"La danza di Miriam"
di Luigino Bruni
"Il libro dell’Esodo è pieno di kolòt, voci. … Kalòt è parola che indica i suoni prodotti da un corno di ariete, dai sonagli di un vestito sacerdotale, dai tuoni. … Ma nella povertà di una parola sola c’è qualcosa da custodire: la lingua sacra riconosce che il creato parla incessantemente, dallo schianto d’una folgore al tintinnio di un sonaglio. Usa una parola sola secondo un’umiltà e una nostalgia: ammette di non saper intendere quelle voci e si riannoda al tempo in cui Adam intendeva alla lettera il creato" (Erri de Luca, Esodo/Nomi).
La liberazione del popolo oppresso in Egitto era iniziata con la frusta dei sovraintendenti sui lavoratori, e ora termina oltre il mare con il tamburello di Miriam danzante. Dove non c’è spazio per il ritmo della danza, prima o poi compare quello della frusta. È la bellezza umile e mite del tamburello che celebra la libertà e ci salva.
...
Il segno di Mara è un umile legno: “Mosè gridò al Signore, il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell'acqua e l'acqua divenne dolce” (15,24-25). Nell’episodio delle acque amare-dolci, YWHW, il Dio della voce, non parla. Il popolo mormora contro Mosè, il profeta grida (quante grida ci sono nel libro dell’Esodo, e negli esodi di oggi), ma YWHW gli indica semplicemente un legno. Quel legno forse era già sotto gli occhi di tutto il popolo, ma solo gli occhi del profeta ora lo ‘vedono’. Ogni profeta ha un grande rapporto con la parola, è quasi soltanto parola. Parla, dice parole diverse e più grandi proprio perché quelle parole non sono sua proprietà privata o un suo manufatto, ma dono ricevuto e ridonato al popolo. È la gratuità della parola che fa la differenza tra Mosè e i tanti falsi profeti di ogni tempo, che usano le tecniche della parola a proprio vantaggio. Questa prima prova a Mara ci rivela qualcosa sull’importanza degli occhi del profeta. Il profeta vede diversamente e di più. Parla anche guardando le cose in un altro modo. Tante persone, più di quanti possiamo immaginare, continuano a salvare il loro mondo semplicemente guardandolo diversamente, a trasformare con lo sguardo legni scartati in strumenti di salvezza. Li salvano perché sono capaci di ‘vederli’, di riconoscerli nella loro vocazione e bellezza, e così farli diventare beni di tutti – vedremmo tanta bellezza nelle persone attorno a noi se solo fossimo capaci di guardarle. Ci sono tanti legni di salvezza abbandonati lungo le rive delle nostre città e dentro le nostre scuole, perché nessuno li ha mai visti, guardati, trasformati, amati con gli occhi. Non essere guardati da nessuno, non avere qualcuno, almeno uno, che ci vede, conosce e riconoscere, è la povertà più grande. Salveremo le nostre imprese se impareremo a guardarle diversamente, e se ricominceremo a vedere e a guardare diversamente i lavoratori. Ma nei nostri luoghi di lavoro ci servirebbero più profeti, più artisti, poeti e scrittori (e meno esperti in ‘risorse umane’). Saremmo così più capaci di trasformare le acque amare delle nostre crisi in acque dolci che salvano il lavoro e ne creano di nuovo. Potremmo intravvedere un’oasi in fondo al deserto, e credere che nessun deserto è infinito: “Poi arrivarono a Elìm, dove sono dodici sorgenti di acqua e settanta palme. Qui si accamparono presso l'acqua” (15,27).
Leggi tutto:
La danza di Miriam di Luigino BruniGuarda i post già pubblicati: