lunedì 31 luglio 2017

La povertà non è un reato!


La povertà non è un reato, lo dice la Cassazione, 
ma anche il buon senso di un’Italia solidale
di Andrea Riccardi

La povertà non è un reato. E quindi non si può colpevolizzare o, peggio, punire con una multa o addirittura con misure giudiziarie, chi vive e dorme per strada. Così ha deciso la Corte di Cassazione salvando un clochard di Palermo dall'ingiusto pagamento di una salatissima ammenda che gli aveva inflitto un tribunale sulla base di un'ordinanza del Comune. La colpa? Dormire all'aperto, riparato da cartoni.

C'è già chi parla di sentenza "buonista". Ma in realtà, oltre ad esprimere il buon senso comune, non fa altro che ripetere pubblicamente una verità che spesso amiamo nascondere: esiste anche in Italia un popolo di senza dimora, uomini e donne di diversa età che vediamo e incontriamo ogni giorno e che, a seconda delle circostanze e delle persone, suscitano reazioni diverse. Ignoriamo, commiseriamo, respingiamo, facciano finta di non vedere. Oppure ci fermiamo, ascoltiamo, cerchiamo di fare qualcosa là dove le istituzioni non riescono, per assenza o inefficacia.

Il secondo atteggiamento è quello vincente: lo abbiamo visto durante l'emergenza freddo dello scorso inverno, quando l'offerta di aiuto per i senza dimora ha fatto argine all'indifferenza e certamente ha contribuito a salvare tanti con una mobilitazione che non ha conosciuto precedenti nel nostro paese. Un fenomeno che dimostra tre cose: che esiste un'Italia "buona" (non buonista), che tutti possiamo fare qualcosa per chi è in difficoltà e che le istituzioni dovrebbero impegnarsi di più, visto che il "popolo" dei senza dimora in Italia non è una folla, come in altri paesi del Nord del mondo: circa 50 mila persone in tutto, in gran parte italiani, rimasti indietro per tante ragioni diverse fra loro, economiche o familiari.

Restano per tutti una domanda aperta, una ferita da sanare nella nostra società. Si può e si deve fare di più per integrarli. Anche d'estate, quando la solitudine e l'isolamento sociale, specialmente nelle grandi città, possono fare male quanto il freddo dell'inverno.
(fonte: Huffington Post)


Ricerca e sacrificio - Il Regno di Dio è offerto a tutti, ma non è su un piatto d’argento: si tratta di cercare, camminare, darsi da fare

Ricerca e sacrificio
Il Regno di Dio è offerto a tutti, ma non è su un piatto d’argento:
 si tratta di cercare, camminare, darsi da fare
Papa Francesco

Papa Francesco - Foto Ansa
ANGELUS

Piazza San Pietro

Domenica, 30 luglio 2017





Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il discorso parabolico di Gesù, che raggruppa sette parabole nel capitolo tredicesimo del Vangelo di Matteo, si conclude con le tre similitudini odierne: il tesoro nascosto (v. 44), la perla preziosa (v. 45-46) e la rete da pesca (v. 47-48). Mi soffermo sulle prime due che sottolineano la decisione dei protagonisti di vendere ogni cosa per ottenere quello che hanno scoperto. Nel primo caso si tratta di un contadino che casualmente si imbatte in un tesoro nascosto nel campo dove sta lavorando. Non essendo il campo di sua proprietà deve acquistarlo se vuole entrare in possesso del tesoro: quindi decide di mettere a rischio tutti i suoi averi per non perdere quella occasione davvero eccezionale. Nel secondo caso troviamo un mercante di perle preziose; egli, da esperto conoscitore, ha individuato una perla di grande valore. Anche lui decide di puntare tutto su quella perla, al punto da vendere tutte le altre.

Queste similitudini mettono in evidenza due caratteristiche riguardanti il possesso del Regno di Dio: la ricerca e il sacrificio. È vero che il Regno di Dio è offerto a tutti - è un dono, è un regalo, è grazia - ma non è messo a disposizione su un piatto d’argento, richiede un dinamismo: si tratta di cercare, camminare, darsi da fare. L’atteggiamento della ricerca è la condizione essenziale per trovare; bisogna che il cuore bruci dal desiderio di raggiungere il bene prezioso, cioè il Regno di Dio che si fa presente nella persona di Gesù. È Lui il tesoro nascosto, è Lui la perla di grande valore. Egli è la scoperta fondamentale, che può dare una svolta decisiva alla nostra vita, riempiendola di significato. 

Di fronte alla scoperta inaspettata, tanto il contadino quanto il mercante si rendono conto di avere davanti un’occasione unica da non lasciarsi sfuggire, pertanto vendono tutto quello che possiedono. La valutazione del valore inestimabile del tesoro, porta a una decisione che implica anche sacrificio, distacchi e rinunce. Quando il tesoro e la perla sono stati scoperti, quando cioè abbiamo trovato il Signore, occorre non lasciare sterile questa scoperta, ma sacrificare ad essa ogni altra cosa. Non si tratta di disprezzare il resto, ma di subordinarlo a Gesù, ponendo Lui al primo posto. La grazia al primo posto. Il discepolo di Cristo non è uno che si è privato di qualcosa di essenziale; è uno che ha trovato molto di più: ha trovato la gioia piena che solo il Signore può donare. È la gioia evangelica dei malati guariti; dei peccatori perdonati; del ladrone a cui si apre la porta del paradiso.

La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia (cfr Evangelii Gaudium, n. 1). Oggi siamo esortati a contemplare la gioia del contadino e del mercante delle parabole. È la gioia di ognuno di noi quando scopriamo la vicinanza e la presenza consolante di Gesù nella nostra vita. Una presenza che trasforma il cuore e ci apre alle necessità e all’accoglienza dei fratelli, specialmente quelli più deboli.

Preghiamo, per intercessione della Vergine Maria, perché ciascuno di noi sappia testimoniare, con le parole e i gesti quotidiani, la gioia di avere trovato il tesoro del Regno di Dio, cioè l’amore che il Padre ci ha donato mediante Gesù.
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Dopo l'Angelus
Cari fratelli e sorelle,
oggi ricorre la Giornata Mondiale contro la tratta di persone, promossa dalle Nazioni Unite. Ogni anno migliaia di uomini, donne e bambini sono vittime innocenti dello sfruttamento lavorativo e sessuale e del traffico di organi, e sembra che ci siamo così abituati, da considerarla una cosa normale. Questo è brutto, è crudele, è criminale! Desidero richiamare l’impegno di tutti affinché questa piaga aberrante, forma di schiavitù moderna, sia adeguatamente contrastata. Preghiamo insieme la Vergine Maria perché sostenga le vittime della tratta e converta i cuori dei trafficanti. Preghiamo insieme la Madonna:
Ave Maria …

Saluto adesso tutti i pellegrini provenienti dall’Italia e da diversi Paesi, in particolare le Suore Murialdine di San Giuseppe, le Novizie delle Suore di Maria Ausiliatrice, i Ministranti di diverse parrocchie italiane, e il Club italiano di Hockey Femenino di Buenos Aires.

A tutti auguro una buona domenica e, per favore non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

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domenica 30 luglio 2017

Omelia di p. Aurelio Antista (VIDEO) - 30.07.2017 - XVII domenica del Tempo Ordinario / A

La perla preziosa é l amore di Dio per tutti noi
e Gesù ci invita ad accoglierlo, a farlo nostro.


Omelia di p. Aurelio Antista

 XVII domenica del Tempo Ordinario (A)  -
30.O7.2017


Fraternità Carmelitana 
di Barcellona Pozzo di Gotto

Festa della Madonna del Carmine







... Nel racconto in parabola di Gesù si parla di un tesoro, di una perla preziosa... che é l'amore di Dio per tutti noi ... e Gesù ci invita ad accoglierlo, a farlo nostro. ...




... Qui abbiamo Maria, la madre di Dio, che attraverso la sua vita ci racconta cosa é stato per lei l'incontro con il tesoro, con la perla preziosa ... Maria, nella sua umiltà' dice il suo sì al Signore, accoglie il mistero ... e soprattutto imitando Maria, impariamo anche noi a crescere come discepoli di Gesù ed essere uomini e donne capaci di lasciarci illuminare ogni giorno dalla sua Parola e dalla sua sapienza, per dare un volto nuovo e un sapore nuovo alla nostra vita.


