mercoledì 29 settembre 2010

Sakineh, Teresa, Faith, Maryam, Kobra, Azar, Ashraf...

Qualcosa si muove persino a Teheran. La condanna a morte per lapidazione inflitta a Sakineh Mohammadi-Ashtiani, la donna iraniana accusata di adulterio e omicidio, è stata commutata in condanna a morte per impiccagione. Ridicolo, certo, sostenere che si tratti di un passo avanti, eppure lo è. Lo è innanzitutto perché prova che l’indignazione internazionale viene sentita dal pure sprezzantissimo governo di Teheran.

Leggi tutto: Sakineh dalla pietra alla corda
 
"«Ogni esecuzione è un crimine osceno contro l'umanità... anche se in effetti succede che siano trattate dall'opinione pubblica in modo disomogeneo... Dipende soprattutto dai media, dall'approccio che assumono nei confronti di una storia, dalla luce che gli danno, dal tipo di reazione che s'ingenera nei lettori»."
 
 
Non c’è più nessuna ragionevole speranza perché Sakineh Mohammadi Ashtiani possa aver salva la vita. Così come nessuna speranza ha accompagnato il miserabile cammino verso la morte della disabile americana Teresa Lewis.
La triste, drammatica discesa verso la morte di queste due donne è stata interecciata e resa ineluttabile anche dallo scontro politico planetario che vede l’Iran nel mirino politico degli Stati Uniti e dei loro alleati.


C’è un filo sottile che lega due paesi lontani tra loro anni luce sotto molti punti vista: a livello politico, culturale, economico e sociale. Due realtà che, negli ultimi giorni, complici le drammatiche notizie riportate dai mezzi d’informazione, si sono trovate a vivere situazioni del tutto simili. Stiamo parlando dell’Iran e degli Stati Uniti. La zona di contatto ha un nome preciso, si chiama “pena di morte”.


Abbiamo scelto di citare un recente libro di Michela Murgia (“Accabadora”), per intitolare questo articolo, dove si parla di Teresa Lewis - donna con disabilità mentale condannata a morte il 23 settembre negli Stati Uniti - dell'iraniana Sakineh Mohammadi Ashtiani - la cui esecuzione sembra sia stata per il momento sospesa - e di una giovane nigeriana, Faith Aiworo, che dopo essere stata espulsa dall'Italia - dove aveva già avviato richiesta di asilo politico - è stata rimpatriata nel suo Paese e ora attende l'esecuzione capitale. Storie da porre presumibilmente sullo stesso piano, ma che hanno suscitato e suscitano echi completamente diversi negli organi d'informazione e presso l'opinione pubblica


Il caso che riguarda Sakineh Mohammadi, la donna 45enne che rischia la lapidazione in Iran e che sta mobilitando tutta l’opinione pubblica mondiale, rischia di mettere in secondo piano altri tre casi di donne condannate a morte per lapidazione. Lo riferisce Mohammad Mostafai, l’avvocato difensore di Sakineh Mohammadi costretto a rifugiarsi in Norvegia per non rischiare di essere lui stesso arrestato dal regime per aver difeso alcune donne iraniane.


Il caso di Sakineh non è isolato. Attualmente in Iran risultano pendenti, secondo un elenco pubblicato dal Comitato internazionale contro la lapidazione, ben venti sentenze di morte per lapidazione, tre delle quali riguardano uomini. Le «altre Sakineh» portano i nomi di Maryam, Zeynab, Robabe, Ferdoas, Ashraf, Hajar, Sarimeh, Khanom, Masumeh e altri ancora.


Vedi il nostro post precedente: La lapidazione in vigore come "sanzione penale" in diversi paesi del mondo