sabato 13 febbraio 2016

Fedeli al Dio del non ancora di Luigino Bruni

Un uomo di nome Giobbe/10 -
Non ci si salva accettando logiche e parole sbagliate


Fedeli al Dio del non ancora

di Luigino Bruni

“Nel giorno del giudizio sarà Dio a dover rendere conto di tutta la sofferenza del mondo”
Ermanno Olmi, Centochiodi



Un giorno un passero finì all’interno di una grande casa luminosa, e vi volò libero e felice. Ad un certo punto qualcuno chiuse la finestra dalla quale era entrato, e tutte le altre finestre della casa. L’uccellino vedeva oltre i vetri trasparenti il suo cielo: cercava di raggiungerlo ma picchiava solo la testa sulle finestre chiuse. Provò più volte, finché non vide, sul lato opposto, una porta che dava in un corridoio buio, buissimo. Preso dalla disperazione intuì che se c’era una via di salvezza per tornare nel suo cielo quella doveva trovarsi solo dentro quel buio, al di là della porta scura. E così si gettò giù per il nero delle scale. Urtò per molti spigoli, si ferì, spezzò la punta di un’ala, ma non smise di continuare a sprofondare, non si fece vincere dalla paura del buio e dal dolore. Finché, in fondo al grande buio, intravvide una luce: era la stessa luce dalla quale era venuto. Siamo arrivati alla fine dei dialoghi tra Giobbe e gli ‘amici’. Imprigionati dentro le loro etiche e teologie ideologiche non riescono a vedere il vero uomo Giobbe, e continuano a biasimare e a condannare il suo fantasma, disegnato perfettamente al fine di confermare le loro teorie. Giobbe non si è accontentato delle risposte perfette alle domande facili e banali, avrebbe voluto che qualcuno prendesse sul serio, anche senza rispondere, le sue domande difficili e disperate. 
...
La nostra età fa una enorme, a volte invincibile, fatica a capire la Bibbia e le altre grandi parole del
mondo perché abbiamo perso contatto con la verità e gratuità delle nostre parole umane. In un mondo di chiacchiere anche la parola biblica viene associata all’infinito nulla delle nostre parole tradite. E non capiamo più i poeti, che sulla terra delle parole svuotate e usate senza gratuità, diventano novelli Giobbe, torturati dagli ‘amici’ e dall’ideologia ‘economica’ che domina anche il nostro tempo: “Si battono le mani contro di lui e si fischia di scherno su di lui” (27,23). Dove regna il disprezzo per la verità delle parole, prosperano i falsi poeti, che si impadroniscono delle parole a scopo di lucro, e le fanno morire.Giobbe può pronunciare questo giuramento solenne sulla base di due fedi. La fede-fedeltà nel Dio vivo che dovrà un giorno rivelare qualcosa di sé che ancora non appare, e la fede-fedeltà alla voce vera che gli parla dentro, alla sua ruah, a quello spirito-soffio che gli dice la sua innocenza. È dentro la sua coscienza sincera e vera che intuisce la possibilità della rivelazione di un Dio che non vede ancora: è lì che Giobbe attende il messia, e noi insieme a lui. La terra promessa può
incominciare dentro il suo cuore che “non ha vergogna” di lui. In nessuna notte si muore veramente finché riusciamo a non vergognarci del nostro cuore. Se siamo stati capaci di continuare a credere alla possibilità di un “Dio vivo” dopo i campi di concentramento, dopo le morte dei figli e dei bambini, è perché sulla terra ci sono state e ci sono persone che, come Giobbe, hanno continuato a cercare volti diversi di Dio ancorati alla verità della loro coscienza, perché la sentivano abitata dal “Dio del non ancora”. Ma soltanto la fedeltà estrema alla gratuità delle nostre parole ci può far capaci di vedere un cielo più alto e più vero. 

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