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Charlie e il silenzio che non c'è...

Charlie
Charlie Gard non c’è più. Qualcuno dice che non c’è mai stato — la sua rarissima malattia impediva alle cellule di svilupparsi — eppure ha pesato sul dibattito pubblico più di tante esistenze compiute.
Ha permesso alla platea del mondo di conoscere Connie e Chris, i suoi genitori, trasformati dalle circostanze in simboli di rivolta, mentre erano solo una madre e un padre che avrebbero dato la vita per il proprio figlio ritenuto inguaribile dalla medicina e dalla giustizia. Eppure, dopo una resistenza trascinata ai limiti della disobbedienza civile, hanno accettato di arrendersi alla sua fine con la mansuetudine dei forti, senza cercare altro conforto che le lacrime. 
La breve vita di Charlie Gard ha servito scopi importanti. È stata l’esca del conflitto molto moderno tra l’autorità della scienza e quella della coscienza, incarnata da due genitori che rivendicavano il diritto di prendere decisioni su loro figlio in contrasto con quelle assunte dallo Stato. 
Ma ciò di cui saremo eternamente grati al bambino impalpabile è che ci ha obbligati a riflettere sulla potenza della vita e della morte. Un rovello rimosso di continuo, eppure inestinguibile perché legato alla condizione umana. 
Ora che Charlie è tornato nell’altrove da dove forse non era mai completamente uscito, il frastuono della polemica lascia il posto a un silenzio che ciascuno deve fronteggiare da sé. 
Charlie Gard non c’è più. Ma di sicuro non è passato invano.
(fonte testo: Il caffè di Massimo Gramellini - Corriere della Sera 29/07/2017)

E ora c’è chi scrive che Charlie è stato ucciso dal “silenzio” del Papa

La drammatica vicenda del piccolo affetto da una malattia rara scatena commenti senza alcun rispetto per la realtà

La triste vicenda del piccolo Charlie Gard, gravemente ammalato di una rara sindrome, morto il 28 luglio dopo che gli è stata staccata la macchina che lo faceva respirare artificialmente, avrebbe meritato silenzio e preghiera. E vicinanza ai genitori, come quella manifestata da Papa Francesco, che nelle ultime settimane aveva fatto scendere in campo l’Ospedale Bambino Gesù per cercare di accompagnare dignitosamente l’ultima fase della vita del bambino, arrivando persino a ipotizzare la cittadinanza vaticana per la famiglia Gard al fine di agevolare un trasferimento del piccolo paziente. 

Sulla vicenda, e su come è stata gestita dai media, dai politici, dagli esperti, dai medici, dagli uomini di Chiesa, e dai naviganti dei social, molto si è discusso e molto si discuterà, con diversità di posizioni e di opinioni anche tra chi condivide la stessa fede religiosa. La morte di Charlie sembra però aver scatenato commenti dai contenuti sconcertanti. Come quello messo online il 29 luglio sul giornale cattolico online “La Nuova Bussola Quotidiana”, a firma del suo direttore Riccardo Cascioli, che dirige anche il mensile “Il Timone”. 

Scrive Cascioli: «È stato ucciso. Sia ben chiaro e non facciamoci prendere in giro. Charlie Gard è stato ucciso. Ucciso da medici e giudici, che hanno voluto questa morte con ferocia determinazione, e ucciso dal silenzio di quanti avrebbero avuto l’autorità morale (e non solo) per intervenire e non l’hanno fatto». A chi si riferisca l’autore quando parla di quanti avrebbero avuto «l’autorità morale (e non solo)» è chiaro qualche paragrafo dopo, quando aggiunge: «E infine non si può non provare sgomento per l’assenza ingiustificata della Chiesa, anzi dei suoi pastori, fatte salve alcune, rare, eccezioni. Ancora una volta, davanti a un popolo che si è mobilitato anzitutto con la preghiera, ha fatto da contraltare il silenzio di vescovi e sacerdoti, a cominciare da quelli più vicini ai Gard. In tanti mesi solo qualche scarno comunicato, peraltro all’insegna del cerchiobottismo, qualche parola di generico sostegno ai genitori di Charlie, un paio di tweet. Nessun giudizio chiaro per sostenere la battaglia per la vita di Chris e Connie, nessun segno concreto di vicinanza, guai a porre gesti che avrebbero potuto essere interpretati come sfida al Potere. Silenzio. Dove erano quelli che si riempiono sempre la bocca di parole come “accompagnamento”? E quelli che urlano contro la “cultura dello scarto” hanno perso la voce?». 

Il riferimento è piuttosto evidente: a fare dei tweet sul caso sostenendo ai genitori e assicurando la sua vicinanza e la sua preghiera è stato Papa Francesco. Come pure è Papa Francesco a usare di frequente nel suo magistero l’espressione «cultura dello scarto». 

Dunque il direttore della “Nuova Bussola Quotidiana” annovera la Chiesa e senza neanche troppi sottintesi, lo stesso Pontefice, tra coloro che hanno «ucciso Charlie» con il loro presunto “silenzio”. È legittimo – e lo sport trova quotidianamente un crescente numero di aderenti – voler insegnare al Papa che cosa dire, quando e come parlare, ogni quanto ripetere gli stessi appelli, sindacare se sarebbe più opportuna un’enciclica o un Angelus, etc. Ma non occorre andare troppo indietro nel tempo per verificare come un altro Pontefice, oggi emerito e quotidianamente strumentalizzato contro l’attuale Successore di Pietro dagli ambienti iper-critici verso Francesco, si sia comportato. 

Stiamo parlando del caso di Eluana Englaro, morta il 9 febbraio 2009 dopo sei giorni prima era stata interrotta l’alimentazione e idratazione artificiale che la teneva in vita. Caso simile per certi versi a quello di Charlie, diverso per altri, perché Eluana non respirava grazie a una macchina e soprattutto non era affetta da una grave malattia dagli esiti purtroppo infausti, ma viveva in stato vegetativo dal 1992 a seguito di un incidente stradale. Che cosa fece allora il Papa, che era Benedetto XVI? Ebbene, non vi furono appelli pubblici espliciti. Papa Ratzinger non pronunciò il nome di Eluana. Il 1° febbraio 2009, ormai al culmine della tormentata vicenda giudiziaria che riguardava la ragazza a motivo della richiesta del padre di sospendere l’alimentazione e l’idratazione (sostegni vitali, non cure), Benedetto XVI all’Angelus celebrando la Giornata per la Vita disse che l’eutanasia è «una falsa soluzione al dramma della sofferenza». «La vera risposta infatti – aggiunse – non può essere dare la morte, per quanto “dolce”, ma testimoniare l’amore che aiuta ad affrontare il dolore e l’agonia in modo umano». Allora tutti i media legarono queste parole al caso Englaro. 

Sul caso Charlie Francesco ha seguito una via inedita. Prima è intervenuto con un tweet, la sera del 30 giugno, senza riferimenti diretti al caso (anche se tutti i media l’avevano collegato alla vicenda del piccolo inglese), scrivendo: «Difendere la vita umana, soprattutto quando è ferita dalla malattia, è un impegno d’amore che Dio affida ad ogni uomo». 
Poi, con una decisione inedita, ha voluto che la vicenda fosse direttamente citata. «Il Santo Padre segue con affetto e commozione la vicenda del piccolo Charlie Gard ed esprime la propria vicinanza ai suoi genitori. Per essi prega, auspicando che non si trascuri il loro desiderio di accompagnare e curare sino alla fine il proprio bimbo», ha dichiarato la sera del 3 luglio 2017 il direttore della Sala Stampa Vaticana, Greg Burke. Una dichiarazione esplicita e diretta. 
In quelle stesse ore la Conferenza episcopale italiana precisava che gli ospedali cattolici si offrivano di ospitare il bambino «per potergli dare vita». E la presidente dell’ospedale vaticano Bambino Gesù, Mariella Enoc, annunciava di aver contattato la direzione del Great Ormond Street Hospital di Londra per offrire la disponibilità a ospitare e assistere Charlie: «Ci siamo allineati alla richiesta del Papa. Non ci sono cure per la malattia di Charlie. Non facciamo miracoli, ma garantiamo accoglienza e amore». Di più, in quelle stesse ore ai vertici della Santa Sede, in contatto con la nunziatura a Londra, venivano studiate tutte le possibili vie per favorire il trasferimento in Italia del bambino, compresa l’eventualità di concedere alla sua famiglia la cittadinanza vaticana. Una soluzione dimostratasi impraticabile perché non avrebbe sortito effetti. 
Il 24 luglio, dopo che i genitori avevano deciso di sospendere la battaglia legale per continuare le cure per il loro figlio (attirandosi commenti feroci e senza cuore da parte di ambienti sedicenti “cattolici”), Bergoglio ha voluto manifestare pubblicamente e nuovamente la sua vicinanza alla famiglia, attraverso il direttore della Sala Stampa della Santa Sede: «Papa Francesco sta pregando per Charlie e per i suoi genitori e si sente particolarmente vicino a loro in questo momento di immensa sofferenza. Il Santo Padre chiede di unirci in preghiera perché possano trovare la consolazione e l’amore di Dio»
L’ultimo messaggio, la sera del 28 luglio, dopo la morte del piccolo, anche questo via tweet e dunque immediatamente diffuso: «Affido al Padre il piccolo Charlie e prego per i genitori e le persone che gli hanno voluto bene».
(fonte testo: Andrea Tornielli - Vatican Insider 29/07/2017)



