martedì 16 agosto 2016

«Noi non siamo animali, siamo esseri umani e chiediamo di essere rispettati» "lettera aperta alla città" di donne, uomini, ragazze, ragazzi e bambini dal parco della stazione di Como - Il vescovo: «Tutti dobbiamo fare qualcosa»


Emergenza umanitaria
Parlano i migranti: siamo persone non bestie


Il 10 agosto, tra alcuni volontari e persone solidali con i migranti presenti in stazione, si è sentita la necessità di radunare le varie persone bloccate dalla frontiera: frustrazione crescente, tensioni, litigi, hanno suggerito di tentare un superamento delle differenze etniche, linguistiche, culturali, di genere e di età, cercando di comprendere che i problemi dei singoli sono problemi di tutti e che quindi non ha molto senso pensare a provare di risolverli da soli o in piccoli gruppi. Si sono tenuti due incontri, ai quali hanno partecipato un centinaio di migranti e una trentina di europei (soprattutto da Como e dalla Svizzera). Gli incontri sono stati tenuti in inglese/francese, con traduzione simultanea in arabo, oromo, tigrino e amarico. In apertura ci si è soffermati sulla situazione di stallo che al momento contraddistingue la stazione di Como San Giovanni, così come altre località italiane situate in zone di confine. Quello che si è generata è una stata una profonda discussione tra i migranti, che hanno deciso di scrivere una lettera di presentazione alla città di Como: le persone presenti in supporto hanno poi aiutato a trascriverla e tradurla in italiano. Nel seguito la traduzione in italiano della lettera aperta alla città di Como.


«Lettera alla città

Noi siamo persone originarie di diversi continenti e di diversi stati; proveniamo da diversi trascorsi, culture, gruppi etnici e religiosi… però siamo tutti qui: siamo semplicemente rifugiati.
Abbiamo dovuto abbandonare i nostri paesi perché i nostri diritti umani sono stati violati, o perché siamo stati perseguitati. Per arrivare in Europa abbiamo dovuto attraversare situazioni orribili: ci siamo scontrati con la morte tante volte, scappando dai nostri paesi, in deserti, montagne, foreste, strade, nelle prigioni in Libia ed, infine, attraversando il Mar Mediterraneo.
Abbiamo perso molti amici, parenti, persone care, bravi uomini e brave donne, bambini innocenti.
Abbiamo dovuto sanguinare, morire di fame, sopportare il dolore e molte notti insonni.
Per questo stiamo ancora soffrendo: tanto dolore, incubi, perdite e ricordi tristi. Con tutto questo dovremo conviverci per del tempo, forse per il resto della nostra vita. Comunque lo abbiamo fatto, anche se non è stato per nulla semplice.
In Europa abbiamo immediatamente iniziato il viaggio per ricongiungerci con i nostri familiari, parenti, amici e compagni. Questo è diventato un obiettivo difficile, perché presto abbiamo scoperto che non ci è consentito muoverci liberamente.
Quando siamo sbarcati sulla costa italiana non ci sono state spiegate le leggi sul diritto di asilo in Europa, siamo stati costretti a lasciare le nostre impronte digitali con la forza e con l’inganno. Questo ci impedisce di fare richiesta di asilo altrove. Ora siamo bloccati al confine svizzero.
Ogni volta che proviamo ad oltrepassarlo la polizia ci respinge. I giorni diventano settimane, e le settimane stanno diventando mesi.
Stiamo iniziando a perdere speranza e pazienza, diventiamo delusi, preoccupati e, talvolta, nervosi.
Quando siamo arrivati qui pensavamo che i nostri incubi fossero superati e il nostro dolore sarebbe finito… ma non è andata così.
Qui, sul confine svizzero, continuiamo a soffrire e non sappiamo quanto ancora durerà questa situazione.
Noi non siamo animali, siamo esseri umani e chiediamo di essere rispettati. Abbiamo provato tante volte a superare il confine, questo come altri, con treni, bus e passando per il bosco, ma le guardie ci hanno raccolti come bestie.
Durante i controlli veniamo costantemente sottoposti a umiliazioni, costretti a svestirci, senza separazione di genere.
Ci hanno tenuti in piccole stanze per più di un giorno, senza cibo, acqua né alcun supporto legale.
Infine ci hanno rispediti al punto zero, nel sud Italia, separando famiglie, amici e rendendo le nostre vite ancora più difficili.
Ci sta a cuore che queste pratiche che violano la nostra dignità giungano all’attenzione di tutti in modo che chi arriverà dopo di noi non debba subire lo stesso trattamento.
Ci chiediamo perché il tentativo di oltrepassare il confine venga criminalizzato, mentre sia prassi calpestare sistematicamente i diritti umani.
Chiediamo un corridoio umanitario per passare legalmente la frontiera e ricongiungerci con famiglie, parenti e amici così da avere la possibilità di costruirci un futuro dignitoso».
[Donne, uomini, ragazze, ragazzi e bambini dal parco della stazione di Como San Giovanni]
(fonte testo: ecoinformazioni 13/08/2016)



Fare qualcosa tutti. Le autorità politiche, quelle religiose, la società civile, semplici cittadini. Tutti possono e devono fare qualcosa per cercare di risolvere la difficile situazione che si è venuta a creare alla stazione di Como San Giovanni con i tanti migranti presenti da giorni. L’invito e la riflessione è del vescovo Diego Coletti. L’ufficio stampa della Diocesi ha diffuso oggi un comunicato che ricalca integralmente l’intervento di Coletti sul Settimanale della Diocesi lariana.