venerdì 30 giugno 2023

Il Mediterraneo grembo e promessa di una fraternità possibile - Appello per un Mediterraneo di pace sottoscritto da teologi e pastori

Il Mediterraneo grembo e promessa
di una fraternità possibile
Appello per un Mediterraneo di pace
sottoscritto da teologi e pastori


Si è svolto a Molfetta, nei giorni 19 e 20 giugno scorsi, un laboratorio che ha visto confrontarsi insieme teologi e pastori per l’elaborazione di un documento che esprima programmaticamente le linee di una teologia dal Mediterraneo: i suoi tratti peculiari, il metodo, il contributo che da essa può venire alle chiese mediterranee e alla costruzione di un Mediterraneo di pace. Nell’ambito di questa riflessione è emersa con forza l’idea di una teologia non neutrale, che sappia contribuire a leggere quanto accade con spirito critico e profetico alla luce del Vangelo. È nato così l’Appello per un Mediterraneo di pace sottoscritto dai teologi e pastori presenti.



 Il Mediterraneo grembo e promessa di una fraternità possibile 

«Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli» (Eb 13,1). 

Avete inteso che fu detto che questo mare è un mare infido, ma non è così. 
Avete inteso che fu detto che questo mare è un mare di morte, ma non deve essere così. 
Avete inteso che fu detto che questo mare è un mare di pochi, ma non può essere così. 

       Dinanzi all’ennesima strage che si è consumata nelle acque del Mediterraneo, come teologi e teologhe provenienti da diverse sponde del Mediterraneo, non possiamo tacere. 

         Ci sentiamo provocati a prendere posizione rispetto a questo racconto di morti, di respingimenti, di tragiche disuguaglianze. Siamo convinti che una narrazione diversa del Mediterraneo debba essere cercata. 

          Questo Mediterraneo, i suoi volti, le sue storie, le grida che salgono da questo mare, ci interpellano. 
                La teologia si pone con uno sguardo di speranza, che non si allontana dalla tomba, dalle tombe che questo mare rappresenta, ma prova a interpretarle: tra memoria e profezia. 
                Questo significa, per noi, metterci in ascolto. In ascolto di Dio, fino a sentire con Lui il grido di questi popoli; in ascolto del grido di questi popoli fino a respirarvi la volontà a cui Dio ci chiama, come credenti e come esseri umani. Come ci ha indicato il Concilio Vaticano II, il genere umano vive oggi un periodo nuovo della sua storia: una vera trasformazione socioculturale, profonde mutazioni, interrogativi che toccano il senso dell’umano accanto ad aspirazioni sempre più universali e che chiedono al pensiero credente di scrutare in tali vicende i segni dei tempi interpretandoli alla luce del Vangelo (cf GS). 
                 Sentiamo l’urgenza di una teologia capace di accogliere l’istanza profetica racchiusa nel grido di dolore e nelle richieste di giustizia che giungono dai tanti naufraghi della storia: da coloro che lasciano i loro paesi impoveriti e devastati dai conflitti alimentati dagli interessi dei potenti del mondo; da quanti sono sfruttati e umiliati nella loro dignità; da quelli che fuggono dalla fame prodotta anche dai cambiamenti climatici; ma anche l’istanza racchiusa nel grido della terra e di un mare sempre più stravolti da una economia predatoria. 
             Sappiamo di dover partire da questo ascolto: dal pianto e dal silenzio delle storie dei sommersi e non salvati, dalle voci di chi accoglie o rifiuta in questo perdersi delle frontiere anch’esse in camino.              Vogliamo porci dinanzi a tutto questo con lo stile di una teologia umile che non dà risposte preconfezionate, ma si lascia abitare dalle provocazioni di questo mare. 

            Ed è proprio la categoria del naufragio che può aiutarci a reinterpretare il Mediterraneo a dare vita a nuove narrazioni. 
            Con i tanti che vedono naufragare la loro speranza di una vita migliore, il loro diritto alla libertà, naufraghiamo anche noi e la nostra umanità. Siamo dentro un naufragio di civiltà. Tutti noi siamo i naufraghi (tutti e non solo alcuni) e questo già spezza le frontiere che vorremmo irrigidire.
           Il Mediterraneo è luogo di naufragi. Ma nella speranza scampata alla disperazione dei migranti che atterrano sulle nostre coste, nei loro occhi che cercano e chiedono salvezza e futuro, proprio lì e già li possiamo scorgere i segni del Regno che anche noi cerchiamo. La speranza arriva dall'altro, quell'altro che crediamo di dover essere noi ad accogliere, e che invece forse ci sta salvando. 
          La profezia che sale dai tanti drammi del Mediterraneo chiede che si ritrovi l’identità più profonda di questo mare dai confini mobili, impossibile da racchiudere in una definizione, in una prospettiva culturale, che non può essere di pochi ma è dei tanti che su di esso si affacciano, mare “nostro” in tutte le lingue dei popoli del Mediterraneo.
        Spazio di interconnessioni, incrocio di rotte, il Mediterraneo testimonia la fecondità della contaminazione che è generativa delle specificità culturali. Non esiste una identità culturale pura: è questo che il Mediterraneo racconta. 

             L’accoglienza dell’altro è allora un atto di giustizia e di riconoscimento di ciò che siamo in questo mare nostro, mare del meticciato. L’istanza profetica è nell’ospitalità che si fa paradigma culturale e di pensiero, criterio di vita e di azione sociale. Riconoscere l’altro, le nostre differenze, le nostre contaminazioni non può essere considerata una scelta opzionale. In questo riconoscimento c’è la nostra umanità, ma anche la stessa dinamica della Rivelazione: Dio è dialogo e il dialogo è luogo di Dio. 
            Sentiamo di dover chiedere perdono per le chiusure giustificate in nome della fede, per i conflitti sostenuti da ragioni religiose, per la mancanza di coraggio nella denuncia dei mali provocati da sistemi ideologici e di potere. Vorremmo lasciarci istruire, piuttosto, dai vissuti di tante comunità che si sono lasciate rinnovare e convertire dall’accoglienza dello straniero, che hanno ritrovato il senso vivo della loro fede facendosi accoglienti della fede dell’altro. 
         La teologia ha bisogno di ripartire dai vissuti, perché è lì che possiamo riconoscere l’azione rivelatrice e innovatrice dello Spirito: «ecco io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Isaia 43,19; cf Ap 21,5). Nei naufragi come nell’accoglienza, il Mediterraneo racconta la promessa di una fraternità possibile. Da tomba può tornare ad essere grembo, grembo di speranza. È la forza del mistero pasquale che chiede di trasformarsi in responsabilità per la storia. 

Facoltà Teologica Pugliese,
Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale,
Institut Catholique de la Méditerranée - Marseille 
Gruppo di ricerca “Il Mediterraneo come luogo teologico”

Albano Emmanuel Bergamo Antonio Caputo Annalisa Carucci Massimiliano Castelli Francesco Castello Mons. Gaetano Chocholski Patrice Cibelli Edoardo Copertino Giorgio Nicola Cornacchia Mons. Domenico de Santis Luca De Simone Giuseppina Di Pilato Vincenzo D’Onghia Nicola Durand Marie -Laure Favale Antonio Luigi Favale Mons. Giuseppe Giordano Donato Guglielmi Giuseppe Hamza Colette Iannuzzi Mons. Sabino Impellizzeri Vito Intini Mons. Giovanni Lacerenza Gianpaolo Lattanzio Antonio Lieggi Jean Paul Lorefice Mons. Corrado Lorusso Giacomo Lotti Luciano Maggese Grazia Manco Giovanni Mansi Mons. Luigi Martignano Francesco Massaro Roberto Matta Michele Mele Salvatore Mignozzi Vito Mirizzi Domenico Maria Mogavero Mons. Domenico Moscone Mons. Franco Nacci Giorgio Neri Mons. Francesco Nigro Francesco Nugnes Armando Palmentura Eleonora Petrache Ana Pinto Sebastiano Rubini Pasquale Salvatore Emilio Santoro Mons. Filippo Satriano Mons. Giuseppe Scaramuzzi Francesco Sembrano Lucio Soldo Nicola Staropoli Anna Taneburgo Pier Giorgio Tavolaro Gianpiero Torcivia Carmelo Violante Nicola Zaccaria Francesco

Vito Mancuso CHI SI ACCONTENTA DESIDERA

Vito Mancuso
CHI SI ACCONTENTA DESIDERA


Che rapporto c’è tra essere contento e accontentarsi? Nell’accezione comune essere contento significa aver vinto; accontentarsi, invece, significa non aver vinto e accettare il risultato. Se ho vinto, sono contento; se non ho vinto, mi accontento. Di cosa? Di non aver perso, o di aver perso con onore. Dietro l’accontentarsi sembra quindi ci sia sempre una mancata vittoria, una non piena realizzazione del desiderio, che, non del tutto o per nulla contento, mestamente si accontenta. Questo è quanto rivela il linguaggio ordinario, ma le cose stanno veramente così? Sono celebri le parole che la regina malvagia rivolgeva allo specchio per ottenerne l’oracolo: “Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?”. Ecco, anzitutto ci sono le brame: gli inquieti desideri che ci agitano come canne al vento, che non di rado non ci fanno dormire, che suscitano avidità, cupidigia, bramosia, che ci portano ad arraffare con le mani e con gli occhi, e che, quanto al loro contenuto, sono abbastanza prevedibili poiché indirizzati pressoché sempre alla seguente consacrata triade: ricchezza, piacere, potere. Ma cosa avviene a chi è in balìa delle brame? Avviene che ottiene una cosa o una carica o una persona ed è contento, ma, poco dopo, vede un’altra cosa, un’altra carica e un’altra persona e non è più contento di quello che ha, ma si sente assalire da un’inquietudine incontinente che, ben lungi dal farlo accontentare di quello che ha, inizia a fargli desiderare le novità che non ha. Ottenutele anche questa volta (comprate le scarpe di moda, avuta l’ennesima nuova relazione, acquisita una quota maggiore di visibilità), ecco comparire poco dopo altre novità che scalzano le precedenti e fanno nuovamente divampare la fiamma incontinente e consumante del desiderio. Si può passare tutta la vita così: mai accontentati, quindi mai realmente contenti. 

Il termine contento viene dal participio passato del verbo latino continere, che significa “contenere”, nel senso di “avere in sé”. Da qui anche il termine “contenuto”, che come sostantivo significa il messaggio, per esempio il contenuto di un film, e come aggettivo rimanda a uno stile moderato e sobrio, per esempio un piacere contenuto. L’etimologia ci insegna quindi che, esattamente al contrario del linguaggio ordinario, “contento” in realtà significa “accontentato”. Da qui la saggezza depositata nel noto proverbio dall’esperienza popolare: “Chi si accontenta gode”. Dicendo “gode”, il proverbio non rimanda all’esperienza effimera ed estemporanea del godimento che proviene dal piacere, ma a quella duratura e stabile del gaudio, cioè della gioia come permanente letizia. 