"Un cuore che ascolta - lev shomea" - n.37/2016-2017 (A) di Santino Coppolino

'Un cuore che ascolta - lev shomea'
Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)


Traccia di riflessione
sul Vangelo della domenica
di Santino Coppolino


Vangelo:  Mt 13,44-52









Queste ultime brevi parabole chiudono il cap.13 del Vangelo di Matteo completando così il discorso sul Regno dei Cieli ed esortando ancora una volta noi che ascoltiamo a deciderci responsabilmente per ciò che realmente vale. "Il Regno è per la gioia dei figli di Dio, ed è gioia. Decidersi per il Regno è così importante da spingerci a vendere tutto quello che abbiamo per comprare il tesoro e la perla preziosa"(cit.). L'amore per il Signore e per il suo progetto di vita ci rende realmente liberi dal mondo e dalle sue seduzioni, e la gioia di averlo incontrato e conosciuto è la forza che ci fa camminare come figli verso il conseguimento del suo Regno. Gesù ci avverte ancora una volta che la sua Comunità non può e non deve essere una setta di "puri" ,"che pretende di giudicare chi sta nel Regno dei Cieli e chi no" (Papa Francesco), questo è un lavoro che spetta solo al Padre. La sua Chiesa invece è composta da "quanti lo cercano con cuore sincero"(Sal 145,18), e fondano la loro vita su di Lui, vero tesoro e perla preziosa.

sabato 29 luglio 2017

"Gesù nel tesoro nascosto ci dà la certezza della felicità" di p. Ermes Ronchi - XVII domenica Tempo Ordinario – Anno A

Gesù nel tesoro nascosto ci dà la certezza della felicità


Commento
XVII domenica Tempo Ordinario – Anno A

Letture:  Primo Libro dei Re 3, 5.7-12; Salmo 118; Romani 8, 28-30; Matteo 13, 44-52

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». 

Un contadino e un mercante trovano tesori. Accade a uno che, per caso, senza averlo programmato, tra rovi e sassi, su un campo non suo, resta folgorato dalla scoperta e dalla gioia. Accade a uno che invece, da intenditore appassionato e determinato, gira il mondo dietro il suo sogno. 
Due modalità che sembrano contraddirsi, ma il Vangelo è liberante: l'incontro con Dio non sopporta statistiche, è possibile a tutti trovarlo o essere trovati da lui, sorpresi da una luce sulla via di Damasco, oppure da un Dio innamorato di normalità, che passa, come dice Teresa d'Avila, "fra le pentole della cucina", che è nel tuo campo di ogni giorno, là dove vivi e lavori e ami, come un contadino paziente.
Tesoro e perla: nomi bellissimi che Gesù sceglie per dire la rivoluzione felice portata nella vita dal Vangelo. La fede è una forza vitale che ti cambia la vita. E la fa danzare.
«Trovato il tesoro, l'uomo pieno di gioia va, vende tutti i suoi averi e compra quel campo». La gioia è il primo tesoro che il tesoro regala, è il movente che fa camminare, correre, volare: per cui vendere tutti gli averi non porta con sé nessun sentore di rinuncia (Gesù non chiede mai sacrifici quando parla del Regno), sembra piuttosto lo straripare di un futuro nuovo, di una gioiosa speranza. 
Niente di quello di prima viene buttato via. Il contadino e il mercante vendono tutto, ma per guadagnare tutto. Lasciano molto, ma per avere di più. Non perdono niente, lo investono. Così sono i cristiani: scelgono e scegliendo bene guadagnano. Non sono più buoni degli altri, ma più ricchi: hanno investito in un tesoro di speranza, di luce, di cuore.
I discepoli non hanno tutte le soluzioni in tasca, ma cercano. Lo stesso credere è un verbo dinamico, bisogna sempre muoversi, sempre cercare, proiettarsi, pescare; lavorare il campo, scoprire sempre, camminare sempre, tirar fuori dal tesoro cose nuove e cose antiche.
Mi piace accostare a queste parabole un episodio accaduto a uno studente di teologia, all'esame di pastorale. L'ultima domanda del professore lo spiazza: «come spiegheresti a un bambino di sei anni perché tu vai dietro a Cristo e al Vangelo?». Lo studente cerca risposte nell'alta teologia, usa paroloni, cita documenti, ma capisce che si sta incartando. Alla fine il professore fa: «digli così: lo faccio per essere felice!». È la promessa ultima delle due parabole del tesoro e della perla, che fanno fiorire la vita.
Anche in giorni disillusi come i nostri, il Vangelo osa annunciare tesori. Osa dire che l'esito della storia sarà buono, comunque buono, nonostante tutto buono. Perché Qualcuno prepara tesori per noi, semina perle nel mare dell'esistenza. 


I monti di Dio di Enzo Bianchi

I monti di Dio 
di Enzo Bianchi

pubblicato su "Luoghi dell'infinito" 

Luglio Agosto 2017






Il paesaggio da cui provengo è quello collinare del Monferrato e delle Langhe, colline e colline senza fine – le cui cime chiamiamo “brich” –, colline quasi sempre coperte di vigne e, solo se rivolte a nord, boschive. Ma anche in una terra collinare salire il “brich” era per me qualcosa di straordinario: il paesaggio si apriva e si potevano vedere le alpi e distinguere bene le cime del Monviso, il monte visto ovunque, il massiccio del monte Bianco e il monte Rosa; si poteva volgere lo sguardo fin dove giungeva il Piemonte, la terra “ai piedi dei monti”. Il mare ligure non si vedeva, così quando si riusciva ad andare al mare l’emozione era grande davanti a quella distesa azzurra che incuteva soprattutto curiosità: cosa ci sarà oltre il mare?, ci chiedevamo…

In montagna si andava qualche volta, raramente, ma giunto nelle valli avevo l’impressione di trovarmi di fronte ad altezze irraggiungibili, che mi sovrastavano fino a incutermi timore. Confesso che non ho mai scalato montagne; ho certamente amato fare passeggiate, ma se salgo su un monte le vertigini mi colgono e, dopo una salita per raccogliere stelle alpine o fiori di artemisia, la discesa mi pare paurosa. Sì, la montagna mi incute timore, mi affascina e nello stesso tempo mi intimorisce. Se il sacro è tremendum et fascinosum, la montagna è la realtà più sacra che conosco.

Per questo, credo, da sempre gli esseri umani hanno visto le montagne come dimore degli dèi, come simbolo del mistero trascendente, come luogo “altro” rispetto al loro abitare la terra, altare naturale che si leva verso Dio. In tutte le culture il monte ha una valenza simbolica, stabile e incrollabile, e per questo è abitato da Dio, è alto e irraggiungibile come il Dio che dimora nei cieli, sovente coperto da nubi che lo nascondono, come Dio è nascosto (cf. Is 45,15). Pochi lo sanno, ma il nostro Dio, il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, che si rivelerà a Mosè con il nome ineffabile di JHWH, ha come primi nomi ’El ’Eljon, l’Altissimo, e anche ’El Shaddaj, il Montanaro, colui che abita le cime dei monti, titoli purtroppo spesso tradotti con Onnipotente o Potente.

