martedì 20 giugno 2017

Papa Francesco a Barbiana per rendere omaggio a don Lorenzo Milani che con la sua vita ci ha offerto "un messaggio di cui oggi abbiamo tanto bisogno"


Papa Francesco: Don Primo Mazzolari e Don Lorenzo Milani, 
i due sacerdoti che ci offrono un messaggio di cui oggi abbiamo tanto bisogno


   

 


Cinque ragioni per tornare a don Milani

“Io ero nella stanza accanto a fare scuola. Arrivò un ragazzino con una paginetta che diceva ‘Cara professoressa, lei è una poco di buono’ o cose simili. Io mi alzai e andai da don Lorenzo e gli dissi: ‘È una porcheria! È il foglio di un ragazzo arrabbiato!’. Il priore mi domandò: ‘La vuoi più bella? E noi la faremo più bella!’. Parlava sorridendo come uno a cui è venuta un’idea geniale; l’idea lo divertiva”. Così Adele Corradi racconta la scintilla che diede vita alla lettera più famosa della storia della pedagogia, scaturita dalla rabbia di un ragazzo che il suo maestro colse al volo, trasformandola nel cuore pulsante del suo laboratorio educativo per nove mesi, nel suo ultimo anno di vita.

Verso la fine di Lettera a una professoressa troviamo scritto: “Così abbiamo capito cos’è un’opera d’arte. È voler male a qualcuno o a qualcosa. Ripensarci sopra a lungo. Farsi aiutare dagli amici in un paziente lavoro di squadra. Pian piano viene fuori quello che di vero c’è sotto l’odio. Nasce l’opera d’arte: una mano tesa al nemico perché cambi”. Per Pier Paolo Pasolini è “una delle più straordinarie definizioni di quello che deve essere la poesia”.

Non si può certo dire che il cinquantesimo anniversario della morte di don Lorenzo Milani e dell’uscita di Lettera a una professoressa sia passato sotto silenzio. La meritoria pubblicazione delle opere complete – insieme a celebrazioni, articoli, polemiche talvolta pretestuose e perfino un pellegrinaggio riparatore di papa Francesco – ci ricorda che la figura del priore di Barbiana ancora brucia, nonostante i numerosi tentativi di neutralizzare gli spigoli più aspri e contundenti della sua testimonianza.

Provo a elencare cinque ragioni per cui tornare a quella esperienza è necessario a chi insegna e può aiutare a ragionare sui compiti dell’educare oggi.

Oltre l’individualismo
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Ho insegnato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica
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Contro la scuola di classe
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Il tempo della scuola e quello della vita
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Educazione, lavoro, viaggi
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Educare alla disobbedienza
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Sentirsi responsabili di tutto è l’eredità di Barbiana più difficile da raccogliere. In un tempo in cui è venuta meno l’adesione a grandi organizzazioni collettive, torna con forza la necessità di educare alla responsabilità, sapendo compiere scelte coerenti per il futuro del pianeta e per la convivenza tra gli esseri umani. C’è una grande quantità di leggi ingiuste che perpetuano disuguaglianze e discriminazioni. Per dare spazio a un futuro più aperto, abbiamo bisogno del coraggio di testimoni che con le loro scelte e azioni diano corpo all’affermazione di Albert Camus: “Mi ribello, dunque siamo”.


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A cinquant'anni dalla morte, don Lorenzo Milani fa ancora discutere. Sacerdote fuori dagli schemi, equivocato ed esiliato sui monti del Mugello dalle autorità ecclesiastiche, con la sua scuola di Barbiana contribuì a cambiare l'insegnamento e la Chiesa in Italia. Insegnò il messaggio evangelico di fornire agli ultimi adeguate opportunità.