Il risultato complessivo dell’analisi fin qui condotta è quindi il seguente: ben lungi dall’essere il contrassegno della sconfitta, l’accontentarsi indica l’avvenuta vittoria nella partita più importante di tutte, quella contro se stessi. 

Ma ora occorre prestare la più grande attenzione, perché ho toccato un punto decisivo e delicatissimo, a proposito del quale vorrei essere il più chiaro possibile. Intendo dire che c’è un modo di lottare contro se stessi e contro il proprio desiderio che a mio avviso è del tutto negativo, direi patologico, e che quindi va evitato con cura. Mi riferisco a quella lotta che rispetto al proprio desidero ha come obiettivo l’estinzione, che intende sopprimere l’io e le sue passioni, e che tradizionalmente è detta “mortificazione”. Secondo questa visione accontentarsi significa rassegnarsi, mentre a mio avviso vi è una differenza decisiva tra chi è accontentato e chi è rassegnato. 

I desideri infatti non sono solo brame di cose o di persone, sono anche aspirazioni che ci spingono verso i più nobili ideali, quali giustizia, cura, conoscenza, verità, libertà. La tensione del desiderio che non si accontenta dello status quo può essere intesa come pericolo da evitare, ma può essere vissuta anche come sprone verso quanto ci innalza e come stimolo contro l’ingiustizia. Che cos’è l’amore per lo studio, per la ricerca, per l’impegno sociale, per la giustizia, se non appunto desiderio? E prima ancora, che cos’è in se stesso l’amore? L’amore è essere contenti di non accontentarsi, perché sempre un po’ fuori di sé e quindi esposti all’instabilità della relazione. 

Non solo. Ho sottolineato la grande differenza tra accontentarsi e rassegnarsi perché intendo affermare che, se e quando si comprende di essere in trappola, occorre sapersi ribellare, e, ben lungi dal rassegnarsi alla prigionia, iniziare a lottare conducendo la propria “guerra di indipendenza” o “di liberazione” personale. 

Dante fa dichiarare così a Brunetto Latini, il suo maestro di un tempo: “Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto” (Inferno, XV, 55-56). Il carburante che ci consente di seguire la stella si chiama desiderio, ma è un carburante esplosivo che va trattato con saggezza, comprendendo soprattutto che si tratta di “seguire”, non di conquistare o dominare, ma al contempo di seguire la propria “stella”, non un ideale e una persona che poi si rivelano un buco nero. Le esperienze più decisive della vita sono quelle che avvengono al passivo, quando qualcosa più grande e più importante di noi ci afferra e ci conquista, ma questa conquista è buona se crea in noi attività e libertà, non se ci rende passivi e prigionieri. Ecco quindi il vero senso di accontentarsi: essere contenti di essere al servizio di qualcosa più grande di noi, di seguire la nostra stella, e non ogni nuova stella, trovando in questo seguire la nostra vera e profonda gioia di vivere. 

Riassumo dicendo che vi sono a mio avviso tre possibili posizioni riguardo al nostro desiderio: incremento, estinzione, orientamento. La prima posizione consiste nell’incrementare il desiderio per avere sempre più desideri, quindi nel non accontentarsi di nulla, mai. La seconda consiste nell’estinguere la sorgente dei desideri fino a non averne più e quindi accontentarsi sempre di tutto, anche delle situazioni che si rivelano prigioni. La terza consiste nell’orientare i diversi desideri in modo coerente fino a ottenere un solo fondamentale desiderio, quindi ad accontentarsi nel senso più radicale di essere contenti, perché non più in balìa delle fiamme incontinenti dell’imperversare delle brame. L’accontentarsi, secondo quest’ultima saggia prospettiva, è la garanzia per la vera contentezza che proviene dalla stabilità di direzione del desiderio. 

Concludo con queste parole di Leopardi nel suo Zibaldone: “L’uomo che non desidera per se stesso e non ama se stesso non è buono per gli altri […] La noncuranza vera e pacifica di se stesso è noncuranza di tutto”. Ciò di cui non ci dobbiamo mai accontentare è il lavoro interiore su noi stessi.

Vito Mancuso, su Specchio domenica 18 giugno 2023
(fonte: sito dell'autore)


giovedì 29 giugno 2023

Papa Francesco: la Chiesa ha bisogno di annunciare come dell’ossigeno per respirare ... oggi abbiamo bisogno di persone vere come Pietro e Paolo, non di superuomini - Omelia e Angelus Solennità Santi Pietro e Paolo (Testo e video)

Papa Francesco:
la Chiesa ha bisogno di annunciare 
come dell’ossigeno per respirare ...
oggi abbiamo bisogno di persone vere
 come Pietro e Paolo, non di superuomini
Omelia e Angelus
Solennità Santi Pietro e Paolo
(Testo e video)

29 giugno 2023


OMELIA


Pietro e Paolo, due Apostoli innamorati del Signore, due colonne della fede della Chiesa. E mentre contempliamo la loro vita, il Vangelo oggi ci viene incontro con la domanda che Gesù rivolge ai suoi: «Voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15). Questa è la domanda fondamentale, la più importante: chi è Gesù per me? Chi è Gesù nella mia vita? Vediamo come hanno risposto a questo interrogativo i due Apostoli.

La risposta di Pietro si potrebbe sintetizzare con una parola: sequela. Pietro ha vissuto nella sequela del Signore. Quando quel giorno, a Cesarea di Filippo, Gesù interrogò i discepoli, Pietro rispose con una bella professione di fede: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Una risposta impeccabile, precisa, puntuale, potremmo dire una perfetta risposta “da catechismo”. Ma quella risposta è frutto di un cammino: solo dopo aver vissuto l’affascinante avventura di seguire il Signore, dopo aver camminato con Lui e dietro a Lui per tanto tempo, Pietro arriva a quella maturità spirituale che lo porta, per grazia, per pura grazia, a una professione di fede così limpida.

Lo stesso evangelista Matteo, infatti, ci racconta che tutto era iniziato un giorno quando, lungo il mare di Galilea, Gesù era passato e lo aveva chiamato, insieme a suo fratello Andrea, «ed essi subito lasciarono le reti e lo seguirono» (Mt 4,20). Ha lasciato tutto, Pietro, per mettersi alla sequela del Signore. E il Vangelo sottolinea “subito”: Pietro non disse a Gesù che ci avrebbe pensato, non fece calcoli per vedere se gli convenisse, non accampò alibi per rimandare la decisione, ma lasciò le reti e lo seguì, senza chiedere in anticipo nessuna sicurezza. Avrebbe scoperto tutto di giorno in giorno, nella sequela, seguendo Gesù e camminando dietro a Lui. E non a caso le ultime parole riportate dai Vangeli che Gesù gli rivolge sono: «Tu seguimi» (Gv 21,22), cioè la sequela.

Pietro, dunque, ci dice che alla domanda “chi è Gesù per me?” non basta rispondere con una formula dottrinale impeccabile e nemmeno con un’idea che ci siamo fatti una volta per tutte. No. È mettendoci alla sequela del Signore che impariamo ogni giorno a conoscerlo; è diventando suoi discepoli e accogliendo la sua Parola che diventiamo suoi amici e facciamo l’esperienza del suo amore che ci trasforma. Anche per noi risuona quel “subito”: se possiamo rimandare tante cose nella vita, la sequela di Gesù non può essere rimandata; lì non si può esitare, non possiamo accampare scuse. E attenzione, perché alcune scuse sono travestite di spiritualità, come quando diciamo “non sono degno”, “non sono capace”, “cosa posso fare io?”. Questa è un’astuzia del diavolo, che ci ruba la fiducia nella grazia di Dio, facendoci credere che tutto dipenda dalle nostre capacità.

Distaccarci dalle nostre sicurezze – sicurezze terrene –, subito, e seguire Gesù ogni giorno: ecco la consegna che Pietro ci fa oggi, invitandoci a essere Chiesa-in-sequela. Chiesa-in-sequela. Chiesa che desidera essere discepola del Signore e umile ancella del Vangelo. Solo così sarà capace di dialogare con tutti e diventare luogo di accompagnamento, di vicinanza, di speranza per le donne e gli uomini del nostro tempo. Solo così, anche chi è più lontano e spesso ci guarda con diffidenza o indifferenza potrà finalmente riconoscere, con Papa Benedetto: «La Chiesa è il luogo d’incontro con il Figlio del Dio vivente e così è il luogo d’incontro tra di noi» (Omelia nella II Domenica di Avvento, 10 dicembre 2006).

E adesso veniamo all’Apostolo delle genti. Se la risposta di Pietro consisteva nella sequela, quella di Paolo è l’annuncio, l’annuncio del Vangelo. Anche per lui tutto iniziò per grazia, con l’iniziativa del Signore. Sulla via di Damasco, mentre portava avanti con fierezza la persecuzione dei cristiani, barricato nelle sue convinzioni religiose, gli venne incontro Gesù risorto e lo accecò con la sua luce, o meglio, grazie a quella luce Saulo si rese conto di quanto fosse cieco: chiuso nell’orgoglio della sua rigida osservanza, scopre in Gesù il compimento del mistero della salvezza. E, rispetto alla sublimità della conoscenza di Cristo, d’ora in poi considera tutte le sue sicurezze umane e religiose come “spazzatura” (cfr Fil 3,7-8). Così Paolo dedica la vita a percorrere terra e mare, città e villaggi, non curandosi di soffrire stenti e persecuzioni pur di annunciare Gesù Cristo. Guardando alla sua storia, sembra quasi che, più egli annuncia il Vangelo, più conosce Gesù. L’annuncio della Parola agli altri permette anche a lui di penetrare le profondità del mistero di Dio; lui, Paolo, che scrisse: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1 Cor 9,16); lui che confessa: «Per me il vivere è Cristo» (Fil 1,21).

Paolo, dunque, ci dice che alla domanda “chi è Gesù per me?” non si risponde con una religiosità intimista, che ci lascia tranquilli senza scalfirci con l’inquietudine di portare il Vangelo agli altri. L’Apostolo ci insegna che cresciamo nella fede e nella conoscenza del mistero di Cristo quanto più siamo suoi annunciatori e testimoni. E questo succede sempre: quando evangelizziamo, restiamo evangelizzati. É un’esperienza di tutti i giorni: quando evangelizziamo, restiamo evangelizzati. La Parola che portiamo agli altri torna a noi, perché nella misura in cui doniamo riceviamo molto di più (cfr Lc 6,38). E questo è necessario anche alla Chiesa oggi: mettere l’annuncio al centro. Essere una Chiesa che non si stanca di ripetersi: “Per me il vivere è Cristo” e “guai a me se non annuncio il Vangelo”. Una Chiesa che ha bisogno di annunciare come dell’ossigeno per respirare, che non può vivere senza trasmettere l’abbraccio dell’amore di Dio e la gioia del Vangelo.

Fratelli e sorelle, festeggiamo Pietro e Paolo. Essi hanno risposto alla domanda fondamentale della vita – chi è Gesù per me? – vivendo la sequela e annunciando il Vangelo. È bello crescere come Chiesa della sequela, come Chiesa umile che non dà mai per scontata la ricerca del Signore. È bello se diventiamo una Chiesa al tempo stesso estroversa, che non trova la sua gioia nelle cose del mondo, ma nell’annuncio del Vangelo al mondo, per seminare nei cuori delle persone la domanda su Dio. Portare ovunque, con umiltà e gioia, il Signore Gesù: nella nostra città di Roma, nelle nostre famiglie, nelle relazioni e nei quartieri, nella società civile, nella Chiesa, nella politica, nel mondo intero, specialmente là dove si annidano povertà, degrado, emarginazione.

E, oggi, mentre alcuni nostri fratelli Arcivescovi ricevono il Pallio, segno della comunione con la Chiesa di Roma, vorrei dire loro: siate apostoli come Pietro e Paolo. Siate discepoli nella sequela e apostoli nell’annuncio, portate la bellezza del Vangelo ovunque, insieme a tutto il Popolo di Dio. E infine, desidero rivolgere il mio saluto affettuoso alla Delegazione del Patriarcato Ecumenico, qui inviata dal carissimo Fratello Sua Santità Bartolomeo. Grazie per la vostra presenza, grazie: andiamo avanti insieme, andiamo avanti insieme nella sequela e nell’annuncio della Parola, crescendo nella fraternità. Pietro e Paolo ci accompagnino e intercedano per tutti noi.

GUARDA IL VIDEO
Omelia integrale


ANGELUS

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, Solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, nel Vangelo Gesù dice a Simone, uno dei Dodici: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18). Pietro è un nome che ha più significati: può voler dire roccia, pietra o semplicemente sasso. Ed effettivamente, se guardiamo alla vita di Pietro, troviamo un po’ tutti e tre questi aspetti del suo nome.

Pietro è una roccia: in molti momenti è forte e saldo, genuino e generoso. Lascia tutto per seguire Gesù (cfr Lc 5,11), lo riconosce Cristo, Figlio del Dio vivente (Mt 16,16), si tuffa in mare per andare veloce incontro al Risorto (cfr Gv 21,7). Poi, con franchezza e coraggio, annuncia Gesù nel Tempio, prima e dopo essere stato arrestato e flagellato (cfr At 3,12-26; 5,25-42). La tradizione ci parla anche della sua fermezza di fronte al martirio, che avvenne proprio qui (cfr Clemente Romano, Lettera ai Corinzi, V,4).

Pietro però è anche una pietra: è una roccia e anche una pietra, adatta per offrire appoggio agli altri: una pietra che, fondata su Cristo, fa da sostegno ai fratelli per la costruzione della Chiesa (cfr 1 Pt 2,4-8; Ef 2,19-22). Anche questo troviamo nella sua vita: risponde alla chiamata di Gesù assieme ad Andrea, suo fratello, Giacomo e Giovanni (cfr Mt 4,18-22); conferma la volontà degli Apostoli di seguire il Signore (cfr Gv 6,68); si prende cura di chi soffre (cfr At 3,6), promuove e incoraggia il comune annuncio del Vangelo (cfr At 15,7-11). È “pietra”, è punto di riferimento affidabile per tutta la comunità.

Pietro è roccia, è pietra e anche sasso: emerge spesso la sua piccolezza. A volte non capisce quello che Gesù sta facendo (cfr Mc 8,32-33; Gv 13,6-9); davanti al suo arresto si lascia prendere dalla paura e lo rinnega, poi si pente e piange amaramente (cfr Lc 22,54-62), ma non trova il coraggio di stare sotto la croce. Si rinchiude con gli altri nel cenacolo, per timore di essere catturato (cfr Gv 20,19). Ad Antiochia si mostra imbarazzato a stare con i pagani convertiti – e Paolo lo richiama alla coerenza su questo (cfr Gal 2,11-14) –; infine, secondo la tradizione del Quo vadis, tenta di fuggire di fronte al martirio, ma incontra Gesù sulla strada e ritrova il coraggio di tornare indietro.

In Pietro c’è tutto questo: la forza della roccia, l’affidabilità della pietra e la piccolezza di un semplice sasso. Non è un superuomo: è un uomo come noi, come ognuno di noi, che dice “sì” a Gesù con generosità nella sua imperfezione. Ma proprio così in Lui – come in Paolo e in tutti i santi – appare che è Dio a renderci forti con la sua grazia, a unirci con la sua carità e a perdonarci con la sua misericordia. Ed è con questa umanità vera che lo Spirito forma la Chiesa. Pietro e Paolo sono state persone vere, e noi, oggi più che mai, abbiamo bisogno di persone vere.

Adesso, guardiamoci dentro e facciamoci qualche domanda a partire dalla roccia, dalla pietra e dal sasso. Dalla roccia: c’è in noi l’ardore, lo zelo, la passione per il Signore e per il Vangelo, o è qualcosa che si sgretola facilmente? E poi, siamo pietre, non d’inciampo ma di costruzione per la Chiesa? Lavoriamo per l’unità, ci interessiamo degli altri, specialmente dei più deboli? Infine, pensando al sasso: siamo consapevoli della nostra piccolezza? E soprattutto: nelle debolezze ci affidiamo al Signore, che compie grandi cose con chi è umile e sincero?

Maria, Regina degli Apostoli, ci aiuti a imitare la forza, la generosità e l’umiltà dei Santi Pietro e Paolo.

__________________________________________

Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle,

rivolgo un caloroso saluto e un augurio speciale ai romani, nella festa dei santi patroni Pietro e Paolo! Ringrazio la Pro Loco di Roma, che per l’occasione ha organizzato l’infiorata storica, realizzata dai Maestri infioratori di varie Pro Loco d’Italia e giunta alla decima edizione: la sto guardando da qui… Sono stati allestiti dei bellissimi tappeti floreali ispirati alla pace e questo ci dice di non stancarci di pregare per la pace, specialmente per il popolo ucraino, che è ogni giorno nel mio cuore.

Rinnovo il mio saluto alla Delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, che ha partecipato alla festa odierna, e mando un abbraccio al mio caro Fratello, Sua Santità Bartolomeo.

Saluto tutti voi, a cominciare dai fedeli venuti per festeggiare gli Arcivescovi Metropoliti, per i quali stamani ho benedetto i Palli; e poi i gruppi provenienti da Brasile, Croazia, Messico, Nicaragua, Polonia, Stati Uniti d’America e da varie località italiane.

A tutti auguro buona festa e, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

GUARDA IL VIDEO
Angelus integrale

Siete alleati del sogno di Dio - Tonio Dell'Olio

Siete alleati del sogno di Dio
Tonio Dell'Olio




Quando ho letto il discorso che Papa Francesco ha rivolto agli artisti nella Cappella Sistina il 23 giugno scorso, ho pensato che avrei dovuto umilmente prelevarne qualche scheggia e rilanciarla in questa rubrica.

Dopo che ho cominciato a farlo, mi sono accorto che praticamente la stavo ricopiando. Tanto è bella, pregnante e profonda, quella riflessione, che non potrei preferirne un'espressione a un'altra. Eppure qualche parola che più di altre mi spiacerebbe proprio passasse più banalmente inosservata e fosse destinata al "moggio" invece che al "lucerniere", c'è. "Siete alleati del sogno di Dio! Siete occhi che guardano e che sognano. Non basta soltanto guardare, bisogna anche sognare. Diceva uno scrittore latinoamericano che noi, le persone, abbiamo due occhi: uno per guardare quello che vediamo e un altro per guardare quello che sogniamo". Non è questo forse l'auspicio o l'augurio o l'impegno col quale dovremmo concimare i nostri giorni? Ho scritto proprio "concimare" che non è semplice anagramma di "cominciare" barando su una "i". Il mondo intero ha bisogno di tali artisti. Anche se non scolpiscono, non scrivono poesie, non fotografano, non dirigono film né suonano il violino!

(Fonte: Mosaico dei giorni del 28 giugno 2023)

Per approfondire guarda il post già pubblicato:
- Papa Francesco agli artisti: "Siete alleati del sogno di Dio! Siete occhi che guardano e che sognano." (commento, testo e video)


mercoledì 28 giugno 2023

"Non c’è santità se, in un modo o nell’altro, non c’è la cura per i poveri, per i bisognosi, per coloro che sono un po’ al margine della società" - Papa Francesco - Catechesi udienza generale del 28 giugno 2023 (Testo e video)

 "Non c’è santità se, 
in un modo o nell’altro, 
non c’è la cura per i poveri,
per i bisognosi, 
per coloro che sono un po’ 
al margine della società"
Papa Francesco 

Catechesi udienza generale 
del 28 giugno 2023



Catechesi. La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del credente.

 17. Testimoni: Santa Mary MacKillop

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi dobbiamo avere un po’ di pazienza, con questo caldo! Grazie per essere venuti con questo caldo, con questo sole, grazie tante della vostra visita!

In questa serie di catechesi sullo zelo apostolico, stiamo incontrando alcune figure esemplari di uomini e donne di ogni tempo e luogo, che hanno dato la vita per il Vangelo. Oggi andiamo lontano, in Oceania, un continente fatto di moltissime isole, grandi e piccole. La fede in Cristo, che tanti emigrati europei hanno portato in quelle terre, si è presto radicata e ha prodotto frutti abbondanti (cfr Esort. ap. postsin. Ecclesia in Oceania, 6). Tra questi c’è una religiosa straordinaria, Santa Mary MacKillop (1842-1909), fondatrice delle Suore di San Giuseppe del Sacro Cuore, che ha dedicato la sua vita alla formazione intellettuale e religiosa dei poveri nell’Australia rurale.

Mary MacKillop nasce nei pressi di Melbourne da genitori emigrati in Australia dalla Scozia. Da ragazza, si sentì chiamata da Dio a servirlo e testimoniarlo non solo con le parole, ma soprattutto con una vita trasformata dalla presenza di Dio (cfr Evangelii gaudium, 259). Come Maria Maddalena, che per prima incontrò Gesù risorto e fu mandata da Lui a portare l’annuncio ai discepoli, Mary era convinta di essere lei pure inviata a diffondere la Buona Notizia e ad attrarre altri all’incontro con il Dio vivente.

Leggendo con saggezza i segni dei tempi, ella capì che per lei il modo migliore di farlo era attraverso l’educazione dei giovani, nella consapevolezza che l’educazione cattolica è una forma di evangelizzazione. È una grande forma di evangelizzazione. Così, se possiamo dire che «ciascun santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 19), Mary MacKillop lo è stata soprattutto attraverso la fondazione di scuole.

Una caratteristica essenziale del suo zelo per il Vangelo consisteva nel prendersi cura dei poveri e degli emarginati. E questo è molto importante: nella strada della santità, che è la strada cristiana, i poveri e gli emarginati sono protagonisti e una persona non può andare avanti nella santità se non si dedica anche a loro, in un modo o nell’altro. Essi, che hanno bisogno dell’aiuto del Signore, portano la presenza del Signore. Una volta ho letto una frase che mi ha colpito; diceva così: “Il protagonista della storia è il mendicante: i mendicanti sono coloro che attirano l’attenzione sull’ingiustizia, che è la grande povertà nel mondo”; si spendono i soldi per fabbricare armi e non per produrre pasti... E non dimenticate: non c’è santità se, in un modo o nell’altro, non c’è la cura per i poveri, per i bisognosi, per coloro che sono un po’ al margine della società. Questo prendersi cura dei poveri e degli emarginati spingeva Mary ad andare là dove altri non volevano o non potevano andare. Il 19 marzo 1866, festa di San Giuseppe, aprì la prima scuola in un piccolo sobborgo in Sud Australia. Ne seguirono tante altre che lei e le sue consorelle fondarono nelle comunità rurali in Australia e in Nuova Zelanda. Si moltiplicarono, perché lo zelo apostolico fa così: moltiplica le opere.