Nella Bibbia molti sono i monti – sovente poco più che alture o colline – nominati, descritti, ricordati come luoghi significativi “santi”, cioè altri. Certo, molti monti sono le alture sacre delle credenze cananaiche che i profeti desacralizzano e combattono perché luoghi di idolatria. Alcuni monti invece sono testimonianze dell’azione di Dio nella storia di Israele, memoriali di eventi nei quali il Signore Dio si è rivelato, ha alzato il velo su di sé facendosi conoscere al suo popolo. Impossibile in questo contesto ricordarli tutti: dal monte Ararat, sulla quale si ferma l’arca di Noè dopo il diluvio (cf. Gen 8,4); al monte Gelboe (cf. 1Sam 31), dove morì il primo unto, il Messia; al monte Tabor, già menzionato nei salmi (cf. Sal 89,13), sul quale Gesù fu trasfigurato (cf. Mc 9,2 e par.); al monte degli Ulivi, dove Gesù fu acclamato Messia, figlio di David (cf. Mc 11,9-10 e par.) e da dove salì al cielo (cf. Lc 24,50-51; At 1,9-11).

Ho operato dunque una scelta, limitandomi a riflettere solo su tre montagne: il monte Moriah, il Sinai-Oreb e infine la mia esperienza di salita e discesa dal monte Nebo.

1. Il monte Moria

Il monte Moriah è quello su cui il Signore invita Abramo a salire con Isacco, il figlio della promessa, per offrire un sacrificio (cf. Gen 22). Abramo vi sale portando la legna per accendere il fuoco, ma solo durante la salita Isacco diventa consapevole di essere lui la vittima designata per il sacrificio. Il midrash che commenta questo racconto ci fornisce un approfondimento commovente: padre e figlio salgono il monte concordi, Abramo come sacrificatore e Isacco come vittima del sacrificio, entrambi nel pianto ma obbedienti al Signore al punto da rinunciare a se stessi, rispettivamente al proprio essere padre e figlio promesso. Il Moriah è il monte della fede obbediente, della passione per Dio: su quel monte “Dio vide” o “fu visto” (Gen 22,14). Qui venne stretta l’alleanza tra Dio e Abramo e la sua discendenza, così che esso assurge al rango di memoriale.

I rabbini identificheranno questo monte con l’altura di Gerusalemme, dove venne costruito il tempio di Salomone come luogo della dimora della Shekinah, della Presenza del Dio vivente, luogo ombelico del mondo, dove per secoli furono compiuti sacrifici di comunione e di perdono. Su questo monte il tempio indicava il sito dove il Dio tre volte santo dimorava sulla terra e il Santo dei santi lo testimoniava (cf. 2Cr 3,1).

E i padri della chiesa, memori del sacrificio di Gesù Cristo sulla croce, identificheranno il monte Moriah con il luogo del Cranio, la collina calva fuori delle mura di Gerusalemme (cf. Mc 15,22 e par.; Gv 19,17): dove fu sacrificato Isacco, che Abramo riebbe vivo come risorto (cf. Eb 11,17-19), anche Gesù fu dato dal padre al mondo da lui amato (cf. Gv 3,16). Riferendosi a tradizioni rabbiniche, i padri diranno che quel monte è anche il luogo della morte e del seppellimento di Adamo, il terrestre. Dove Adamo è morto, anche Cristo è morto, quale nuovo Adamo, ma per risorgere a vita eterna. L’iconografia cristiana, che purtroppo nessuno più sa leggere, testimonia questa tradizione: sotto la croce, in un piccolo antro, vi è un cranio che non è simbolo della morte o allusione al “Memento mori”, ma il cranio di Adamo sul quale è sceso il sangue di Gesù, che ha portato la salvezza.

Il monte Moriah, dunque, ha attraversato i secoli, accumulando su di sé interpretazioni, simboli, immagini…

2. Il monte Sinai-Oreb

Il monte Sinai-Oreb è “il monte di Dio” (Es 3,1; 24,13), oggi chiamato anche Gebel Musa, montagna di Mosè, ai piedi del quale sorge il monastero ortodosso di Santa Caterina del Sinai. In molti passi dell’Esodo e dei Numeri prevale l’appellativo Sinai, mentre nel Deuteronomio e nelle tradizioni successive lo stesso monte è chiamato Oreb.

È questo il monte sul quale Dio si è rivelato a Mosè, fuggiasco in terra straniera, la terra di Madian (cf. Es 3). Mentre Mosè pascola il gregge, ecco che si accorge di un roveto ardente, una fiamma di fuoco dalla quale il Signore lo chiama, chiedendogli ascolto e consegnandogli il Nome santo: “Io sono colui che sono” (Es 3,14). Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ha un Nome finalmente rivelato a Mosè e consegnato quindi al popolo di Israele che egli deve liberare dalla schiavitù d’Egitto. Quando Mosè avrà adempiuto la missione affidatagli, dopo essere uscito con il popolo dall’Egitto verrà di nuovo a questo monte, per adorare il Signore. Dio stringerà con questo popolo l’alleanza (cf. Es 19-24), diventando il Dio di Israele, che a sua volta sarò il suo popolo per sempre. Alleanza sulla base di dieci parole (cf. Es 20,1-21) che impegnano Israele a essere testimone di Dio tra le genti, a essere il figlio di Dio, cui è destinata la promessa fatta ad Abramo, la promessa di una terra dove Dio abiterà in mezzo al suo popolo.

Sul monte Sinai-Oreb (a cui salirà anche Elia: cf. 1Re 19) il Signore dimora, ma quando il popolo deve muoversi per entrare nella terra la nube, segno della Shekinah di Dio, scende nella tenda e accompagna il popolo nel cammino (cf. Es 14; 33): Dio è l’Immanu-El, il Dio-con-noi (Is 7,14; Mt 1,23). Se abitava il monte Sinai-Oreb, abiterà poi il monte Sion, dove il tempio sarà costruito (cf. 1Re 8,10-13). 

3. Il monte che molto mi ha insegnato

Sono salito più volte sul monte Moria, cioè il monte Sion sul quale sorgeva il tempio di Gerusalemme e ora fanno il loro culto le genti che nei loro tempi (“i tempi delle genti”) calpestano Gerusalemme (cf. Lc 21,24). Sono salito anche sul Sinai, dove ho sostato in preghiera contemplativa, partecipando all’incessante preghiera dei monaci ortodossi di Santa Caterina. Ma mi sembra doveroso ricordare un altro monte, il monte Nebo, che in un momento preciso della mia vita ha mutato per me significato.

Nel 1977 ero a Gerusalemme, in una lunga sosta, per imparare l’ebraico moderno. Con un fratello della mia comunità decidemmo di fare un pellegrinaggio al monte Nebo, dove Mosè era morto, escluso dalla terra promessa, in vista della quale aveva compiuto la liberazione del popolo schiavo in Egitto. Andammo alle pendici del monte Nebo in autostop sulle strade della Giordania, allora veramente percorse solo da beduini, senza turisti. Giunti ai piedi del monte, là pregammo leggendo il racconto biblico della morte di Mosè (cf. Dt 34). Meditammo sul dialogo tra Mosè e Dio immaginato dai rabbini: “O entri tu, oppure entra il tuo popolo…”. Poi alla sera, sempre in autostop, raggiungemmo Amman, dove alloggiavamo presso l’ospedale italiano gestito dalle suore comboniane.

