sabato 15 luglio 2017

Il card. Montenegro ad Aquileia: il povero è sacramento, anche se scomodo, di Dio. Va trattato con la stessa delicatezza con cui trattiamo le cose sacre.

Si è svolta mercoledì 12 luglio nella basilica di Aquileia, in occasione della solennità dei Santi Ermagora e Fortunato, patroni delle arcidiocesi di Gorizia e Udine e della Regione Friuli Venezia Giulia, la solenne concelebrazione eucaristica presieduta dal card. Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento e Presidente della Caritas italiana, assieme agli arcivescovi e vescovi della regione e degli stati e regioni confinanti. 

Pubblichiamo di seguito l’omelia tenuta dal card. Montenegro. 



Per commentare la Parola appena proposta e per attualizzare l’esempio dei santi Ermacora e Fortunato, vostri Patroni, prendo in prestito, dall’Evangelii Gaudium, i 5 verbi che ha usato il Papa per descrivere la trasformazione missionaria della Chiesa. I verbi sono: prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e festeg­giare. Provo a racchiuderli in tre brevi passaggi.

Il Papa invita a “prendere l’iniziativa e coinvolgersi”. Nella prima lettu­ra abbiamo ascoltato che, in un momento difficile della storia d’Israe­le, Dio parla di sé utilizzando l’immagine del pastore. L’esilio babilone­se aveva creato una crisi profonda nel popolo; le istituzioni erano prive di credibilità; tutto sembrava essere sprofondato in un abisso senza precedenti. A questo punto Dio si lascia coinvolgere, non si limita a giudicare gli eventi ma interviene prendendo l’iniziativa.: “Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e ne avrò cura… le ricondurrò nella loro terra e le farò pascolare sui monti d’Israele… io stesso condurrò le mie pecore”. Il Signore, potremmo dire, si presenta come un Dio in uscita. C’è una situazione di fallimento e Lui interviene mettendosi in gioco. Spesso, quando si parla di Chiesa in uscita o di missionarietà, si pensa a un atteggiamento o a una scelta ecclesiale opinabile tra le tante. Invece è un passaggio obbligato. Penso che la storia d’oggi richiede necessariamente un’apertura ecclesiale capace di rinnovare e rendere attuale e concreto l’agire di Dio. La chiesa – siamo tutti noi – è chiamata a ripresentare lo stile di questo Padre-Pastore (la figura del pastore interessa anche i laici perché anche loro devono avere il cuore di pastore), Pastore che non si da pace quando le sue pecore si disperdono; che si coinvolge prendendosi cura soprattutto delle malate e disorientate; che arriva, nel suo Figlio, a dare la vita affinché le pecore ritornino a vivere. La Chiesa vive la fedeltà al suo Signore se è aperta ed è in uscita; se, perché centrata in Dio, si sbilancia sull’uomo; se è protesa sulla storia degli uomini consapevole che questa è ancorata a quella della salvezza. In questo frangente storico sono tante le situazioni di sofferenza: le ingiustizie sociali che provocano povertà, migrazioni, dipen­denze, fragilità morali, perdita di senso…e l’elenco potrebbe continua­re. Sorge la domanda: e noi come chiesa? Preferiamo chiuderci dentro le nostre sicurezze o siamo disposti e pronti a rischiare aprendo vie nuove di evangelizzazione? Ricordando che evangelizzare non è solo annunciare, ma rendere concreto ciò che si annuncia. La logica del Buon Pastore deve coinvolgerci. Il farlo è senz’altro rischioso perché comporta la nostra disponibilità a dare la vita; anzi, per usare le parole della II lettura, a essere sconvolti, perseguitati e colpiti; esattamente come è stato per Ermacora e Fortunato, trucidati perché annunziavano la nuova e bella notizia, e come hanno fatto tanti figli e figlie della chiesa che hanno dato la vita per il Vangelo.

Il Papa parla anche di “accompagnamento”. La chiesa si può definire aperta non quando attende ma se accompagna e si prende cura. La prima lettura ci ha detto come agisce il pastore: alcune pecore le con­duce, altre se le carica sulle spalle, altre le pasce e le cura. Ogni sua azione è legata alle esigenze proprie di ognuna delle pecore. Quando si legge il Vangelo ci si accorge come Gesù tiene sempre in gran conto della persona che ha davanti. Non si tratta di tollerare o adattarsi all’altro ma di accompagnarlo. Cioè di prendersi cura della persona che è dinanzi; fare di tutto perché abbia la consapevolezza, se ci fosse bi­sogno, che un errore o un’impostazione di vita sbagliata non sono punti di non ritorno ma situazioni da cui ripartire per recuperare di­gnità e forza. Ricordiamo la pecorella ritrovata che trova posto sulle spalle del pastore. Accompagnare richiede pazienza perché non tocca a noi dettare il ritmo della crescita degli altri ma saper aspettare i loro tempi di maturazione e di grazia. Il ritmo dell’amore non lo battiamo noi, ma l’altro che è nel bisogno: avevo fame, sete … Accompagnare richiede anche rivedere certi schemi legalistici che fanno considerare la legge più importante della persona, dimenticando che “non è l’uomo per il sabato ma il sabato per l’uomo”. Accompagnare significa prendere per mano, essere disposti a camminare insieme all’altro, a scendere nelle valli oscure – come abbiamo pregato con il salmo 22 -per tentare di risalire insieme facendo percepire all’altro non solo che Dio non lo abbandona ma che anche noi, come chiesa, non lo abban­doneremo mai. Una chiesa che è missionaria non ha paura delle situa­zioni problematiche, anzi, le accoglie come sfide e strade nuove in cui può e deve scorrere il Vangelo. Mi piace, a riguardo, ricordare la sta­gione conciliare; il coraggio dei pastori – Papi, Vescovi, teologi… – che hanno saputo leggere i segni di quei tempi con lucidità e, di fronte a un mondo che stava cambiando velocemente, hanno percorso la strada del dialogo, dell’ascolto, dell’accoglienza pacifica delle gioie e delle sofferenze di ogni uomo perché interessavano e interessano Dio e perciò anche la Chiesa.