Il prete che diede ai poveri l'arma della parola
di Alberto Guasco

Don Milani, chi era costui? Con il suo eco manzoniano, il titolo d’un volume di Giorgio Pecorini, giornalista e amico del priore di Barbiana, è domanda a cui sono state date risposte d’ogni sorta: un eversivo, un criptocomunista, un prete «egocentrico, orgoglioso e squilibrato» – così il tardivamente pentito cardinale di Firenze Ermenegildo Florit –, un marginale, un protagonista di grandi battaglie civili, un educatore, un uomo fedele al Vangelo. Per comprendere la varietà di giudizi così dissimili, basti considerare il «destino di carta» – per citare il titolo d’un volume curato da Liana Fiorani – che ha riguardato il prete fiorentino: una bibliografia di migliaia e migliaia d’articoli scritti nel tentativo di catturare l’essenza d’un uomo sempre capace di non farsi incasellare.
Lorenzo Milani nasce il 27 maggio 1923, rampollo d’una famiglia della ricca e agnostica borghesia ebraica fiorentina. Nel 1930 si trasferisce a Milano, dove, terminati nel 1941 gli studi liceali, non sceglie l’università, bensì – a prezzo d’un duro scontro con i genitori – l’Accademia di Brera. Ma se la via dei colori è un mezzo per avvicinarlo all’estetica della religione, quella dei poveri – che gli fanno comprendere il suo essere un privilegiato – lo spinge verso il cuore della fede. Tornato a Firenze si converte al cristianesimo: è il giugno del 1943 e il settembre successivo Lorenzo entra in seminario. Abituato a ben altri agi, il cosiddetto ex signorino – che tra i propri insegnanti ha Enrico Bartoletti e tra i propri compagni Silvano Piovanelli – deve misurarsi con una vita di povertà. Ma più che freddo e fame a provarlo è un mondo che pullula d’ipocrisie e d’insegnamenti che gli appaiono slegati dal Vangelo e dalla vita degli uomini. E dato che lo dice senza mezzi termini, non stupisce che una volta divenuto sacerdote – nel luglio 1947 – non ci siano preti disposti a prenderlo con sé. L’unico che lo accetta è don Daniele Pugi, titolare della parrocchia di San Donato a Calenzano, terra – in tre parole – di fame, di industrie e di comunisti. 
È qui che don Lorenzo, per sette anni, esercita il proprio ministero, misurandosi con l’indifferenza religiosa dei più (scriverà che la religione «non vale quanto la piega dei pantaloni, quanto una buona dormita, quanto l’opinione degli altri su di noi, quanto il denaro o il divertimento»), l’ignoranza dei parrocchiani e l’insipienza d’una pastorale – catechismo e processioni, pallone e biliardino – che mostra ampiamente la corda. Ci vuole altro, e per don Milani, e solo per lui, “altro” vuol dire scuola popolare. L’alfabetizzazione, meglio, il possesso della lingua «è la chiave fatata che apre ogni porta»; è la cultura il mezzo attraverso cui i poveri possono accedere all’educazione alla fede; ma più ancora, evangelicamente, elevarsi al piano dei ricchi e rompere quelle barriere di classe che don Milani avverte come intollerabili. Sono qui le radici delle riflessioni poi confluite in Esperienze pastorali (1958), volume che tra molti artifici supera l’imprimatur ecclesiastico ma non la stroncatura de La Civiltà Cattolica né il ritiro dal commercio voluto dal Sant’Uffizio.
Ma ben prima del 1958, in un contesto di elevata polarizzazione politica – di qui la Democrazia cristiana, di là il Partito Comunista – un prete che vuol mettere in mano agli ultimi l’arma della parola e del pensiero, che liquida ricreatori e case del popolo, che intuisce con largo anticipo la necessità di rompere il legame tra Chiesa e partito al potere, non è fatto per piacere ai moderati, che lo reputano un sovversivo, né alle sinistre, che affronta sul loro terreno. Soprattutto, non è fatto per piacere in episcopio, né a Elia Dalla Costa, né al successore Florit – che d’altronde, da Balducci a Turoldo, elimina da Firenze tutte le figure ecclesiali più scomode – né al sottobosco curiale che, guidato da un anti-milaniano doc come monsignor Tirapani, già suo professore in seminario, nel settembre 1954, alla morte di don Pugi, ne ottiene la rimozione.
La nuova destinazione di don Lorenzo è la parrocchia di Barbiana – già chiusa e appositamente riaperta per lui – minuscolo borgo del Mugello a mezz’ora di strada da Firenze. Ma più che d’un borgo si tratta d’un nome, d’un non-luogo senza strada, senza elettricità, senz’acqua corrente e senza scuola, intorno al quale vivono sparpagliate poche centinaia di persone, quelle che non hanno ancora lasciato la montagna durante la piena dell’industrializzazione che, negli anni Cinquanta, muta il volto dell’Italia. 