Dopo cena le suore ci diedero le camere in una corsia dell’ospedale. Per il caldo passeggiavo nel corridoio, quando udii dei gemiti. Entrai in una stanza e vidi dei bambini nei lettini: uno aveva aghi nelle vene della testa che lo nutrivano e lo dissetavano, perché le suore lo avevano trovato denutrito e disidratato. Andai poi a dormire e il mattino dopo mi riaffacciai in quella stanza: quel bambino di pochi mesi era morto. Subito mi tornò in mente la morte di Mosè. Eravamo saliti sul monte Nebo per pregare e fare memoria della morte del grande profeta, e qui era morto un bambino anonimo di pochi mesi: ma per il Signore quel bambino era come Mosè, un figlio amato! Mi sentii allora spinto ad andare vicino a quel lettino e a inchinarmi come avevo fatto dove era morto Mosè, sul monte Nebo…
(Fonte: Comunità di Bose)

venerdì 28 luglio 2017

ITALIA DEVI DISARMARE ECONOMIA E POLITICA don Renato Sacco

ITALIA DEVI DISARMARE 
ECONOMIA E POLITICA
don Renato Sacco



pubblicato su Famiglia Cristiana n. 31 

27 luglio 2017





"Vendiamo bombe all'Arabia Saudita che bombarda e uccide nello Yemen, costruiamo un'altra portaelicotteri, le nostre esportazioni belliche aumentano.Vangelo e Costituzione, però, dico ben altro ... Dobbiamo rompere il muro dell'indifferenza e chiedere che l'Italia smetta di vendere armi a regime e a Paesi in guerra; che il nostro Paese aderisca, anche se in ritardo, al Trattato per la messa al bando delle armi nucleari ... Ce lo chiedono le vittime delle guerre. Ce lo chiede il Vangelo. Ce lo chiede papa Francesco ... "


Leggi tutto:
ITALIA DEVI DISARMARE ECONOMIA E POLITICA don Renato Sacco (PDF)

giovedì 27 luglio 2017

Non dimentichiamo padre Paolo Dall’Oglio rapito in Siria quattro anni fa


A quattro anni dal rapimento in Siria 
non dimentichiamo padre Paolo Dall’Oglio

Mancano pochi giorni all’anniversario del sequestro del gesuita di cui si sono perse le tracce il 29 luglio 2013 mentre si trovava a Raqqa. Riccardo Cristiano, presidente dell'Associazione giornalisti amici di padre Paolo invita tutti a ricordare «questo instancabile costruttore di ponti».


Mancavano pochi giorni alla fine del 2007 quando padre Paolo Dall’Oglio scrisse nella rubrica “la sete di Ismaele” che firmava su “Popoli”, il web magazine dei gesuiti: “Quest’anno l’Adha, la festa del sacrificio alla fine del pellegrinaggio abramitico, cade pochi giorni prima di Natale. Da secoli i vicini di casa cristiani e musulmani si rendono vicendevolmente visita per le feste cogliendo l’occasione per riconciliarsi quando necessario. Perché non farlo anche in Italia? Magari con una telefonata prima: “Pronto? Parlo con il signor Mohammad? Volevo augurarle buona festa. Ha parenti al pellegrinaggio? Dio glieli riporti tutti a casa in buona salute. Vorrei venirla a trovare con mia moglie per farle tanti auguri di persona. “È probabile che i vostri vicini vengano poi a trovarvi a Natale. Ci vorrà pazienza e aiuto dello Spirito Santo per fondare amicizie durature, armonizzare le mentalità, abituarsi alle diverse sensibilità”.

Alla fine di questa settimana, tra venerdì 28 e sabato 29 luglio, ricorderemo padre Paolo Dall’Oglio, questo instancabile costruttore di ponti che ha indicato a tutti noi la strada più semplice, quella che parte da una semplice telefonata, per cambiare il corso della storia e contribuire all’edificazione di una società diversa, che armonizza anziché dividere, che riconosce l’indispensabilità dell’altro anziché l’indispensabilità dell’odio.

Non sappiamo chi abbia sequestrato Paolo quella notte tra il 28 e il 29 luglio di quattro anni, fa, 2013. Non hanno mai rivendicato il suo sequestro. Per me hanno voluto metterlo a tacere perché era tra le più autorevoli voci che negavano a chicchessia il diritto di fare dei siriani dei sudditi di un sedicente stato confessionale o familiare. Per questo era amato dai suoi concittadini siriani.

Durante questi anni durissimi e dolorosissimi per la Siria cominciati nel 2011, nel testo scritto per “Popoli” prima del suo sequestro, padre Dall’Oglio tra le altre cose ha scritto: “Faccio ormai parte di una specie di collettivo su internet con il quale compariamo informazioni, cerchiamo di chiarire eventi, di emanciparci da febbri ideologiche e maree emotive suscitate e cavalcate ad arte. Ma la lotta è impari. Occorre formulare un mantra da ripersi di continuo: “Le sfumature sono sempre più fragili della propaganda, se vi soddisfa l’indottrinamento non abbiamo più nulla da darci”.

Quella specie di collettivo, caro Paolo, c’è ancora. Senza di te fatichiamo a sentirci, a riconoscerci, a capire, ma il ponte che hai creato tra tanti rimane, e per tutti le sfumature sono rimaste fondamentali. L’indottrinamento abbiamo cercato di tenerlo lontano da noi, e quest’anno in tanti, sui giornali, alla radio, in televisione, cercheranno di ricordarti innanzitutto per chiedere la tua liberazione, come non abbiamo abbastanza fatto sin qui, quale nostro concittadino. Ma poi riprenderemo i tuoi scritti per cercare insieme a te le nuove sfumature da difendere, le nuove dottrine da evitare, i nuovi ponti da edificare; senza santini, semplicemente tentando di camminare insieme con te lungo le frontiere della convivialità mediterranea alla quale continui a dare il tuo contributo.

Paolo, dopo esserti espresso a favore del piano di pace dell’inviato dell’Onu Kofi Annan sei stato espulso dalla Siria nel 2012, e il tuo account era “espulso arrabbiato”: tanto arrabbiato che sei voluto rientrare nella piena consapevolezza del rischio, due volte, restando sacerdote, fratello nel battesimo, fratello in umanità, intellettuale, giornalista, appassionato amico della libertà di tutto il popolo siriano. E sei stato sequestrato; per noi seguitare a riflettere con te è la risposta migliore a chi si è illuso di sequestrare con te anche le tue idee.
(fonte: FNSI)


Servizio pubblico, il 28 e 29 luglio programmazione speciale per padre Paolo Dall'Oglio

A quattro anni dal rapimento in Siria, la Rai accende i riflettori sulla figura del missionario con un progetto crossmediale. Venerdì 28 e sabato 29 luglio servizi, speciali e approfondimenti sull'opera del gesuita portatore di pace. Hashtag #pontidipace


A quattro anni dal rapimento di padre Paolo Dall'Oglio in Siria la Rai dedica una speciale programmazione alla sua figura con un progetto crossmediale curato dalla Direzione comunicazione. Venerdì 28 luglio e sabato 29 luglio nei programmi, nei telegiornali e nei giornali radio saranno presenti servizi, speciali e approfondimenti sull'opera del gesuita portatore di pace e sulla sua attività nel teatro del conflitto siriano. Un'iniziativa che il servizio pubblico mette in campo per tenere accesi i riflettori sulla sua scomparsa e contribuire a mantenere vivo il filo della speranza. 

Nella giornata di venerdì 28 luglio su Rai1 Uno Mattina estate (con uno spazio a cura del Tg1 dalle 7.10) e La vita in diretta estate, dalle 15.40, riserveranno ampie finestre di approfondimento alla vicenda di padre Dall'Oglio.

All'interno del programma pomeridiano saranno ospiti Riccardo Cristiano, presidente dell'Associazione giornalisti amici di padre Dall'Oglio; padre Giulio Albanese, missionario comboniano; Lucia Goracci, corrispondente da Istanbul e inviata Rai. Sempre venerdì, alle 18.00, Rainews24 proporrà uno speciale condotto dal direttore Antonio Di Bella. All'interno del programma gli interventi di Riccardo Cristiano e del presidente della Fnsi, Giuseppe Giulietti, e le interviste realizzate da Maria Gianniti (Gr Rai) ai confratelli dell'ultimo monastero frequentato da padre Dall'Oglio.

Sabato 29 luglio, oltre all'ampia copertura informativa riservata da tutte le testate Rai, alla figura di Paolo Dall'Oglio saranno dedicati lo Speciale Tg3, in onda alle 10.55 su Rai3, e Tg2 Dossier, dalle 23.30 su Rai2. Rainews24 proporrà numerosi servizi nel corso di tutta la sua programmazione allnews. Tutti gli spazi dedicati a padre Dall'Oglio saranno caratterizzati dall'hashtag #pontidipace. Per promuovere la giornata dedicata al gesuita rapito in Siria la Direzione creativa ha realizzato uno spot già in onda sulle reti del servizio pubblico da venerdì scorso. 
(AdnKronos – Roma, 26 luglio 2017)

Vedi anche il nostro post precedente all'interno del quale link ad altri post:


mercoledì 26 luglio 2017

26.07-2017 - Un anno fa il martirio di padre Jacques Hamel a Ruoen -Padre Hamel ha seminato pace!