Infine il Papa usa i verbi “fruttificare e festeggiare”. Egli scrive: “…la comunità evangelizzatrice è sempre attenta ai frutti, perché il Signore la vuole feconda. Si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania… il seminatore trova il modo per far sì che la Parola si in­carni in una situazione concreta e dia frutti di vita nuova, benché apparentemente siano imperfetti o incompiuti. Il discepolo sa offrire la vita intera e giocarla fino al martirio come testimonianza di Gesù Cristo affinchè la Parola venga accolta e manifesti la sua potenza liberatrice e rinnovatrice”. Nel Vangelo di questa liturgia Gesù ci ha parlato di per­secuzione e di odio da parte del mondo. Mi sembra che questa pagina faccia il paio con l’altra in cui Gesù dice che il seme caduto per terra non potrà portare frutto fino a quando non muore (cfr. Gv 12,24). Ec­co: il frutto arriva se prima c’è un seme che marcisce diventando un tutt’uno con la terra che lo accoglie. Oggi è facile notare come molti battezzati non siano più interessati al Vangelo e come il processo di scristianizzazione diventi sempre più dilagante. Qual è la causa di ciò? È tutta colpa dell’attuale clima culturale o del materialismo sfrenato o di cose simili? 0 non può essere che i frutti non arrivino perché non siamo disposti a dare la vita per il Vangelo? Paolo nella II lettura ci ha ricordato: “Sempre, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale, di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita”. In questo paradosso sta la fecondità del Vangelo. Se il discepolo non si rende disponibile a dare la vita, i frutti non arriveranno. Ma dare la vita non è solo una questione di sangue. È possibile darla in tanti modi. C’è il martirio di sangue, ma anche quello…lo definisco bianco che è lento, silenzioso e misterioso quotidiano, come la candela che per fare luce si consuma un po’ alla volta. Anche questo martirio è difficile, perchè l’amore è difficile. È amare fino allo stremo delle possibilità; è fare spazio all’altro, dandogli accoglienza e dedizione; è aprire il cuore af­finché nessuno si senta escluso o diverso; è testimoniare la carità con gesti concreti, ad esempio, tendendo la mano e sorridendo a chi ha il colore della pelle diverso dal nostro, fermandoci a parlare con lui senza subito considerarlo un potenziale terrorista o ladro. Dare la vita è proporre la cultura dell’accoglienza partendo dalla certezza che in ogni povero c’è Dio e che la stessa cura che abbiamo per l’altare e per l’Eucarestia dobbiamo averla per chi vive nel bisogno perché il povero è sacramento, anche se scomodo, di Dio. Va trattato con la stessa de­licatezza con cui trattiamo le cose sacre. Solo così arriveranno i frutti e si potrà fare festa perché avremo sperimentato la bellezza del Vangelo aiutando gli altri ad entrare in questa logica. Mi vengono in mente le parole di Mons. Bello: “Amare voce del verbo morire. Attendere (pa­zienza dell’amore) infinito del verbo amare”. Prendere l’iniziativa e coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e fare festa. Mi sembra che queste tappe proposte dalla Parola di Dio attra­verso l’immagine del pastore e rese attuali dall’insegnamento di Papa Francesco ci possono aiutare a costruire una chiesa aperta in cui si respi­ra aria di beatitudine.

È l’augurio che rivolgo a questa santa Chiesa e che mi permetto rivol­gere alla mia Chiesa agrigentina. È augurio che si fa preghiera. Ci aiutino in questo cammino i santi Ermacora e Fortunato; ci sosten­ga, la Vergine Maria, donna aperta alla proposta di Dio e capace di sta­re ai piedi della Croce; ci soccorra quando le nostre forze vacillano e ci doni speranza perché, nelle prove possiamo sperimentare la sua pre­senza materna.

Le immagini della celebrazione sono disponibili nella galleria fotografica, curata da Sergio Marini.

(fonte: Arcidiocesi di Gorizia)