di Cornelia Isabelle Toelgyes
La protesta dei richiedenti in Israele non si ferma. I sit-in continuano, giorno e notte, ma il governo israeliano non cede. Nel mese di gennaio del 2014 le autorità competenti israeliane hanno notificato a 1700 persone (per lo più sudanesi e eritrei) l’obbligo di recarsi a Holot, un centro di accoglienza situato nel deserto di Negev.
Pochissimi si sono presentati all’appello. Holot è considerato dai più “un campo di concentramento”, in grado di “ospitare” 3000 persone. Holot significa pochissima libertà di movimento, e, vista la sua ubicazione e il fatto che il deserto sia poco popolato, è praticamente impossibile trovare un lavoro, mantenersi, costruirsi un futuro.
Molti dei 55.000 richiedenti asilo che hanno raggiunto Israele in modo un ufficiale, durante il loro periodo di permanenza hanno un’occupazione, sono autosufficienti, aiutano i fratelli che ancora non si sono ambientati, e, hanno iniziato a sognare guardando avanti: una vita serena, un sogno che lentamente si stava trasformando in realtà. Poi la doccia fredda, il cambiamento di rotta del governo israeliano: i richiedenti asilo devono essere “internati” in un centro di detenzione, oppure devono lasciare il paese. Il governo ha fatto una proposta allettante: chi ritorna da dove è venuto, riceve un premio di 3.500 dollari. Nel 2013 duemilaseicento africani hanno risposto a questo programma di rimpatrio del governo israeliano. Talvolta, ahimè, con un finale tragico.
La maggior parte dei giovani ha lasciato la loro terra per un motivo ben preciso: dittatura, alcuna libertà, conflitti di ogni genere. Per continuare a vivere, ha dovuto abbandonare il proprio Paese, i loro affetti più profondi, le loro radici. Si sa; un profugo non può scegliere.
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E qui in Italia? Una volta ottenuto il permesso sussidiario o lo status di profugo, sei solo. I giovani non sanno cosa fare. I centri per la seconda accoglienza sono pochi, le liste d’attesa spesso lunghissime. Nel frattempo i più sfortunati, senza soldi, senza un tetto sulla testa, senza lavoro, dormono all’addiaccio.
Essere profughi non è una scelta. Il mondo spesso sceglie che loro, profughi, lo rimangano per sempre. Un errare senza sosta, senza pace. Al profugo si nega la stabilità, l’aiuto necessario per ricominciare d’accapo.
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