26.07-2017 - Un anno fa il martirio di padre Jacques Hamel a Ruoen



"Padre Hamel ha seminato pace!"

arcivescovo Dominique Lebrun




Intervista all’arcivescovo Dominique Lebrun nel primo anniversario dell’uccisione di padre Jacques Hamel ·


Dominique Lebrun era arcivescovo di Rouen da nemmeno un anno quando padre Jacques Hamel fu assassinato alla fine della messa che stava celebrando la mattina del 26 luglio 2016, nella chiesa di Saint-Étienne-du-Rouvray. Oggi, all’avvicinarsi del primo anniversario di questo drammatico evento, il presule si confida all’Osservatore Romano ricordando quanto sia rimasto in lui impresso il segno della morte "straordinaria" di questo "prete esemplare", la cui semplicità parla a tutti e fa di lui un prete universale. Inoltre, mentre la causa di beatificazione è stata avviata da tre mesi, Lebrun si rallegra della pace che regna intorno al ricordo dell’anziano sacerdote, “seminatore di pace”.

Come ha vissuto quest’anno trascorso dopo l’assassinio di padre Jacques Hamel?
Come un anno di lutto, con le sue tappe: il funerale, l’incontro con il Papa e la riapertura della chiesa di Saint-Étienne-du-Rouvray il 2 ottobre scorso. Ci sono stati poi numerosi incontri, con la famiglia, la comunità musulmana, la parrocchia e le altre vittime. Andando avanti nell’anno liturgico, mi chiedevo: cosa succede nella parrocchia di Saint-Étienne-du-Rouvray a Natale, il venerdì santo, a Pasqua, nel giorno in cui ordino diacono in vista del sacerdozio un giovane che si chiama Julien Hamel, cosa succede oggi nel primo anniversario del suo assassinio?


Padre Hamel è entrato a far parte della sua vita quotidiana?
Padre Hamel — e la sua morte — sono entrati a far parte del mio quotidiano. Come potete intuire, adesso che è morto, padre Hamel è ancora più vivo. La sua figura di sacerdote, semplice ed esemplare, mi interroga come pastore e vescovo sul modo di considerare la vita dei preti, su quello che mi aspetto da parte loro in termini di “efficienza”. Devo senza sosta convertirmi, passare da questa richiesta di efficienza all’ammirazione per la loro fecondità, il che è un po’ diverso: l’efficienza consiste nel voler ottenere qualcosa con i propri mezzi, la fecondità invece deriva dal fatto che siamo in due, che è la grazia del Signore che agisce, proporzionalmente alla nostra santità e non alla nostra ingegnosità e alle nostre capacità riconosciute da una comunità o dalla società. Sì, posso dire che quello che è avvenuto mi ha trasformato come vescovo. L’evento drammatico condiviso da altri mi ha anche avvicinato alla società locale nelle sue diverse componenti: naturalmente al comune di Saint-Étienne-du-Rouvray, e quindi agli altri comuni del territorio. E d’ora in poi sono legato alla comunità musulmana e a tutte le altre comunità di credenti sul territorio della mia diocesi. Sono legato in un modo nuovo a questa parrocchia, al suo gruppo pastorale, al suo parroco che proviene dalla Repubblica Democratica del Congo. Attraverso loro, sono maggiormente vicino alle parrocchie della mia diocesi e al presbiterio nella sua diversità.

Oggi, un anno dopo l’assassinio, come definirebbe padre Hamel?
Un sacerdote semplice ed esemplare. Forse esemplare perché semplice. Il secondo aspetto è la sua morte, straordinaria, che somiglia alla morte di un martire, alla morte di Gesù, cioè a un innocente che ha dato la sua vita per Dio e che è stato ucciso consacrandosi a Dio. Questo resta per me qualcosa di ancora nuovo, allo stato embrionale, che non ha ancora prodotto il suo frutto, che mi sorprende ancora, e che in un certo modo non mi appartiene più. Ci vorrà del tempo, questo dipenderà da quello che vive il popolo di Dio ma anche dall’opinione pubblica in senso più largo. E dipenderà anche da quello che la Chiesa deciderà per la sua beatificazione o meno, perché non è la stessa cosa se padre Hamel entra nel culto pubblico o se rimane nella preghiera ordinaria e privata del cristiano.

A questo proposito, può ricordarci come è iniziato il suo processo di beatificazione?
La storia del processo di beatificazione di padre Hamel comincia all’indomani della sua morte: la parola martire è pronunciata da numerose persone e si ritrova nelle varie lettere che ho ricevuto. Questo è il fondamento stesso della dichiarazione di un santo o martire, quello che noi chiamiamo la fama di santità o di martirio. Poi, ero naturalmente al corrente che il processo poteva aprirsi solo dopo un periodo di cinque anni dalla morte del sacerdote. Ma le cose sono cambiate durante il pellegrinaggio diocesano compiuto a Roma a settembre 2016: con le sorelle di padre Hamel, eravamo stati invitati a partecipare alla messa di Papa Francesco a Santa Marta, il 14, festa dell’esaltazione della Santa Croce. Come si sa, il Papa ha personalmente pronunciato queste parole forti: «È un martire! E i martiri sono beati, dobbiamo pregarlo». Da quel momento, ho avuto il bisogno di sapere cosa questo volesse dire. Con il prefetto della Congregazione delle cause dei santi, il cardinale Angelo Amato, abbiamo pensato di chiedere al Papa se fosse suo desiderio abbreviare i tempi. È quello che ha fatto, indicando che bisognava forse accelerare i tempi per beneficiare degli elementi di prova che sono le testimonianze delle altre vittime dell’attentato, prevalentemente molto anziane. Perciò il processo si è accelerato, ma so anche che, come dice un adagio, una giustizia serena è anche una giustizia lenta. Per questo motivo, prendiamo il tempo necessario affinché le cose si facciano non solo secondo le norme canoniche ma anche con molta serietà.

A che punto stiamo?
La prima sessione del processo si è svolta il 20 maggio scorso, e il tribunale ha ascoltato, alla data di oggi, una decina di testimoni sui sessantanove che sono stati presentati all’udienza di apertura, pur restando la possibilità per il tribunale di convocare altri testimoni per un supplemento di inchiesta. Sono in contatto con padre Paul Vigouroux, il postulatore, ma non assisto alle udienze, e rimango a distanza affinché la giustizia si svolga senza alcuna pressione. Probabilmente, il risultato dell’inchiesta sarà inviato in Vaticano nell’arco di uno o tre anni.

Nel caso in cui il Pontefice dichiarasse padre Hamel beato, il culto pubblico della Chiesa cattolica sarebbe autorizzato. Ma non ci troviamo già di fronte a una risonanza che oltrepassa le frontiere, alimentata proprio dal fatto che padre Hamel è stato un prete semplice, la cui figura parla a ognuno di noi?
È quella che viene chiamata fama di santità o di martirio. Questa è la prima condizione: la Chiesa non dichiarerà beato qualcuno che non abbia questa fama. E quello che è chiamato sensus fidei, quello che il popolo di Dio, e più largamente oggi l’umanità, può percepire di questa eco autentica di santità di Dio. Lo vedo attraverso i turisti che visitano la cattedrale di Rouen, le persone che si recano alla chiesa di Saint-Étienne-du-Rouvray o presso la sua tomba. Lo vedo anche nelle lettere che ricevo o negli incontri con persone esterne. Effettivamente, la sua semplicità parla a tutti: è stato un prete cattolico, un prete universale. Cosa ricordano le persone? Che ha battezzato, ha celebrato i matrimoni, ha predicato, ha celebrato la messa con fedeltà, che era ben integrato nella sua città. È quello che fa anche ogni giorno un prete in Australia, in Kenya, in India o in America latina. Non era un prete mediatico, era un prete diocesano, un prete e basta, e questo parla a tutta l’umanità.

