge 38/2010. «Solo il 15% di essi riceve oggi cure palliative pediatriche specialistiche», ammette il dottor Manfredini, «e la probabilità di riceverle varia in base all’età, è più facile che le riceva un bambino grande che non un lattante come Charlie, in base alla patologia, cioè è più facile che le riceva se ha una patologia oncologica, e in base al luogo di residenza, cioè è più facile che le riceva se vive al Nord che non se vive al Sud, benché poi ci siano rilevanti eccezioni, ad esempio la Basilicata ha una rete di cure palliative pediatriche». Il fatto che solo il 15% dei piccoli pazienti che dovrebbero ricevere cure palliative di fatto le riceva, non significa che tutti gli altri siano abbandonati: sono seguiti da un palliativista non specializzato sui bambini oppure dallo specialista della patologia, «però manca uno sguardo a 360 gradi». Ed è vero che quella delle cure palliative, pediatriche come per adulti, deve essere una "rete", però è indicativo il fatto che di hospice pediatrici in tutta Italia ad oggi ce ne siano solo quattro.
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