Mary MacKillop era convinta che lo scopo dell’educazione è lo sviluppo integrale della persona sia come individuo sia come membro della comunità; e che questo richiede sapienza, pazienza e carità da parte di ogni insegnante. L’educazione in effetti non consiste nel riempire la testa di idee: no, non è solo questo. In cosa consiste l’educazione? Nell’accompagnare e incoraggiare gli studenti nel cammino di crescita umana e spirituale, mostrando loro quanto l’amicizia con Gesù Risorto dilati il cuore e renda la vita più umana. Educare è aiutare a pensare bene: a sentire bene – il linguaggio del cuore – e a fare bene – il linguaggio delle mani. Questa visione è pienamente attuale oggi, quando sentiamo il bisogno di un “patto educativo” capace di unire le famiglie, le scuole e l’intera società.

Lo zelo di Mary MacKillop per la diffusione del Vangelo tra i poveri la condusse anche a intraprendere diverse altre opere di carità, a partire della “Casa della Provvidenza” aperta ad Adelaide per accogliere anziani e fanciulli abbandonati. Mary aveva molta fede nella Provvidenza di Dio: era sempre fiduciosa che in qualsiasi situazione Dio provvede. Ma questo non le risparmiava le ansie e le difficoltà derivanti dal suo apostolato, e Maria ne aveva buone ragioni: doveva pagare i conti, trattare con i vescovi e i preti locali, gestire le scuole e curare la formazione professionale e spirituale delle sue Suore; e, più tardi, i problemi di salute. Tuttavia, in tutto questo, rimaneva tranquilla, portando con pazienza la croce che è parte integrante della missione.

In una occasione, nella festa dell’Esaltazione della Croce, Mary disse a una delle sue consorelle: “Figlia mia, da molti anni ho imparato ad amare la Croce”. Non si è arresa nei momenti di prova e di oscurità, quando la sua gioia era smorzata dall’opposizione e dal rifiuto. Vedete: tutti i santi hanno trovato opposizioni, anche all’interno della Chiesa. È curioso, questo. Anche lei ne ha avute. Rimaneva convinta che, anche quando il Signore le assegnava «il pane dell’afflizione e l’acqua della tribolazione» (Is 30,20), lo stesso Signore avrebbe presto risposto al suo grido e l’avrebbe circondata con la sua grazia. Questo è il segreto dello zelo apostolico: il rapporto continuo con il Signore.

Fratelli e sorelle, il discepolato missionario di Santa Mary MacKillop, la sua risposta creativa ai bisogni della Chiesa del suo tempo, il suo impegno per la formazione integrale dei giovani ispirino oggi tutti noi, chiamati ad essere lievito di Vangelo nelle nostre società in rapida trasformazione. 
Il suo esempio e la sua intercessione sostengano il lavoro quotidiano dei genitori, degli insegnanti, dei catechisti e di tutti gli educatori, per il bene dei giovani e per un futuro più umano e pieno di speranza.


GUARDA IL VIDEO
Catechesi integrale

_______________________________________________

Saluti
...

Domenica scorsa è stata beatificata Madre Elisa Martinez presso il Santuario di Santa Maria di Leuca, che dà il nome alla Congregazione da lei fondata. È bello e possiamo fare nostro il suo proposito: “Dilatare il cuore per abbracciare tutte le creature sparse in ogni angolo della Terra, specialmente le più bisognose ed emarginate”. Vi invito a fare un applauso alla nuova beata!

Saluto cordialmente i pellegrini di lingua italiana. In particolare, i religiosi della Congregazione della Risurrezione, i Figli di Santa Maria Immacolata, le Suore Pastorelle, le Pie Discepole del Divin Maestro e le Suore di Carità di Nostra Signora del Buono e Perpetuo Soccorso, che celebrano i rispettivi Capitoli generali.

Sono lieto di accogliere le Ancelle Missionarie del Santissimo Sacramento, i fedeli della parrocchia di Santa Maria della Carità nella Diocesi di Sorrento-Castellammare e i bambini partecipanti al progetto “I Love sport” di Reggio Calabria.

Rivolgo un particolare pensiero ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. Domani celebreremo la solennità dei Santi Pietro e Paolo: l’esempio e la protezione di questi due Apostoli sostengano ciascuno di noi nella sequela di Cristo. Alla loro intercessione affidiamo la cara popolazione Ucraina, perché presto trovi la pace: si soffre tanto, in Ucraina, non dimentichiamolo. 

A tutti la mia benedizione.


GUARDA IL VIDEO
Udienza integrale



Giuseppe Savagnone I nostri giovani privati della speranza

Giuseppe Savagnone
I nostri giovani privati della speranza

Foto di Devin Avery su Unsplash

Una tragedia

Non si è ancora spenta l’ondata di dolore e di indignazione per la tragedia di Casal Palocco, in cui un bimbo di cinque anni, Manuel, ha perso la vita a causa di una assurda sfida di cinque giovanissimi youtuber, tutti ventenni, impegnati a guidare, su un Suv preso a nolo, per 50 ore continuative, solo per soddisfare i loro follower e aumentare il numero dei like. Con l’aiuto di droghe, visto che il conducente è risultato positivo ai cannabinoidi.

A rendere ancora più agghiacciante l’episodio è stato il fatto che, dopo il fatale impatto, che ha distrutto la Smart su cui viaggiava il bambino, gli occupanti del Suv, invece di dare segni di disperazione di pentimento per la loro follia, hanno continuato a filmare con i loro smartphone la scena del disastro che avevano provocato, sempre nell’intento di postare sul loro gruppo YouTube, “The Borderline”, immagini in grado di colpire i loro fan e accrescerne i numero.

L’analisi dello psicologo

Al di là dello shock e delle reazioni emotive immediate – la folla presente ha quasi tentato di linciare i cinque ragazzi -, non sono mancate riflessioni più ponderate sul retroterra psicologico che questo dramma evidenzia.

Giuseppe Lavenia, psicoterapeuta e presidente dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche e Cyberbullismo, ha scritto in proposito: «I giovani sono spesso spinti a cercare sempre più estremi per ottenere l’approvazione e l’attenzione online», fino «a sganciarsi dalla realtà», nella ricerca del «superamento del limite, di cui manca sempre più il senso (…), per sentirsi qualcuno, anche solo nel mondo etereo della rete».

E concludeva: «La famiglia dei ragazzi influencer non può essere considerata l’unica responsabile, ma tutta la società deve assumersi il compito di prevenire episodi simili. È fondamentale promuovere una cultura di responsabilità e bilanciamento nell’uso dei social media. È necessario adottare approcci educativi che incoraggino una sana autostima indipendente dalla quantità di like o follower».

Sagge parole, del tutto condivisibili, che mettono in luce come il vero problema non sia dei giovani, ma degli adulti, e possa essere risolto solo mediante l’educazione. La tanto spesso evocata “emergenza educativa” non colpisce le nuove generazioni – che ovviamente non possono porsi il compito di studiare le strategie più appropriate per la propria formazione – , ma le loro famiglie, la scuola, la Chiesa, l’intera società insomma gli educatori.

Sono loro che non riescono più a far fronte a un clima in cui «i giovani sono spesso spinti a cercare sempre più estremi per ottenere l’approvazione e l’attenzione online», perdendo il senso della realtà e del limite. Ed è vero che anche che sono loro a dover «adottare approcci educativi che incoraggino una sana autostima indipendente dalla quantità di like o follower».

Il problema del senso perduto

Eppure in questa analisi – che è dichiaratamente centrata sull’aspetto psicologico – manca qualcosa di decisivo per comprendere ciò che sta accadendo ai nostri giovani. Qualcosa che è necessario perché una persona che si affaccia alla vita possa farlo in modo psicologicamente equilibrato. Manca il riferimento alla dimensione valoriale e, in ultima istanza, al problema del senso, nella duplice accezione di “significato” e di “direzione” verso cui andare.

È su questo terreno etico ed esistenziale, prima di tutto, che si gioca la possibilità di superare l’emergenza educativa. Le nuove generazioni sono sottoposte, è vero, a particolari pressioni psicologiche, legate anche all’avvento della nuova cultura mediatica e alle mutate condizioni di vita, ma in ogni epoca è stato inevitabile un margine di spaesamento dei figli rispetto al mondo dei loro padri, in cui si trovavano gettati senza alcuna preparazione.

Solo che in passato è stato loro offerto anche un orizzonte di valori – più o meno autentici, più o meno condivisibili – che davano senso alle loro scelte. Così, nel secolo scorso, ci sono stati studenti che, dopo Caporetto, hanno abbandonato i banchi di scuola per partire volontari e rischiare la vita in difesa della Patria. E tanti giovani, qualche decennio più tardi, si sono trovati a combattere nelle file dei partigiani, contro i nazisti, in nome della libertà.

E, dopo la guerra, lo scontro ideologico tra cattolici e comunisti è stato caratterizzato da un forte coinvolgimento ideale. C’erano delle convinzioni profonde, delle scelte esistenziali, che non riguardavano solo la politica, ma determinavano scale di valori e appartenenze totalizzanti, emblematicamente rappresentate da Guareschi nelle figure di don Camillo e Peppone. Era la Democrazia cristiana di De Gasperi e di Dossetti, era il Partito comunista di Togliatti e di Berlinguer, criticabilissimi, ma capaci entrambi di polarizzare intellettuali e gente comune intorno a un progetto culturale ed etico in cui valeva la pena, ai loro occhi, di investire le loro speranze e le loro energie.

E i giovani rispondevano a queste proposte con entusiasmo. Gioventù cattolica e gioventù comunista si fronteggiavano discutendo di modelli di libertà e di società e sostenendo le rispettive formazioni politiche, in accese campagne elettorali, con la consapevolezza di stare giocando una partita decisiva per il nostro paese.

Il Sessantotto ha costituito un forte scossone nei confronti dei precedenti assetti istituzionali e partitici, ma lo ha fatto comunque in nome di una rivoluzione – anch’essa ovviamente discutibile – che aveva una forte impronta ideale ed etica. Il risultato immediato non è stato, comunque, una demotivazione nei confronti degli ideali del bene comune. Non era un’anti-politica, ma un modo diverso di intenderla. Ancora nel 1976 il 93,49% degli italiani si recava alle urne.

Una profonda crisi etica tra pubblico e privato

Poi c’è stato il crollo inglorioso della Prima Repubblica, sotto i colpi di Tangentopoli, e l’avvento della Seconda, con la discesa in campo di Berlusconi, la crisi dei partiti tradizionali e delle loro ideologie e l’avvento di forme sempre più esplicite di populismo, di cui già il “Cavaliere”, con i suoi “contratti con gli italiani”, è stato l’alfiere e che ha poi trovato nella figura di Grillo e nella progressiva affermazione dei 5stelle la sua apoteosi.

In questa nuova stagione, nata con la promessa di purificare la politica, in realtà la corruzione e le violazioni della legalità non sono affatto diminuite, anzi – stando ai rapporti ufficiali – si sono moltiplicate. Ma, mentre prima già le sole indagini della magistratura su di esse erano state considerate – alla luce di una visione etica dominante – motivo di grave discredito per un uomo politico, nel nuovo clima di diffidenza verso le istituzioni e i loro rappresentanti, giudici compresi, sono diventate al contrario motivo di sospetto e di accuse nei confronti di chi le promuoveva. E i sospettati – perfino i condannati – vittime di una assurda persecuzione.

Alle esagerazioni di un legalismo che, al tempo di Tangentopoli, aveva fatto diventare i magistrati i veri arbitri della politica, è subentrata, a livello pubblico, una liberazione collettiva da ogni limite etico, che rende possibile proprio in questi giorni alla presidente di consiglio e al guardasigilli di giustificare – sulle orme dell’ostilità di Berlusconi nei confronti delle tasse – la diffidenza nei confronti del sistema tributario e, al limite, l’evasione fiscale, costringendo il presidente della Repubblica a intervenire per sottolineare la loro imprescindibile funzione sociale.

Ma la maggiore novità del nuovo clima creatosi in Italia con la Seconda Repubblica è stata la scomparsa dei grandi orizzonti intellettuali offerti dal cattolicesimo politico e dal marxismo, che ancora proponevano obiettivi (qui non discuto se veri o falsi) di ampio respiro, e il degenerare di quello liberale, da sempre alternativo agli altri due, in un libertarismo radicale portato a trasformare ogni desiderio in un bisogno, ogni bisogno in una pretesa e ogni pretesa in un diritto.

Una visione individualistica in cui i confini tra privato e pubblico sono scomparsi, insieme all’ideale di un bene comune da perseguire al di là dei propri interessi privati. In essa si sono trovate accomunate, in un unico pervasivo brodo culturale, quelle che un tempo si chiamavano “sinistra” e “destra”, e che ora differiscono solo per le diverse sottolineature che danno al medesimo tema dei diritti individuali, insistendo rispettivamente sui temi bioetici o su quelli economici e sicuritari.

Ne è un risvolto la disaffezione nei confronti della politica, che proprio nel bene comune dovrebbe avere il suo fine. Sta di fatto che l’astensionismo è passato dal 6,51% delle elezioni del 1976 al 36,1% delle ultime, nel 2022.

Niente per cui vivere o morire

Il punto è che ogni riferimento a valori che trascendano il singolo e per cui abbia senso morire – come nel caso dei giovani volontari della prima guerra mondiale o dei partigiani – è scomparso. Ma se non c’è niente per cui morire, non c’è niente neppure per cui vivere. Rimane soltanto la pulsione elementare all’affermazione di sé, senza ragioni e senza limiti.

La recente celebrazione di un personaggio come Berlusconi a figura simbolo dell’Italia di oggi non ha fatto altro che sancire questo modello di vita, privo di ogni obiettivo che non sia l’appagamento sfrenato dei propri appetiti e il perseguimento del successo a qualunque costo, sia nel campo economico, sia in quello politico, sia in quello sessuale, a prescindere da ogni dimensione etica.

Una prospettiva che, in una società fortemente competitiva, può dare luogo, nei giovani, a due possibili atteggiamenti, a volte vissuti in contemporanea dagli stessi soggetti. Uno è il senso di impotenza e la rinunzia a partecipare a un gioco che appare tanto insensato quanto violento. È il caso dei NEET (Not in Employment, Education or Training), ben tre milioni di italiani tra i 15 e i 34 anni che non studiano, non lavorano né cercano lavoro.

L’altro atteggiamento che può scaturire da questo vuoto di senso della vita reale è il tentativo di «sentirsi qualcuno, anche solo nel mondo etereo della rete», superando tutti i limiti con comportamenti balordi, alla ricerca di una effimera visibilità volta a sostituire i valori che non ci sono. Era quello che facevano, come tanti altri loro coetanei, i protagonisti dell’assurda tragedia di Casal Palocco.

E non solo perché fossero instabili e immaturi psicologicamente, ma soprattutto perché noi adulti non siamo stati in grado di offrire loro niente che assomigliasse a una vera speranza.
(fonte: Tuttavia 21/06/2023)

martedì 27 giugno 2023

Aumentano i poveri assoluti in Italia: i “5 cluster” di Caritas e l'allarme per chi è solo

Aumentano i poveri assoluti in Italia:
i “5 cluster” di Caritas e l'allarme per chi è solo

Presentato il primo Report sulla povertà: nel 2022, aumentano del 12.5% gli assistiti nei centri di ascolto e servizi informatizzati, soprattutto per lamento di stranieri ucraini”. Forte relazione tra povertà e scolarità, ma anche chi ha diploma e laurea chiede aiuto. Tra le cinque categorie di poveri, a rischio soprattutto i vulnerabili soli”


Quasi il 10% della popolazione residente in Italia vive in condizioni di povertà assoluta: lo ha riferito l'Istat e lo ha ricordato oggi la Caritas italiana, presentando il primo Report statistico sulle povertà, insieme al proprio Bilancio sociale. La povertà assoluta è dunque un fenomeno strutturato e in preoccupante aumento, visto che solo 15 anni fa riguardava appena il 3% della popolazione. Un incremento dovuto alle “gravi crisi globali attraversate a partire dal 2008, dal crollo di Lehman Brothers, alla crisi del debito sovrano, fino alla pandemia da Covid-19, a cui si aggiungono ora gli effetti del conflitto in Ucraina che stanno impattando pesantemente su crescita, inflazione e scambi commerciali – riferisce Caritas – Oggi si contano 5 milioni 571mila persone in stato di povertà assoluta, erano 1,8 milioni solo tre lustri fa”.

Il prossimo autunno verranno rilasciate le nuove stime dell’Istat, ricalcolate secondo nuovi parametri europei, e “i timori di una ulteriore recrudescenza appaiono fondati. Le tensioni legate allo scoppio della guerra infatti hanno marcatamente condizionato il prezzo dell’energia, che ha registrato straordinari rialzi, contribuendo così al forte aumento dell’inflazione, con un conseguente irrigidimento delle politiche monetarie. In questo clima di incertezza economica e politica la crescita globale è di fatto rallentata”.

In tale contesto, sono i più fragili a pagare il prezzo più alto della crisi: “Se le fasce più deboli hanno infatti subito un rincaro dei prezzi del 17,9% , la parte più ricca si è fermata a + 9,9%. In questa fase di marcata insicurezza globale dunque si rafforzano le disuguaglianze tra le famiglie più benestanti e quelle meno abbienti, in continuità con quanto accaduto con la pandemia da Covid-19”.

La povertà secondo l’Osservatorio Caritas

I dati della Caritas, riferiti ai beneficiari dei servizi di supporto e assistenza, integrano e aiutano a elaborare i dati di Istat, offrendo uno spaccato sui volti della povertà oggi. Nel 2022, nei soli centri di ascolto e servizi informatizzati, le persone incontrate e supportate sono state 255.957: il 12,5% in più rispetto al 2021. Un incremento in gran parte legato alla crescita delle persone di cittadinanza ucraina accolte dalla Chiesa in Italia (rispetto al 2021 il numero degli stranieri di cittadinanza ucraina sostenuti è salito da 3.391 a 21.930). “Tuttavia, se si esclude 'l’effetto guerra', il trend rispetto all’anno precedente è comunque di crescita, ridimensionata però ad un + 4,4% - osserva Caritas – Complessivamente, l’incidenza delle persone straniere si attesta al 59,6% (era al 55% nel 2021) con punte che arrivano al 68,6% e al 66,4% nelle regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est. Quasi il 30 per cento delle persone è accompagnato da più di 5 anni. A chiedere aiuto sono donne (52,1%) e uomini (47,9%). L’età media dei beneficiari si attesta a 46 anni. Complessivamente le persone senza dimora incontrate sono state 27.877 (+ 16% rispetto al 2021), pari al 16,9% del totale”.

Forte risulta essere la relazione tra povertà e bassa scolarità: tra gli assistiti prevalgono infatti quelli con licenza media inferiore, che pesano per il 44%; se a loro si aggiungono i possessori della sola licenza elementare (16,2%) e la quota di chi risulta senza alcun titolo di studio o analfabeta (6,3%) si comprende come i due terzi dell’utenza sia sbilanciato su livelli di istruzione bassi o molto bassi. Rispetto al 2021 cresce leggermente la percentuale di chi può contare su titoli di studio più elevati (diploma superiore o laurea): la povertà diventa in qualche modo sempre più trasversale.

Strettamente correlato al livello di istruzione è poi il dato sulla condizione professionale che racconta molto delle fragilità di questo tempo post pandemico. A chiedere aiuto sono per lo più persone che fanno fatica a trovare un lavoro, disoccupati o inoccupati (48,0%), ma anche tanti occupati, working poor o lavoratori poveri su base familiare, che sperimentano condizioni di indigenza (22,8%).

Particolarmente significativi i dati sulle cosiddette povertà multidimensionali: “Nell’ultimo anno, il 56,2% dei nostri beneficiari ha manifestato due o più ambiti di bisogno – fa sapere Caritas - In tal senso prevalgono, come di consueto le difficoltà legate a uno stato di fragilità economica, i bisogni occupazionali e abitativi; seguono i problemi familiari (separazioni, divorzi, conflittualità di coppia), le difficoltà legate allo stato di salute (disagio mentale, problemi oncologici, odontoiatrici) o ai processi migratori”.

Per quanto riguarda gli interventi della rete Caritas, ne sono stati erogati complessivamente oltre 3,4 milioni di interventi: il 71,8% ha riguardato beni e servizi materiali (distribuzione di viveri, accesso alle mense/empori, docce, ecc.); il 9,4% interventi di accoglienza, a lungo o breve termine (in forte crescita rispetto al 2021); il 7,4% le attività di ascolto, semplice o con discernimento; il 4,6% il sostegno socio-assistenziale; il 2,5% l’erogazione di sussidi economici, utilizzati soprattutto per il pagamento di bollette e tasse; l’1,4% interventi sanitari.

Caritas, quali beneficiari? I 5 cluster

Insieme alla povertà crescono e si aggravano le fragilità: proprio per approfondire le multiformi storie di povertà oggi esistenti, Caritas ha condotto un lavoro di analisi multivariata, al fine di definire alcuni “cluster” di povertà, ovvero una classificazione degli assistiti, da un lato per favorire una migliore messa a fuoco lo stato di bisogno, dall'altro per fornire elementi utili ai decisori politici, agli amministratori locali e agli stessi operatori Caritas nell’elaborare adeguate strategie di contrasto alla povertà, nel definire efficaci risposte e interventi, nella costruzione di percorsi di accompagnamento costruiti secondo le diverse esigenze sociali.

