domenica 11 agosto 2013

Realtà e “reality”

Fleba il fenicio, morto da quindici giorni, dimenticò il grido dei gabbiani, e il flutto profondo del mare e il guadagno e la perdita.
Arrivano di continuo fenici o naviganti della disperazione nella nostra terra desolata. Quella di stanotte è il bel lungomare di Catania, quella delle spiagge, della movida. Nel mio ricordo ci sono grandi palme ombrose e gelaterie dove si gustano il gelo e sorbetti profumati.
Ieri un peschereccio con 120 “fenici”, forse siriani, chissà, si è arenato vicino alla riva a 15 metri dalla riva. Sei di loro tutti giovani sotto i 30 anni, uno addirittura un ragazzino, sono annegati in un canale profondo tentando di raggiungere la bella spiaggia. E i loro corpi sono rimasti per qualche ora là sulla spiaggia del lungomare Playa, nei pressi del ‘lido Verde’, uno dei tanti stabilimenti balneari che si trovano sul lungomare Kennedy. Altro che Mission, altro che reality da guardare il televisione, ascoltando il dolce suono del ghiaccio nel bicchiere di scotch, corpi nudi irrompono nelle nostre vite, ingombrano, per poco temo, le nostre coscienze, turbano la vista del mare che si allunga sulla battigia, pacifico e amico solo guardandolo dalla chaise longue.
Immigrati, clandestini, irregolari, qualcuno magari promosso a rifugiato, anche se tutti i “fenici” da ovunque vengano cercano rifugio dalla fame, dalla guerra, dalla pioggia o dalla siccità.
Compresi delle nostre “perdite”, rovesciati dall’opulenza all’indigenza, ci chiediamo cosa sperino di trovare qui, dove molti nativi, ricattati da pochi, rinunciano al domani per l’unica certezza della fatica e della sopravvivenza. La gran parte di noi guarda a loro con occhi e sentimenti non diversi da quelli con i quali guardava i contadini che sciamavano tanti anni fa dal Sud verso il Nord, esigenti, affamati protervi, stranieri.
Siamo tutti stranieri gli uni per gli altri, ma noi rivendichiamo di essere fragilmente aggrappati a un’eco di identità, attaccati a una sostanza piccola o grande di privilegio o di ciò che prendiamo per tale, e che non ammettiamo in loro, come se per essersi sradicati, essere partiti su un peschereccio, su un barcone, su un gommone, avessero volontariamente rinunciato e perso il diritto all’appartenenza e guadagnato il dovere di assomigliarci, assumerci come modello da imitare e cui assoggettarsi, in cucina, in camera da letto, in chiesa.

A fine novembre, la Rai lancerà un nuovo reality, format che sembra avere una certa fortuna presso il grande pubblico. Ma questa volta la location non sarà una casa piena di telecamere o un’isola: il programma si terrà nei campi profughi in Sud Sudan e nella Repubblica Democratica del Congo.
La trasmissione, ideata dalla Rai in collaborazione con l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati e la Ong Intersos, si chiamerà The Mission. Sempre che vada in onda, dati i numerosi appelli per annullarla.
“La concessionaria del servizio radio televisivo pubblico intende intervenire per bloccare la produzione di un reality show lesivo della dignità delle persone? Quali sono le valutazioni rispetto al valore sociale, etico e politico della produzione di un reality show che spettacolarizza i drammi dei migranti?”, chiedono Gennaro Migliore, presidente dei deputati di Sel e capogruppo in Commissione Vigilanza Rai, e Nicola Fratoianni, componente della Commissione Cultura della Camera, in una interrogazione al presidente della Commissione Vigilanza Rai. Fa loro eco Vinicio Peluffo, capogruppo Pd della Commissione di Vigilanza Rai, che, in un’interrogazione depositata in Commissione, chiede un ripensamento “su un programma costruito sulla spettacolarizzazione del dolore”.
Le critiche non arrivano solo dal mondo politico: un 25enne ha lanciato una petizione sul sito Change.org, raccogliendo in pochi giorni più di 8mila firme. “Sono rimasto sorpreso e poi indignato nel sapere che la Rai aveva deciso di produrre insieme ad alcune importanti organizzazioni che si occupano di diritti umani un format del genere, che fa di tragedie umane come quelle dei rifugiati una spettacolarizzazione”, ha spiegato il giovane a Il Fatto Quotidiano.
Gli organizzatori invece difendono la scelta. Secondo l’Unhcr The Mission rappresenta “un’importante opportunità per far conoscere al grande pubblico il dramma di 45 milioni di persone nel mondo costrette ad abbandonare le proprie case”, e si dice “fiducioso che la Rai tratterà l’argomento con la massima sensibilità e delicatezza evitando ogni spettacolarizzazione”.
Anche per Intersos la trasmissione è un’occasione per dare visibilità alla tematica. Marco Rotelli, direttore della Ong, spiega sul sito dell’organizzazione: “Le polemiche erano inevitabili, ma la scelta di partecipare al programma è legata al bisogno di dare visibilità a un tema di cui poco si parla sui media di massa”. Rotelli spiega che la Ong ha attentamente valutato la possibilità di collaborare alla trasmissione, prima di accettare: “L’abbiamo valutata, considerata rischiosa per l’immagine dell’organizzazione, ma unica per il potenziale di diffusione che portava con sé. La causa ci è sembrata più importante dei rischi”.
E’ certamente importante dare visibilità alla tematica. Ma davvero il modo giusto è quello di mandare alcuni personaggi del mondo dello spettacolo, come ad esempio Albano e Michele Cuccuza, nei campi profughi? Cavalcare la spettacolarizzazione imperante del nostro tempo è davvero il modo più corretto per fare informazione sulla questione dei rifugiati?...

Vedi anche il nostro precedente post: