Non c’è dubbio che papa Francesco, in appena tre settimane, abbia portato una rivoluzione. I giornali popolari si affannano a sottolineare i gesti che lo avvicinano alla gente - baci ai più piccoli, telefonate inaspettate agli amici, bagni di folla, persino la firma sul gesso di una bambina - mentre quelli più seriosi si avventurano nell’esegesi delle sue parole e nelle analisi dei suoi gesti, generalmente proiettando le proprie aspettative ben al di là del legittimamente immaginabile.
Qualcuno ha cominciato anche a lanciare frecce velenose , guarda caso dai siti tradizionalisti; e - non c’è da stupirsi - anche Sandro Magister ha cominciato pian piano a prendere le distanze facendo notare, acido, intanto che Bergoglio non è "dottore" e poi che le sue scelte di povertà possono far nascere “dentro e fuori il cattolicesimo cattive tentazioni: dalla liquidazione del governo centrale della Chiesa alla scomparsa del titolo di papa, dall’avvento di una “nuova Chiesa” spirituale alla umiliazione della bellezza che celebra Dio, cioè della simbolica di riti, abiti, arredi, edifici sacri. La modesta “ars celebrandi”, senza forza né splendore, della messa inaugurale del 19 marzo non ha aiutato a fugare quest’ultima tentazione”.
Secondo me la rivoluzione più radicale è nascosta nelle poche e semplici parole che ha pronunciato durante la benedizione Urbi et orbi...
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