Passiamo dall’umanità al catalogo dei santi. Accanto a quale santo, se la beatificazione avesse luogo, lei collocherebbe padre Hamel?
Non posso rispondere ancora a questa domanda perché sono tuttora in tempo di lutto, e non mi proietto nel futuro. La sola riflessione che ho fatto è di ordine cronologico. Tra i santi locali, non abbiamo nella diocesi di Rouen dei santi recenti. I nostri santi risalgono per lo più ai tempi della fondazione della diocesi, al quarto secolo, al tempo delle invasioni barbariche, in breve prima dell’anno Mille. Una delle sante più recenti è Giovanna d’Arco, morta nel 1431. Ci sono alcuni santi più recenti, come santa Teresa del Bambino Gesù e san Giovanni Eudes. Allora mi sono detto che potremmo avere in questa circostanza un santo contemporaneo.

Ha qualcosa da aggiungere in particolare su questi ultimi mesi?
Si può dire che la sua morte è stata un avvenimento estremamente forte dal punto di vista umano e spirituale. In un anno, non ci sono mai stati dissensi riguardanti padre Hamel, come mettere in ordine o vuotare il suo appartamento, che giorno dire la messa o meno, se ci si dà abbastanza da fare, perché ognuno di noi vive qualcosa di singolare: la famiglia, la diocesi, i preti della sua generazione, la Chiesa in Francia ma anche le collettività territoriali e la comunità musulmana. Non sono mai stato a conoscenza di opinioni diverse che siano diventate conflittuali, il che è molto raro. 
Padre Hamel ha seminato pace!

(Fonte - L'Osservatore Romano - da Rouen Charles de Pechpeyrou)


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Servizio TG2000

Guarda anche i post già pubblicati:
- Papa Francesco: “Che lui (padre Jacques Hamel) dal Cielo ci dia la mitezza, la fratellanza, la pace, e anche il coraggio di dire la verità”

- L'ultimo scritto di padre Hamel: «Rendiamo il mondo più fraterno»

ABITARE LE PAROLE /Dignità. Esiste, ma la calpestiamo di mons. Nunzio Galantino

ABITARE LE PAROLE /Dignità. 

Esiste, ma la calpestiamo 
di mons. Nunzio Galantino,
segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana




La Costituzione della Repubblica Italiana (Art. 3), in maniera ferma e inequivocabile riconosce «pari dignità sociale» a tutti i cittadini.
Alla fermezza e all’inequivocabile riconoscimento che caratterizzano la Carta costituzionale fa però da insopportabile contrappeso la realtà di una dignità personale platealmente calpestata, spesso proprio da persone e istituzioni che dovrebbero assicurare la «pari dignità sociale».
La dignità” (lat. dignitas), deriva da dignus (“meritevole”). Il corrispondente greco axios (“assioma”) permette di cogliere aspetti altrimenti poco evidenti se ci si ferma all’etimo latino. In matematica e, in generale, nelle scienze esatte, “assioma” è un’asserzione, una verità evidente che non necessita di dimostrazione. Senza forzature, si può dire che la dignità si offre come assioma. Essa non ha bisogno di essere dimostrata, è uno status riconosciuto e da riconoscere. Sulla dignità riconosciuta si fonda l’intera costruzione delle regole che governano la convivenza. Storicamente, ogni uomo, ogni popolo e ogni epoca hanno mostrato e mostrano di avere un proprio parametro di dignità che consente di stabilire regole e priorità. Tutto ciò è tanto rispettabile quanto esposto a pericolosi fraintendimenti. È sotto gli occhi di tutti infatti come «Tutte le società rendano visibili certe persone e ne facciano scomparire altre. Nella nostra società sono ben visibili i politici e le star del cinema, i cantanti e i calciatori, che si presentano continuamente in pubblico, sui cartelli pubblicitari e sugli schermi televisivi. Ma rendiamo invisibili i poveri. Essi non compaiono nelle liste elettorali. Non hanno volto né voce» (T. Radcliffe). Il mondo contemporaneo tende a riconoscere dignità a ciò che appare e a dare eccessivo, se non esclusivo peso al ruolo e alle funzioni che si ricoprono. Siamo, per questo, sommersi da dinamiche fin troppo prevedibili. Accanto a persone “dignitose”, cioè per sé nobili e “meritevoli” di rispetto, si fa sempre più largo la pretesa dignità che poggia sulla spettacolarità, su furbizie e rapine del bene comune più o meno esibite per strappare benefici e opportunità per sé e per il proprio gruppo sociale. Dimenticando che «La dignità non consiste nel possedere onori, ma nella coscienza di meritarli» (Aristotele). La dignità quindi è di chi agisce e si spende per “meritare” onori e credibilità. Percorrendo una strada diversa «diventiamo inutili nel mondo, sale insipido, che gli altri giustamente si sentono autorizzati a calpestare, a scartare […]. La dignità riposa nel cuore» (A. Casati). Quel cuore che troppo spesso custodisce attese, paure, malattie e speranze senza esibirle e dinanzi al quale vale un solo monito: «Non lasciare che un uomo difenda la sua dignità, ma fai che la sua dignità difenda lui» (R. W. Emerson).

martedì 25 luglio 2017

DI GIUSTIZIA HA BISOGNO LA TERRA SANTA - Pax Christi

DI GIUSTIZIA HA BISOGNO LA TERRA SANTA
Comunicato stampa di Pax Christi


Ci risiamo. Dopo averla fatta sparire dai media ritenendola una situazione ormai “normalizzata”, i giornalisti hanno ripreso a scrivere della Palestina rispolverando il vecchio armamentario di termini vaghi e falsi con l’obiettivo di deviare il lettore che fosse ancora interessato a sapere cosa accade realmente ai milioni di palestinesi oppressi nella loro terra. Chi legge le notizie non deve infatti chiedersi cosa sta dietro ai generici “scontri” e “incidenti” che avrebbero portato ad “aumentare la tensione”.
Ma non è questa la notizia che andrebbe data mentre si consuma la catastrofe palestinese.
La depalestinizzazione della città di Gerusalemme, la colonizzazione di gran parte della Cisgiordania e la devastazione totale realizzata dal sistema di occupazione è ben altro dalle contestazioni per un metal detector. Chi legge i giornali deve limitarsi ad immaginare solo delle difficoltà di relazioni tra israeliani e palestinesi e in particolare il “rifiuto da parte dei palestinesi delle restrizioni imposte da Israele agli ingressi della Spianata”.
Ma non basta augurarsi un maggior dialogo quando un popolo viene massacrato da cinquan’anni.
Non basta sperare che si arrivi alla moderazione e al dialogo senza mai nominare la colonizzazione e le continue violazioni del diritto internazionale da parte di Israele nella città di Gerusalemme e in tutta la Palestina.
“Quanto accade ogni giorno sotto occupazione militare non deve essere considerato ormai normale” – denunciava l’Assemblea dei Vescovi Cattolici della Terra Santa a maggio. “Ferita aperta e purulenta sono tutte le Ingiustizie provocate dagli insediamenti e dalla legalizzazione di costruzioni israeliane, dalle violazioni alla libertà di movimento, dal muro e dalle restrizioni alle attività economiche, dagli ostacoli ai ricongiungimenti tra le famiglie, dalle discriminazioni contro gli arabi con cittadinanza israeliana. La Chiesa non può ignorare l’ingiustizia, facendo finta che vada tutto bene” . (Commissione Giustizia e Pace dell’Assemblea dei Vescovi Cattolici della Terra Santa, 12 maggio 2017).

La Terra Santa soffre di un’ingiustizia che ha un nome preciso e insostituibile: l’occupazione israeliana.

Pax Christi chiede al Governo Italiano e all’Europa di impegnarsi perchè, alla luce delle numerose risoluzioni dell’ONU, si ponga fine all’occupazione e venga rispettato il Diritto Internazionale.

Firenze, 25 luglio 2017 Pax Christi Italia

______
Contatti:
Segreteria Nazionale di Pax Christi: 055/2020375 info@paxchristi.it
Coordinatore Nazionale di Pax Christi: d. Renato Sacco 348/3035658 drenato@tin.it


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DOPO QUATTRO ANNI E MEZZO FRANCESCO STA CAMBIANDO CHIESA E MONDO

Un primo tentativo di bilancio
DOPO QUATTRO ANNI E MEZZO FRANCESCO
STA CAMBIANDO CHIESA E MONDO 

Le critiche sono autoreferenziali. La preghiera è che “porti avanti la fiaccola” di don Milani, Tonino Bello, Turoldo e altri “santi senza miracoli” della cui testimonianza è intessuto il suo magistero

Filippo Trippanera


Dopo circa quattro anni e mezzo di pontificato (il tempo che fu sufficiente a Giovanni XXIII per “terremotare” la Chiesa), penso che si possa abbozzare un primo tentativo di bilancio del pontificato di Francesco.

