domenica 9 aprile 2017

“UN PERCORSO QUARESIMALE” - Settimana Santa / 1 La Domenica delle Palme di Carlo Maria Martini

“UN PERCORSO QUARESIMALE”
Settimana Santa / 1

La Domenica delle Palme



di Carlo Maria Martini





Nella Domenica delle Palme viene letta una pagina tratta dal vangelo secondo Giovanni: «La grande folla che era venuta per la festa» – la festa della Pasqua ebraica – «udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele! Gesù, trovato un asinello, vi montò sopra, come sta scritto: “Non temere, figlia di Sion! / Ecco, il tuo re viene, / seduto sopra un puledro d’asina”. Sul momento i suoi discepoli non compresero queste cose; ma quando Gesù fu glorificato, si ricordarono che questo era stato scritto di lui e questo gli avevano fatto» (12, 12-16).

Può sembrare strano cominciare con un’acclamazione a Cristo come vincitore e come re, ma la liturgia non conosce la malinconia. L’evento della passione è di fatto una vittoria, perché ormai Gesù ha vinto la morte e ne ha superato la paura. Ciò spiega perché lo contempliamo mentre entra deliberatamente e coraggiosamente nella città che trama contro di lui.
L’episodio riportato dal vangelo di Giovanni indica chiaramente la circostanza: la folla è venuta a Gerusalemme per la festa ebraica di Pasqua che si celebrerà tra pochi giorni. I soggetti del racconto sono tre: la folla, appunto, Gesù, i discepoli.

La folla, assai grande, è composta di gente buona, semplice, devota; gente che si è recata nella città santa in anticipo proprio per “purificarsi”, cioè per vivere la Pasqua con purità cultuale, rituale e morale. Questa gente soffre per i mali di sempre, per i mali di tutti i tempi: le malattie, la povertà, la disoccupazione, i drammi delle famiglie. Soffre inoltre a causa dell’oppressione politica del proprio paese, dell’oppressione fiscale eccessiva, delle tante corruzioni e ruberie che contaminano la terra. E la sofferenza la porta ad aspettare qualcosa di più e di meglio, a guardare a ogni evento nuovo con speranza; perciò è pronta a entusiasmarsi.
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Eppure Gesù arriva, sfidando l’ordine dato dai sommi sacerdoti e dai farisei di denunciare la sua presenza così che potessero prenderlo. Egli dunque accetta il pericolo, e la folla al vederlo si commuove, gli corre incontro con entusiasmo e con rami di palma. La palma, fin dall’antichità, è segno di vittoria, e veniva agitata in qualche festa ebraica per acclamare Dio, il Dio del cielo e della terra, il Dio che salvava il suo popolo. 
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L’accoglienza fatta a Gesù, l’acclamarlo come re e Messia, non è una semplice esaltazione religiosa; è un preciso riferimento alle attese culturali e sociali della gente che non ha paura di osannarlo pubblicamente, nella capitale, sotto gli occhi delle autorità perché è ormai stanca di una politica fatta sulla sua pelle da uomini lontani; vuole qualcuno a cui poter dare piena fiducia.

– Che cosa fa Gesù? Non si sottrae a questa manifestazione, come invece si era sottratto in Galilea, dopo la moltiplicazione dei pani, quando erano venuti per proclamarlo re. Egli esprime un gesto di umiltà, senza parlare, senza dire nulla: invece di entrare in città a piedi, sceglie di montare sopra un asino, l’animale più umile che ci sia, un animale di servizio, per far capire che la sua non è una regalità di guerra o di dominio, bensì di servizio.


I discepoli però «non compresero». Da un lato Gesù non spegne l’entusiasmo della folla, come loro potevano pensare avendolo già visto altre volte fuggire; dall’altro lato Gesù non si concede a tale entusiasmo.
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Gli apostoli intuiscono, in modo generico, che nella vita di Gesù ci sono due parti: nella prima agisce, compie gesti di liberazione dell’uomo, guarisce, opera miracoli, vince le potenze avverse. E la parte che piace anche a noi, che ci avvince e che ci sembra di capire.
In una seconda parte – che inizia con la Domenica delle Palme – Gesù non fa nulla per l’uomo, non compie miracoli, non pronuncia discorsi, non si difende. Infatti, egli accetta il senso religioso dell’entusiasmo della folla che lo acclama, non il senso politico, e opera un attento discernimento che gli apostoli non comprendono. Soltanto più tardi capiranno che entrando a Gerusalemme quel giorno Gesù si era mostrato Re messianico, Signore della storia, però Signore umile e servitore dell’umanità. È molto importante osservare che Gesù entra in Gerusalemme come un uomo libero, disteso, sciolto, sereno. Libero perché non ha condizionamenti umani, non teme nessuno, nemmeno la morte; la sua è quella sovrana libertà che tutti vorremmo avere. Essere liberi di essere davvero ciò che siamo, nella verità di noi stessi: non avere paura per ciò che altri possono dire o fare di noi. Soltanto un’esistenza libera è capace di amare, di dedicarsi e di donarsi. Il mistero di Gesù che si va svelando, mistero di umiltà, di sofferenza e poi di gloria, è anche il mistero della nostra vita, se lo accogliamo e quindi lo sperimentiamo a poco a poco. È il mistero – come dice san Paolo – «nascosto a tutti i potenti di questo mondo; altrimenti non avrebbero crocifisso il re della gloria». È il mistero – come dice l’evangelista Matteo – «rivelato ai piccoli e ai semplici», a coloro che si trovano in situazione di sofferenza e di oppressione e che percepiscono qual è il vero volto di Dio. Ma il discorso della passione e della croce, realtà inevitabile nella vita di ciascuno, non costituisce né il primo né l’ultimo passo: sta in mezzo a due momenti positivi di inizio e di conclusione, di creazione e di definitiva salvezza. La croce non è l’ultima parola e per questo è possibile essere nella sofferenza e contemporaneamente nella gioia.