Caritas ha distinto i beneficiari dei suoi interventi in cinque “cluster” (o profili), ciascuno con tratti sociali specifici.

Il primo gruppo è quello dei “vulnerabili soli”: per lo più uomini, tra i 35 e i 60 anni, che vivono soli. Oltre la metà di loro risulta celibe, a cui si aggiunge anche una quota importante di divorziati. Più di uno su tre risulta senza dimora. Sono persone che presentano una molteplicità di bisogni (il 60% in almeno tre ambiti diversi). Quasi uno su dieci manifesta problemi connessi alle dipendenze. In stretta correlazione con la complessità dei loro profili, hanno fruito e richiesto più frequentemente degli altri varie forme di aiuto; più marcati che altrove gli interventi in ambito alloggiativo, socio-assistenziale (soprattutto in termini di sostegno diurno socio-educativo), di tipo sanitario e di orientamento. Tutte forme di intervento che si sommano agli aiuti di tipo materiale, in particolare l’accesso alle mense e la distribuzione di vestiario.

Il secondo cluster è rappresentato dalle “famiglie povere”: soprattutto donne adulte, coniugate (i due terzi), con figli (82,7%), spesso minori conviventi. Vivono con i propri familiari o in convivenze di fatto, in nuclei di 2-4 persone. Alta la quota dei lavoratori poveri, uno su tre risulta infatti occupato. Presentano bisogni per lo più legati alla sola povertà economica. Due su cinque sono in carico a Caritas da almeno 5 anni (molti di loro da oltre dieci anni). Quasi la metà è assistito da centri o servizi parrocchiali. Hanno beneficiato per lo più di forme di aiuto legate a beni e servizi materiali (pasti, vestiario, prodotti per neonati, ecc.) e sussidi economici (per il pagamento di bollette/utenze o affitti).

Il terzo gruppo è quello dei “giovani stranieri in transito”: giovani uomini stranieri, con un’età media di 25 anni, in maggioranza celibi. Uno su due è di nazionalità africana. Si tratta per lo più di nuove prese in carico. Sono persone che si sono concentrate al confine italo-francese nel tentativo di raggiungere altri paesi europei, trovando assistenza in particolare nella diocesi di Ventimiglia (in un solo centro sono stati supportati oltre 14mila stranieri). Spesso sono senza dimora. Non si tratta sempre di persone sole, a volte si muovono in compagnia di familiari o conoscenti. Quasi la metà dichiara di essere uno studente. Presentano sempre bisogni multipli (oltre il 60% in almeno tre ambiti diversi), comprese diverse tipologie a bassa incidenza. Nonostante la complessità dei loro profili sociali hanno beneficiato solo di beni o servizi, magari di diverso tipo (cibo, viveri, vestiario, ecc.).

Il quarto cluster è quello dei “genitori fragili”: comprende in particolare genitori di età compresa tra i 35 e i 60 anni, per lo più di genere femminile. Quasi sempre hanno figli minori conviventi. Vivono con i propri familiari o in convivenze di fatto, ma in nuclei mediamente più numerosi rispetto agli altri gruppi. Nel gruppo l’incidenza delle persone di cittadinanza italiana appare più alta della media. Molto spesso presentano bisogni multipli. Alto il disagio occupazionale: due su tre esprimono infatti un bisogno legato al lavoro. Tra gli aiuti ricevuti accanto a quelli di tipo materiale (per lo più viveri, buoni spesa, accesso agli empori) risulta significativamente più marcato il peso dei sussidi economici, dell’orientamento e dei coinvolgimenti di altri enti o soggetti del territorio.

Il quinto gruppo è quello dei “poveri soli”, che include soprattutto adulti di genere maschile, per lo più tra i 35 e i 65 anni, di età media più alta rispetto agli altri cluster. Sono persone che vivono da sole e presentano un'elevata incidenza rispetto agli altri gruppi di celibi, separati/divorziati, vedovi e pensionati. Sono quasi sempre senza figli. Sono presenti in prevalenza al Nord Ovest o nelle regioni tirreniche del Centro. Quasi la metà di essi vive in grandi città, richiedono più spesso degli altri un’assistenza di tipo socio-assistenziale. Hanno fruito per lo più di assistenza materiale, in particolare dei servizi mensa e dell’erogazione di viveri.

“Gli esiti dell’analisi multivariata ci indicano che ci sono due grandi dimensioni e aspetti che contribuiscono a differenziare la povertà nel nostro Paese – commenta Caritas -. Da un lato, le caratteristiche del nucleo al quale è legata la persona, dall'altro la complessità dei bisogni rilevati. Dalla combinazione di questi due grandi assi, possono essere messi a fuoco i diversi gradi di marginalità sociale degli assistiti. Si passa infatti da una condizione di basso rischio delle 'famiglie povere' (in condizioni di sola deprivazione materiale) a situazioni molto più complesse, come quelle dei 'vulnerabili soli', esclusi dal mondo del lavoro e senza reti parentali di protezione. Se guardiamo alla povertà da una prospettiva relazionale, partendo dal concetto di famiglia come luogo di alleanza, supporto e solidarietà tra i membri, i nuclei unipersonali in stato di povertà possono dirsi in qualche modo i più fragili tra i fragili”.
(fonte: Redattore sociale, articolo di Chiara Ludovisi 27/06/2023)



L’efficacia della resistenza civile

L’efficacia della resistenza civile

Uno studio straordinario decennale sulle lotte nonviolente nel mondo tra il 1900 e i giorni nostri ribalta secoli di pensiero dominante e ne mostra l’efficacia rispetto alle lotte armate



In un tempo nel quale non solo la guerra è tornata perfino in Europa, ma il bellicismo – ossia l’ideologia della guerra – ha assunto un’inedita centralità mediatica e politica nella storia repubblicana del nostro Paese, la traduzione in italiano dell’importante lavoro sulla resistenza civile della ricercatrice statunitense Erica Chenoweth Come risolvere i conflitti. Senza armi e senza odio con la resistenza civile (2023) – grazie all’impegno di Angela Dogliotti del Centro studi Sereno Regis di Torino e delle Edizioni Sonda – rappresenta una contro-narrazione rispetto alla vulgata della inevitabilità dell’esito violento dei conflitti. Una vera e propria decostruzione di un mito. Questo volume è uno degli esiti dello studio ultra decennale, svolto insieme a Maria Stephan, sulla quantità ed efficacia delle lotte nonviolente nel mondo dal 1900 ai giorni nostri, una mappa sistematica e ragionata dell’evoluzione della nonviolenza nei conflitti degli ultimi 120 anni, i cui frutti ribaltano secoli di pensiero dominante, anche storiografico, secondo il quale solo “quando c’è guerra c’è storia” (Anna Bravo, La conta dei salvati, 2013).

“La vita quotidiana – scrive Erica Chenoweth – è piena di innumerevoli racconti, film, miti e altri desiderata culturali che glorificano la violenza. E questa costante esaltazione della violenza serve anche a cancellare la straordinaria storia umana della resistenza civile e dei movimenti popolari che nel corso dei millenni hanno portato avanti battaglie nonviolente”.

Intanto la definizione pragmatica – come nello stile dei ricercatori statunitensi, a cominciare dallo storico lavoro di Gene Sharp The politics of nonviolent action (1973) – di resistenza civile:

“la resistenza civile – scrive Erica Chenoweth – è un metodo di azione diretta in cui persone disarmate utilizzano diversi metodi coordinati, non istituzionali per promuovere il cambiamento senza fare fisicamente del male o minacciare di fare fisicamente del male all’avversario”.

Ciò significa che la resistenza civile è un metodo attivo di gestione dei conflitti sociali e politici, che viene agita da cittadini che intenzionalmente rinunciano all’uso della violenza – non perché siano necessariamente (e capitinianamente, potremmo aggiungere) persuasi della superiorità morale della nonviolenza, ma perché la violenza è per lo più inefficace – e fanno uso di varie tecniche di disobbedienza civile – scioperi, proteste, manifestazioni, boicottaggi, costruzione di istituzioni alternative e molte altre raccontate nel documentati volume – nei confronti di leggi ingiuste, regimi oppressivi, occupazioni militari.
(fonte: COMUNE-INFO, articolo di Pasquale Pugliese 24/06/2023)


lunedì 26 giugno 2023

I riferimenti culturali di Putin e Cirillo

I riferimenti culturali di Putin e Cirillo



Silvano Tagliagambe* approfondisce le caratteristiche specifiche della cultura russa e va alla ricerca dei riferimenti utilizzati da Vladimir Putin e dal patriarca Kirill nella costruzione ideologica del russkij mir in opposizione all’Occidente. Propone lo studio degli autori e il confronto approfondito sulle idee, quali strumenti di pace.

Professore, quali sono i caratteri che lei ritiene peculiari – diversi rispetto all’Occidente – della cultura russa?

Per rispondere, richiamo un testo illuminate di Juri Lotman e Boris Uspenskij – Rol’ dual’nych modelei v dinamike russkoj kul’tury do konca XVIII veka (ossia Il ruolo dei modelli bipolari nella dinamica della cultura russa fino alla fine del XVIII secolo), in ‘Trudy po russkoj i slavianskoj filologii’ – che risale al 1977, quindi a tempi ben precedenti l’attuale temperie.

I citati autori mettono ben evidenza due aspetti.

Vediamo il primo. La cultura russa è costruita per polarizzazioni contrapposte: santo/dannato, bene/male, per capirci. Manca pertanto, nella cultura russa, a differenza di quella occidentale, l’idea di una gradazione che consenta una facile conciliazione degli opposti.

Nella cultura russa manca sostanzialmente il concetto di uno spazio intermedio tra le polarità del mondo. L’autore russo che ha, in opposizione a questa visione, introdotto il concetto di spazio intermedio, innovando profondamente la cultura del tempo, è Pavel Florenskij: un autore chiave su cui tornerò anche oggi, benché ne abbia già parlato (qui).

La tesi sostenuta da Lotman e Uspenskij – ma non solo – è che tale “scarto” tra gli estremi sia attribuibile alla mancanza del Purgatorio nella teologia e nella predicazione della Chiesa russo ortodossa: ciò avrebbe maggiormente differenziato la Chiesa ortodossa da quella cattolica, quindi la cultura dell’Oriente russo dall’Occidente.

Il concetto di Purgatorio – per cui la cultura occidentale è debitrice soprattutto a Dante – genera nel pensiero occidentale quella zona intermedia, tra gli opposti, che non è né buona né cattiva., né santa né peccatrice e che consente raccordi e transizioni moderate o modulari, graduali, nel tempo.

Il concetto si risolve poi nella storia, per cui, mentre in Occidente i passaggi dal Medioevo al Rinascimento e dall’Età Moderna alla Contemporanea, sono avvenuti senza antitesi radicali, altrettanto non sarebbe avvenuto nel mondo russo. Nella cultura e quindi, per certi versi, nella storia russa, tutto è avvenuto per rovesciamenti successivi.