Se lo scopo è fare di don Lorenzo il recluso di questo “penitenziario ecclesiastico”, le cose vanno molto diversamente. Con straordinaria fantasia creativa, aguzzata dall’esilio, è qui – in mezzo ai poveri più poveri – che don Milani fa nascere un esperimento di scuola popolare destinato a fare la storia. È verso questa «cattedra del niente» – dove per dieci ore al giorno, senza giorni di vacanza, s’insegna a pensare con la propria testa – che iniziano ad arrampicarsi esponenti di partito e uomini di cultura, sottoponendosi al fuoco di domande critiche dei ragazzi di Barbiana, come nel caso di Pietro Ingrao, o ai modi spicci del priore, come nel caso di Ernesto Rossi («lei è qui per mostrare stima e simpatia all’uomo e non all’istituzione che io rappresento»). Qui nascono le due celeberrime lettere milaniane. Il 12 febbraio 1965, i cappellani militari in congedo della Toscana definiscono l’obiezione di coscienza – sulla quale è in corso un dibattito rovente – «estranea al comandamento cristiano dell’amore» ed «espressione di viltà». Don Milani risponde duramente su Rinascita – l’unico giornale a pubblicare la sua replica – il 6 marzo 1965: «La sentenza umana che li ha condannati dice solo che hanno disobbedito alla legge degli uomini, non che son vili... Aspettate a insultarli. Domani forse scoprirete che sono dei profeti». Non è finita qui. Denunciato da un gruppo di ex combattenti per apologia di reato – tale è all’epoca l’obiezione di coscienza – don Lorenzo viene rinviato a processo. Ma non potendosi recare a Roma – è già stato aggredito dal morbo di Hodgkin, a causa del quale si spegnerà il 26 giugno 1967 – affida la propria difesa pubblica a una lettera ai giudici scritta insieme ai propri ragazzi: una difesa che è un attacco, non tanto alla parola “obbedienza” ma a un suo malinteso significato, e che è una ulteriore lezione educativa offerta ai suoi ragazzi.
Sono le medesime modalità compositive ed educative che si ritrovano in Lettera a una professoressa, uscita nel 1967 in prossimità della morte del priore: certo, duro attacco alle contraddizioni del sistema scolastico italiano, ma soprattutto, come è stato detto, «canto di fede nella scuola», del tutto estraneo a quel manifesto ideologico e inno al sei politico che ne avrebbe fatto il Sessantotto.
E oggi? Oggi la modernità di don Lorenzo non sta nel dibattito tra alfieri del donmilanismo e dell’antidonmilanismo, o a volumi pseudo-scandalistici a cui si è dato fin troppo spazio. Anzitutto, per comprenderne più complessivamente la figura non c’è nulla di meglio che riaccostarsi ai suoi scritti, appena giunti in libreria nella forma di Opera omnia e di edizione critica diretta da Alberto Melloni (vedi l’intervista nelle pagine successive) e curata da Federico Ruozzi, storico della Fondazione per le Scienze Religiose e dell’Università di Modena-Reggio Emilia. Per la prima volta, il lettore ha dunque la possibilità di accostarsi a tutti i testi pubblici e privati milaniani, inediti compresi, bypassandone definitivamente la dispersione, la frammentarietà editorale frutto di molte cacce allo scoop e le censure che li hanno diversamente colpiti e segnati. 
In secondo luogo, suona qui particolarmente opportuna una citazione del Vangelo di Giovanni: in principio era la Parola. In questo senso, senza voler celare i limiti d’una proposta ormai consegnata alla storia, don Lorenzo appare oggi come una figura in grado, da un lato, di afferrare e tener saldo il primato della Parola evangelica, e dall’altro di fornire, anzi, di restituire agli ultimi la grammatica loro necessaria per capire il mondo e la Parola. 
Infine, e all’opposto, don Milani è anche un grande inattuale. Come sottolineava fin dal 1983 il priore dei Camaldolesi Benedetto Calati, don Lorenzo sembra far storia, anzi, «scuola a sé». Ovvero, da un lato, l’esperienza della scuola di Barbiana non è più direttamente proponibile, come aveva compreso lo stesso priore che, nei suoi ultimi giorni, spiegò ai propri ragazzi che restare fedeli a un morto sarebbe stato il miglior modo di tradirlo. Ma dall’altro lato, invece, dopo di lui sono esistite e tuttora esistono situazioni ed esperienze che, direttamente o indirettamente – ne ha scritto Eraldo Affinati in L’uomo del futuro (2016) – sembrano potersi richiamare a lui. D’altronde, nel 1992 Ernesto Balducci scriveva che «Barbiana non è più in Mugello: Barbiana è in Africa, nel Medio Oriente, è una comunità musulmana, è nell’America latina» e recentissimamente Michele Gesualdi, uno dei ragazzi di don Milani, ha ribadito che «le Barbiane nel mondo sono ancora tante e i barbianesi molto più numerosi, hanno solo cambiato luogo e pelle».