Complessivamente, mi pare di poter dire che siamo in presenza di un Magistero forte, convinto, deciso e penetrante; un Magistero pastorale, ma anche pieno di dottrina ed incisivo nella Chiesa e nel mondo, ben al di là dei rilievi – per così dire – di “audience” e di “share”.

Le opposizioni e le critiche che emergono – soprattutto all’interno della Chiesa, dei vescovi e dei cardinali di Curia – non scalfiscono minimamente e non fanno oscillare il timone della barca di Pietro. Sono posizioni prevalentemente autoreferenziali, senza fondamenti – a me pare – teologici o dottrinali, pastorali o biblici o di tradizione cattolica. Tutte queste opposizioni – o “dubia” – prescindono del tutto dal Concilio Vaticano Secondo e dai grandi Magisteri di san Giovanni XXIII e del beato Paolo VI. Chiusa la parentesi apertasi con la tragica morte di Giovanni Paolo I e definita con le – in qualche modo – profetiche dimissioni di Benedetto XVI, è ripreso il cammino conciliare e possiamo ben dire che il 13 marzo 2013 equivale al 9 dicembre 1965. E, se erano già fuori del tempo le posizioni di Ottaviani, Siri e di buona parte della Curia pacelliana, ancor di più lo sono quelle degli oppositori di Francesco. La debolezza di queste opposizioni si ricava anche dai modi con cui vengono espresse, da far pensare che dietro ci sia un disegno più politico e di immagine che pastorale e di fede. Molto significativo è il modo con cui sono state lasciate filtrare alcune esternazioni del papa emerito, soprattutto in merito al ricordo del cardinale Meisner, di recente scomparso; esternazioni interpretate come un contrasto con il pontificato di Francesco, in plateale difformità dal silenzio assoluto e dalla preghiera, cui aveva dichiarato di uniformarsi il papa emerito. Non ho motivo di mettere in dubbio la correttezza e la lealtà di Benedetto XVI, il quale credo abbia voluto affermare principi autentici senza minimamente pensare di porre in discussione il magistero del suo successore. Il problema è di chi ha fatto filtrare questa notizia come se fosse una critica a Francesco. La stessa presenza costante di mons. George Gershwin – prefetto della Casa pontificia – in quasi tutte le apparizioni pubbliche di Francesco, che, a mio avviso, è stato un atto di delicatezza del nuovo papa verso il suo predecessore, può venire interpretata come un controllo, una sentinella, una interferenza pesante; ma non credo che ciò sia.

Quanto, poi, ai vari Socci, Negri, Burcke, Caffarra e sodali, penso che lascino il tempo che trovano.

Altre opposizioni e critiche sembrano – talora – emergere da altro versante dell’opinione pubblica della Chiesa o dal suo interno e riguardano una pretesa timidezza, indecisione o mancanza di coraggio e/o credibilità del papa verso problemi monto importanti, come il ruolo della donna, il suo sacerdozio, la gestione delle finanze della Santa Sede nonché l’atteggiamento sulla pedofilia e sul gender. Questo tipo di posizioni mi sembrano anch’esse autoreferenziali e dettate più da esigenze di immagine che di sostanza.

Io penso che papa Francesco, invece, pur con i suoi modi e, forse, con i suoi limiti ovvii, sia pienamente nel solco profondo della Chiesa e del Concilio Vaticano Secondo, e sta operando un reale cambiamento in profondità, non solo della Chiesa, ma anche del mondo.

Questa mia opinione si fonda su dati del tutto oggettivi, ormai storici.

Innanzi tutto, il linguaggio che egli usa: dal “buonasera” del 13 marzo 2013, ai ripetuti e costanti “buon giorno, arrivederci, buon pranzo, buona notte” premessi alle sue allocuzioni invece delle formule classiche “Sia lodato Gesù Cristo; pace e bene; cari figlioli (terminologia usata da Giovanni XXIII); e simili … “; un linguaggio asciutto, essenziale, come il “ Cari fratelli e sorelle “, come la menzione frequente di “fratelli cardinali; fratelli patriarchi, pope, papi, vescovi (di altre Chiese cristiane)”. Un linguaggio che non lascia spazio ad interpretazioni e che incarna la Chiesa in mezzo agli uomini. Questo tipo di linguaggio, si trasforma in comportamenti specifici ed estremamente significativi, ben al di là dell’aneddotica …

Ma il fatto emblematico di questo pontificato è la canonizzazione del beato Giovanni XXIII, senza miracoli, in contestualità con il “santo post-subito” di Giovanni Paolo II; canonizzazione preceduta dall’elevazione alla porpora di mons. Loris Capovilla, quasi centenario, e incentrata in quella straordinaria definizione di papa Giovanni come “guida guidata”.

Giovanni XXIII era stato proclamato beato con tanto di miracolo nell’anno 2000, in contestualità con il papa Pio IX. Un’accoppiata di beati che fece molto discutere per l’avvicinamento del papa del Concilio Vaticano Secondo al papa del Sillabo e del Vaticano primo. Apparve a molti la relegazione di Giovanni XXIII ad una sorta di eccezione ad una regola ben incarnata da Pio IX. Alla canonizzazione il discorso si capovolge e, nella sostanza, si delinea la straordinaria figura di papa Giovanni come maestro di generazioni e tale da costituire la regola evangelica, che dà dignità ad eccezioni come Pio IX e Giovanni Paolo II, la cui santità miracolosa attinge e trova fondamento nella santità senza miracoli di Giovanni XXIII.

Lo spessore e la portata di questo fatto, eminentemente teologici, dottrinali, pastorali, conciliari ed evangelici, sono qualificanti e profondi, e trovano puntuale conferma in altre costanti del pontificato di Francesco, ben al di là delle piccolezze, con cui si vorrebbe limitarlo e metterlo in difficoltà. In tal senso, estremamente significative sono la beatificazioni di papa Paolo VI e di Oscar Arnulfo Romero, come prodotto di una linea pastorale e teologica incentrata sulle continue e costanti citazioni (nei documenti e nei discorsi), su ogni argomento, del papa Paolo VI (il più citato da Francesco), per un verso; e nei continui e costanti riferimenti alla teologia della liberazione, massacrata dai due suoi predecessori, dall’altro.

In questa linea vanno colti anche i continui, costanti ed argomentati riferimenti e citazioni anonime del Patto delle Catacombe, della Chiesa dei poveri, di Giorgio La Pira, di don Lorenzo Milani, di don Tonino Bello, di Ernesto Balducci, di Davide Turoldo e di don Mazzolari; personaggi che evidentemente Francesco conosce bene e profondamente fino a farli propri, tanto da citarli – spesso alla lettera – senza farne menzione. Sotto questo profilo, resta impressionante l’omelia pronunciata sulla piazza di L’Avana, accanto alla gigantografia del Che Guevara, tutta incentrata su un concetto chiave contenuto in “Lettera a una professoressa”: “fai strada ai poveri senza farti strada”, che il papa ha tradotto: “servire i poveri senza servirsene”, e conclusa con le testuali parole di don Tonino Bello: “chi non vive per servire non serve per vivere”.

E sempre in questa linea vanno letti tutti i suoi documenti: dalla “Evangelii Gaudium” alla “Laudato sì”, e tutti gli atti canonici da lui emessi, nonché i provvedimenti assunti, ad iniziare dalla nomina dei vescovi (basti pensare, qui in Italia, a Galantino, a Bassetti, a Montenegro, a Zuppi, a Lorefice, ed ora a De Donatis ed a Delpini ed ai nuovi vescovi di Ferrara, Brescia ed Ancona), dei cardinali, alla continua internazionalizzazione del Sacro Collegio.

Tutto un magistero che incide profondamente nella vita della Chiesa e del Popolo di Dio, e che mette costantemente ai margini gli oppositori ed i critici.

In sostanza, possiamo concludere nel senso che Francesco continui in questa sua linea, che sta cambiando profondamente la Chiesa, dai vertici fino alle periferie, ed impegnarci – come sempre ci chiede e, in particolare, chiese a Barbiana – a pregare per lui “perché possa trarre ispirazione da questo bravo prete … Per portare avanti la sua fiaccola”.