La cultura con la storia della Russia può essere interpretata quale serie di sbandamenti – oscillazioni – tra l’Oriente e l’Occidente, tra la slavofilia più chiusa e inaspettate aperture: l’esempio storico paradigmatico è costituito da Pietro il Grande, zar dal 1682 e primo imperatore della Grande Russia dal 1721 al 1725, anno della morte: Pietro rivolse decisamente il suo sguardo all’Europa con la fondazione di Pietroburgo, mente zar successivi tornarono rapidamente a ripiegarsi sul nucleo orientale, slavofilo, del proprio impero.

Questo già ci dice quanto l’atteggiamento della Russia nei confronti dell’Europa non sia stato – e quindi non possa tuttora facilmente essere – “equilibrato”, almeno nel senso che noi comunemente consideriamo.

Il secondo aspetto – correlato – altrettanto tipico della cultura russa, è l’idea di presente. Generalmente, nella cultura occidentale, il presente costituisce la base temporale del futuro, ovvero ciò che prepara consapevolmente al futuro. Nella cultura russa invece – in specie nel pensiero degli slavofili – il presente è visto come il portato della concatenazione degli eventi del passato, in una visione sostanzialmente fideistica o fatalistica del vissuto del popolo.

La memoria del passato – un passato magnificato e persino idolatrato – in questo modo diviene il fondamentale e quasi unico criterio di lettura del presente, di fronte ad un futuro che, di per sé, non esiste.

Questo aspetto è stato acutamente analizzato – e criticato – da un intellettuale russo quale fu Alexander Ivanovič Herzen, già a metà dell’800. Herzen se la prende con gli slavofili, scrivendone: «La loro adesione alla tradizione medievale russa, di cui si dichiarano eredi e sostenitori, li induce a condannare senza appello Pietro I perché creatore di uno Stato che persegue l’ideale del rinnovamento. In odio al mondo contemporaneo, essi esaltano le forme più antiche del possesso e della distribuzione delle terre delle comunità contadine. Il loro è un idoleggiamento delle origini, un mito della Russia al di fuori dal tempo».

È, a questo proposito, opportuno citare Vissario Belenskij, noto critico letterario che, nella prima metà dell’800, attraverso l’analisi linguistica, contrappone il russo narod’nost’ – da narod popolo – a national’nost’, espressione di derivazione latina, in particolare francese: mentre questa contiene in sé il dinamismo dei nazionalismi europei, il termine narod’nost’ suppone qualcosa di stabile, immobile, inabile alla trasformazione, destinato a durare nel tempo: la cultura del passato, del popolo russo, in un eterno presente.

Sia Herzen che Belinskij criticamente evidenziano la staticità della cultura russa e lo sguardo del popolo rivolto al passato: a uno spirito originario, mitico.

Integralità
  • Chi sono gli slavofili? Quali altri pensieri hanno coltivato?
Al principio della corrente slavofila, io pongo due nomi: quello di Ivan Kireevskij e quello di Aleksej Chomiakov.

È singolare notare come Kireevskij si sia inizialmente formato sui testi della letteratura e della filosofia tedesca, in particolare di Goethe e di Shelling, assorbendo – sì – una razionalità occidentale, ma quella “romantica”, appunto tedesca, diversa da quella francese e inglese dell’epoca: una razionalità penetrata dallo spirito e quindi espressione dell’integralità della natura umana, fatta di mente e di cuore. In una fase successiva, Kireevskij si abbevera delle letture dei Padri della Chiesa orientale, in particolare di Isacco di Ninive – e poi di Gregorio Palamas – conferendo, nei suoi scritti, una connotazione sempre più religiosa e mistica dell’essere umano integrale.

L’altro autore slavofilo – Chomiakov – prende questa concezione integrale della persona umana individuale per spostarla maggiormente sul popolo, sulla cultura del popolo: narod’nost’. Ciò che significativamente aggiunge è che debba esserci un’istituzione a garantire la permanenza della cultura del popolo, e che questo soggetto istituzionale non possa che essere la Chiesa russo-ortodossa.

Ho già più volte citato qui la centralità, nella visione antropologica di questi autori, dell’integralità, cel’nost’ in russo. Cel’nost’ è centrale in altri autori russi. Lo stesso Pavel Florenskij ne fa significativo impiego per sostenere la globalità e quindi l’interdisciplinarietà naturale della cultura (contro i segni che aveva già colto di settorializzazione spinta del sapere in ambito occidentale). Per Chomiakov, in particolare, cel’nost’ significa un’integralità culturale che comprende le istituzioni e che solo può essere garantita dai livelli politico-istituzionali: da ciò la teorizzazione, per via filosofica, della stretta relazione tra la società e la Chiesa, tra l’autorità statale e l’autorità religiosa, tra il potere dello zar e quello del patriarca.

In questo modo ha rafforzato l’auto-definizione “Santa Russia”, che è, evidentemente, precedente.

Putin e Cirillo
  • È in questi presupposti culturali che affonda la concezione contemporanea del “mondo russo” – russkij mir – proclamato da Putin e da Kirill?
A quanto detto, va aggiunto il termine e il concetto sotteso mir, oggi, appunto, continuamente evocato in Russia, dal presidente e dal patriarca. Il mir è, per tradizione, l’aggregazione delle piccole comunità rurali russe – ciascuna detta obščina – che dà luogo a una comunità sempre più vasta, sino a costituire un vero e proprio “mondo russo”.

Per Chomiakov, mir avrebbe potuto e dovuto raggiungere l’estensione massima – istituzionale – dell’intera Russia.

Sicuramente è a questo mondo concettuale che fa riferimento Putin e, insieme a lui, il patriarca Kirill, anche se le fonti e gli autori non sono precisamente gli stessi, tra i due. Sicuramente nel progetto condiviso del russkij mir sta l’imprescindibilità del rapporto tra il governo politico e l’autorità religiosa.
  • Quali autori cita esplicitamente Putin per la promozione del “mondo russo”? Li cita a proposito o a sproposito?
Gli autori che gli è capitato di citare in discorsi ufficiali, recentemente, sono Vladimir Solov’ëv, Fëdor Dostoevskij, Nikolaj Berdjaev.

Solov’ëv è stato l’ispiratore degli ultimi romanzi di Dostoevskij, tra cui I fratelli Karamazov. In questi lavori è ben evidente l’immagine della rinascita dopo la caduta, una delle eredità, appunto, di Solov’ëv. A lui si deve pure la figura dell’Anghelos, ossia del doppio, che fa da guida divina all’uomo e al popolo. Nella sua vita Solov’ëv ha realizzato viaggi di studio in Egitto e nel Vicino Oriente, diffondendo la conoscenza del misticismo orientale nella cultura russa.

Bastano forse questi cenni per intuire che il discorso di Solov’ëv è assai articolato e profondo, non riducibile al modello slavofilo, anche se non può essere negata una certa sua influenza sulla concezione del “mondo russo”. Non so quanto sia quindi citato a proposito da Putin.

Berdjaev, dissidente anticomunista, espulso dalla Russia dei bolscevichi nel 1922, emigrò in Francia, dove visse fino alla morte. Fu uno dei maggiori esponenti dell’esistenzialismo e dell’anarchismo cristiano. Fu uno dei pochi che, nel 1914, anno di pubblicazione del capolavoro di Florenskij La colonna e il fondamento della verità, non si unì al coro di ammirazione e di stupore con cui questo singolare “trattato” teologico-filosofico venne accolto, anzi riservò all’autore critiche pungenti, fortemente polemiche e persino stizzite, mostrandosi del tutto indisponibile a cogliere la portata innovativa del metodo epistolare, messo in atto da Florenskij, oltre che dei contenuti.

La reazione di allora mostra le profonde differenze tra questi autori. Chi cita con ammirazione e adesione Berdjaev non è in genere ben disposto nei confronti di Florenskij, al quale non si perdona, in particolare, per il nostro tema, il dispiegamento di una vasta competenza nei diversi campi dello scibile in vista di un confronto veritativo con i nuclei portanti dell’esperienza di fede cristiana, ripensati in una logica di complementarità, piuttosto che di opposizione, tra Oriente e Occidente.

Ecco perché – a proposito del russkij mir – Putin cita Berdjaev, e non Florenskij (che infatti mi risulta non sia mai citato), anche se neppure Berdjaev può essere ritenuto uno slavofilo, in senso stretto.

Un discorso a parte penso meriti Dostoevskij, il letterato russo più famoso. Certamente nelle pagine e pagine dei romanzi di Dostoevskij incontriamo il narod’nost’, quindi la funzione salvifica del popolo russo con i valori slavo-cristiani contrapposti a quelli occidentali. Ma penso che dalla sua sterminata letteratura non possa essere tratta una semplice conclusione di slavofilia.

Come risulta da studi molto interessanti di neurologi quali Norman Geschwind, la valutazione della sua opera, soprattutto nella seconda fase, successiva alla condanna, alla finta fucilazione, agli anni di carcere, non può prescindere dall’impatto della malattia epilettica di cui Dostoevskij ha sofferto, specie dopo il 1860 e sino alla morte nel 1881. Ricordo le parole messe sulle labbra del personaggio emblematico del principe Myškin ne L’idiota: «…che importa se è malattia, che importa se questa tensione è anomala, quando il suo stesso risultato è l’attimo della suprema percezione, ricordato e analizzato in un momento di lucidità con l’effetto che esso produce, armonico e sublime?».

In Dostoevskij, dunque, il senso di una – sofferta – superiorità spirituale va valutato prestando la debita attenzione anche alla condizione patologica da lui sperimentata nel corpo e nella mente, piuttosto che a una compiuta teoria filosofico-culturale. Non so quindi, anche in questo caso, se sia citato proprio a proposito da Putin.

Voglio peraltro segnalare quella che appare ai miei occhi un’importante omissione nella galleria degli autori più consoni a sostenere il russkij mir, quella di Lev Šestov. Questi è, tra i filosofi-teologi più apprezzati dalla Chiesa russa: colui che maggiormente sottolinea la lontananza tra la cultura con i valori del popolo russo e la cultura dei popoli europei.

Šestov ha scritto interi libri per sostenere l’antinomia tra la fede cristiana ortodossa e la ragione occidentale prodotta dal cattolicesimo, quali Sulla bilancia di Giobbe e Filosofia della tragedia; in particolare, col volume edito in francese Athènes et Jérusalem, ha teorizzato l’impossibilità della conciliazione tra il mondo culturale di Atene e quello di Gerusalemme, quindi tra la ragione e la fede.

Probabilmente Šestov non viene citato da Putin perché – come altri filosofi e teologi – lasciò la Russia nel 1922, a seguito della rivoluzione, per trasferirsi a Parigi, ove morì. Eppure, Šestov è l’epigono ideale degli slavofili, nel XIX secolo.

Popolazione e religione
  • Quanto la radice slavofila è da considerarsi tuttora vitale nella cultura e nella vita del popolo russo?
Certamente esiste una Russia profonda. Ma quanto si sta verificando in Russia è pure quanto si sta osservando un po’ in tutto il mondo, con lo scarto, spesso, enorme, che sussiste tra chi vive nelle campagne e chi vive nelle città, tra chi vive nei villaggi e chi nelle grandi metropoli. Le recenti elezioni in Turchia hanno messo ben evidenza i diversi orientamenti politici e culturali di chi vive nell’Anatolia profonda rispetto, ad ed esempio, a chi sta ad Istanbul oppure ad Ankara. Qualcosa di simile c’è in Russia: questo posso dire per il ricordo diretto che ho di Mosca o di San Pietroburgo.

Le nuove generazioni russe delle grandi città – non c’è dubbio – hanno come riferimento l’Occidente. Il pensiero degli slavofili, col loro “mondo russo”, non è cosa che possa attrarli.
  • Esiste ancora una Russia pagana nella Russia cristiana delle campagne e dei villaggi?
Penso che a questa domanda abbia già risposto Pavel Florenskij nella sua opera Primi passi della filosofia: si tratta di una raccolta di conferenze del 1909 nell’Accademia Teologica di Mosca, in cui l’autore ha retrodatato di almeno 2.500 anni la nascita della filosofia che, secondo la tradizione, data al VI secolo a.C. a Mileto.

Secondo Florenskij, le categorie fondamentali della filosofia – in tutte le culture e non solo in quella greca – erano già contenute nei miti che, contrariamente a quanto si pensava o si pensa, non esprimono un pensiero politeista, bensì l’orientamento a un’unica divinità che si manifesta in diverse forme o dèi, assumendo i relativi nomi. Anche nel pensiero pagano dunque – pure in quello dei territori della antica Rus’ precedente il cristianesimo – la realtà si manifestava agli occhi umani, costantemente, nella stretta relazione tra il visibile e l’invisibile, tra l’umano e il divino: questo è uno dei punti saldi della teologia – filosofia e scienza – di Florenskij, sacerdote ortodosso; da questo punto fermo di diretta esperienza personale proviene la stessa idea della divinizzazione dell’umano. Ciò spiega la saldatura – tuttora sussistente nella Russia profonda – tra un paganesimo, tutt’altro che insignificante, e il cristianesimo ortodosso, quale dato di fatto che, per Florenskij, va studiato e compreso nelle sue radici.

Occidente
  • Perché Pavel Florenskij non può essere assolutamente annoverato tra gli slavofili che si oppongono all’Occidente?
Perché tutta la sua opera è decisamente orientata a costruire il futuro. Ci sono elementi biografici che lo stanno a confermare. Da matematico e ingegnere – oltre a molto altro qual era – Florenskij fu chiamato da Lenin, benché pope inviso al regime sovietico, di cui fu successivamente vittima e martire, a lavorare al piano di elettrificazione della Russia. Fu il redattore responsabile delle voci di tecnologia della grande enciclopedia sovietica. Uno dei suoi principali testi scientifici resta, tuttora, il saggio Organoprojekcija – la proiezione degli organi – in cui ipotizzò la continuità tra la biologia e la tecnologia.

Tutto questo non ha evidentemente nulla a che fare con la visione statica, rivolta al passato, come ho detto, degli slavofili e, oggi, del russkij mir. Tanto è vero che la causa di beatificazione che la Chiesa russa aveva a suo tempo intrapreso è stata bruscamente interrotta. Non solo: ogni riferimento alla sua opera viene cancellato. Tanto meno compare nei discorsi di Putin e di Kirill.
  • Leggendo certe pagine di Florenskij non ritiene si possa cogliere pure un certo senso di superiorità dell’ortodossia russa sul cattolicesimo?
Può darsi. Tuttavia, io ritengo si tratti di una chiamata ad una maggiore aderenza ai valori evangelici, oltre che della convinzione dell’incisività del culto – permeato di grande bellezza, in quanto convergenza e ibridazione di parola, canto, e immagini delle icone nel rito russo ortodosso – sulla realtà.

Non sono certo questi i segni che il patriarca Kirill sta ora richiamando, quando rivendica la superiorità del mondo russo sull’occidente degenerato. I suoi discorsi sono più politici che evangelici, tanto che le divisioni tra il patriarcato di Mosca e quello di Kiev, sono solo di natura politica: non c’è nulla di divisivo dal punto di vista strettamente teologico.
  • Si riesce ad andare alle radici culturali – se ce ne sono – di certa aggressività verbale e soprattutto dell’attuale aggressione militare russa?
Senza spiegare o tanto meno giustificare nulla, io penso che davvero oggi il “mondo russo” avverta il pericolo di una possibile estinzione. Per questo “mondo” la minaccia è duplice: da una parte, c’è – sì – l’Occidente, che mette pressione con la sua saldatura, politico-militare, tra Stati Uniti ed Europa, tramite la NATO; ma, dall’altra parte, non possiamo dimenticare il fatto che gran parte delle Repubbliche asiatiche che costituivano l’Unione Sovietica sono a stragrande maggioranza di religione e cultura islamica, mentre, dal punto di vista demografico, la popolazione cristiana russo-ortodossa, nella stessa Federazione russa, sta regredendo: i musulmani crescono e cristiani calano. Anche questo secondo fattore sta determinando una enorme pressione psicologica, anche se molto poco dichiarata.

In questo contesto va valutato poi l’impatto del distacco del patriarcato di Kiev da quello di Mosca con la concessione dell’autocefalia da parte di Costantinopoli nel 2018: un evento tragico per chi pensa il “mondo russo” unico e unito, come ho detto. Non solo tale evento ha ridimensionato il peso della Chiesa russo-ortodossa, ma ha anche indebolito di molto il numero e quindi la rilevanza – culturale, religiosa e politica – dei cristiani ortodossi in ciò che è stato l’impero sovietico e russo in precedenza.

Questo “sentire” russo – assai poco considerato dalle nostre parti – di per sé rafforza il ritorno del russkij mir e rialimenta la missione di Mosca quale “Terza Roma” incaricata di salvare la cristianità autentica coi suoi valori, sia dalle degenerazioni occidentali, sia dalla minaccia culturale islamica. Così si guarda indietro: alla Rus’ di Kiev!

Oltre la guerra
  • Perché questo timore della cultura islamica non viene esplicitato e, nel mentre, la Russia ortodossa fa la guerra all’Ucraina che è pure cristiana ortodossa?
Certo è paradossale e drammatico. E tuttavia è piuttosto evidente la ragione per cui né Putin né Kirill possono manifestare i loro timori: immediatamente, infatti, si alienerebbero le forme di alleanza politica oggi in essere, con la Turchia, con i Paesi arabi, con tutto il mondo orientale, con gli stessi soldati – non cristiani – che stanno combattendo e morendo in Ucraina per la Russia.
  • Qual è il contributo che la cultura può dare per cercare di uscire dalla situazione – orribile – generata da questa guerra?
Da referente – con Roberto Battiston e Edoardo Boncinelli – del Festival di Scienze e Filosofia di Foligno, ho proposto quest’anno, in aprile, di aprire il convegno con una intervista a Romano Prodi, perché Prodi – da Presidente della Commissione europea dal 1999 al 2004, aveva intelligentemente coniato la definizione di un’Europa estesa “dai Pirenei agli Urali”, tentando una relazione politica e culturale costante – non solo energetica e non solo quindi contingente – con la Russia. Per tanti motivi, che Prodi è in grado di spiegare, il disegno sotteso alla definizione non è andato in porto.

Ci dobbiamo ora intensamente chiedere, secondo me, quali conseguenze quel fallimento abbiano prodotto rispetto alla perenne oscillazione russa tra l’Oriente e l’Occidente: probabilmente la Russia che si è sentita respinta dall’Europa, ha pensato bene, ancora una volta, di volgere lo sguardo altrove.

Mi chiedo e chiedo quanto il fallimento del progetto di Prodi – che ora andrebbe ben ricordato – ha prodotto un effetto di reazione in Russia, ridando fiato a quelli che si dichiarano apertamente slavofili e promotori del russkij mir, facendosi eredi della più pura identità russa.
  • Lei ritiene che una diversa relazione tra Europa e Russia sarebbe stata possibile dopo il crollo della Unione Sovietica? Con quale leader?
Sì. Certamente con Gorbačëv, certamente meno con El’cin, forse con lo stesso Putin nei primi anni della sua presidenza.
  • C’è altro che la cultura italiana – anche ecclesiale – possa fare?
Certo, si può e si deve cercare di sciogliere e combattere l’ostracismo che è montato nei confronti della cultura russa in questo anno e passa: lo dico nel nostro stesso interesse di italiani e di europei. Se non studiamo e non conosciamo la cultura russa in profondità, ci precludiamo, evidentemente, la possibilità di capirla e di comprendere, quindi, le decisioni dei russi. Non dico certo che dobbiamo condividere lo loro scelte, ma capirle sì.

Proprio il semiologo Lotman, che ho citato all’inizio, assieme ad Andrej Kolmogorov – uno dei più grandi matematici del ’900 – ha corretto, arricchito e approfondito l’idea tradizionale della comunicazione. La condizione indispensabile perché una comunicazione autentica possa avvenire – tra un mittente e un destinatario – è che il primo conosca e possieda il modello culturale del secondo per farsi capire, mentre, dall’altra parte, il secondo conosca e possieda il modello culturale del primo per potergli rispondere a tono.

In altre parole, questi uomini di scienza integrale – russi – hanno messo in evidenza quanto sia importante per comunicare, parlare, capire, sapersi “mettere nei panni dell’altro”. Se manca questa capacità, determinata dalla conoscenza, la comunicazione è destinata a chiudersi o a fallire. Questo i due autori l’hanno scritto in tempi non sospetti, negli anni ’70 del secolo scorso. Ma potrebbero ben averlo scritto nei tempi che stiamo vivendo.

Ora, se manca lo sforzo di “metterci nei panni dell’altro”, che pure consideriamo a buon diritto un “nemico”, o se persino teorizziamo la necessità di chiudere ogni porta di accesso alla cultura russa, come potremo mai proporci di mettere fine a questa guerra, non solo in maniera provvisoria e contingente bensì permanente? Questo sforzo oggi francamente manca. Io non lo vedo. Mentre non posso che auspicare e adoperarmi, per quanto posso, perché riprenda, con uno studio intenso e rinnovato.
(fonte: Settimana News, articolo a cura di Giordano Cavallari 26/06/2023)

*Silvano Tagliagambe 
studioso del pensiero russo a cavallo dei due secoli scorsi, professore emerito di Filosofia della scienza presso l’Università di Sassari. Si è laureato in filosofia a Milano con Ludovico Geymonat e si è perfezionato in fisica all’Università Lomonosov di Mosca. È stato professore di Filosofia della Scienza presso le Università di Cagliari, Pisa, Roma “La Sapienza” e Sassari. Si occupa di processi della comunicazione, dell’analisi dei più recenti risultati della fisica e delle neuroscienze e dell’approfondimento del loro significato epistemologico, di psicologia analitica, di filosofia della medicina, di filosofia del digitale, del legame tra cultura umanistica e cultura scientifica, del pensiero scientifico e filosofico russo. A questi temi ha dedicato più di 350 pubblicazioni. Il 6 febbraio 2021 gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.