mercoledì 31 maggio 2023

Matteo Ricci in Cina - Il Vangelo trasmesso col dialogo e l'amicizia - Papa Francesco - Udienza Generale 31/05/2023 (testo e video)

 Matteo Ricci in Cina 
Il Vangelo trasmesso 
col dialogo e l'amicizia 
Papa Francesco 
Udienza Generale del 31/05/2023 
(testo e video)


Catechesi. La passione per l’evangelizzazione: lo zelo apostolico del credente. 
15. Testimoni: il Venerabile Matteo Ricci


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Noi continuiamo in queste catechesi parlando sullo zelo apostolico, cioè quello che sente il cristiano per portare avanti l’annuncio di Gesù Cristo. E oggi vorrei presentare un altro grande esempio di zelo apostolico: noi abbiamo parlato di San Francesco Saverio, di San Paolo, lo zelo apostolico dei grandi zelanti; oggi parleremo di uno – italiano – ma che è andato in Cina: Matteo Ricci.

Originario di Macerata, nelle Marche, dopo aver studiato nelle scuole dei Gesuiti ed essere entrato egli stesso nella Compagnia di Gesù, entusiasmato dalle relazioni dei missionari che ascoltava e si è entusiasmato, come tanti altri giovani che sentivano quello, chiese di essere inviato nelle missioni dell’Estremo Oriente. Dopo il tentativo di Francesco Saverio, altri venticinque Gesuiti avevano provato inutilmente ad entrare in Cina. Ma Ricci e un suo confratello si prepararono molto bene, studiando accuratamente la lingua e i costumi cinesi, e alla fine riuscirono a ottenere di stabilirsi nel sud del Paese. Ci vollero diciotto anni, con quattro tappe attraverso quattro città differenti, prima di arrivare a Pechino, che era il centro. Con costanza e pazienza, animato da una fede incrollabile, Matteo Ricci poté superare difficoltà, pericoli, diffidenze e opposizioni. Pensate in quel tempo, camminare o andare a cavallo, tante distanze … e lui andava avanti. Ma qual è stato il segreto di Matteo Ricci? Per quale strada lo zelo lo ha spinto?

Lui ha seguito sempre la via del dialogo e dell’amicizia con tutte le persone che incontrava, e questo gli ha aperto molte porte per l’annuncio della fede cristiana. La sua prima opera in lingua cinese fu proprio un trattato Sull’amicizia, che ebbe grande risonanza. Per inserirsi nella cultura e nella vita cinese in un primo tempo si vestiva come i bonzi buddisti, all’usanza del Paese, ma poi capì che la via migliore era quella di assumere lo stile di vita e le vesti dei letterati, come i professori universitari, i letterati vestivano: e lui vestiva così. Studiò in modo approfondito i loro testi classici, così da poter presentare il cristianesimo in dialogo positivo con la loro saggezza confuciana e con gli usi e i costumi della società cinese. E questo si chiama un atteggiamento di inculturazione. Questo missionario ha saputo “inculturare” la fede cristiana in dialogo, come i Padri antichi con la cultura greca.

La sua ottima preparazione scientifica suscitava interesse e ammirazione da parte degli uomini colti, a cominciare dal suo famoso mappamondo, la carta del mondo intero allora conosciuto, con i diversi continenti, che rivela ai cinesi per la prima volta una realtà esterna alla Cina assai più ampia di quanto avessero mai pensato. Fa vedere loro che il mondo è più grande della Cina, e loro capivano – perché erano intelligenti. Ma anche le conoscenze matematiche e astronomiche di Ricci e dei missionari suoi seguaci contribuirono a un incontro fecondo fra la cultura e la scienza dell’occidente e dell’oriente, che vivrà allora uno dei suoi tempi più felici, nel segno del dialogo e dell’amicizia. Infatti, l’opera di Matteo Ricci non sarebbe mai stata possibile senza la collaborazione dei suoi grandi amici cinesi, come i famosi “Dottor Paolo” (Xu Guangqi) e “Dottor Leone” (Li Zhizao).

Tuttavia, la fama di Ricci come uomo di scienza non deve oscurare la motivazione più profonda di tutti i suoi sforzi: cioè, l’annuncio del Vangelo. Lui, con il dialogo scientifico, con gli scienziati, andava avanti ma dava testimonianza della propria fede, del Vangelo. La credibilità ottenuta con il dialogo scientifico gli dava autorevolezza per proporre la verità della fede e della morale cristiana, di cui egli parla in modo approfondito nelle sue principali opere cinesi, come Il vero significato del Signore del Cielo – così si chiama quel libro. Oltre alla dottrina, sono la sua testimonianza di vita religiosa, di virtù e di preghiera: questi missionari pregavano. Andavano a predicare, si muovevano, facevano mosse politiche, tutto quanto: ma pregavano. È la preghiera che alimenta la vita missionaria, una vita di carità, aiutavano gli altri, umili, in totale disinteresse per onori e ricchezze, che inducono molti dei suoi discepoli e amici cinesi ad accogliere la fede cattolica. Perché vedevano un uomo così intelligente, così saggio, così furbo – nel senso buono della parola – per portare avanti le cose, e così credente che dicevano: “Ma, quello che predica è vero perché è detto da una personalità che dà testimonianza: testimonia con la propria vita quello che annuncia”. Questa è la coerenza degli evangelizzatori. E questo tocca tutti noi cristiani che siamo evangelizzatori. Io posso dire il “Credo” a memoria, posso dire tutte le cose che noi crediamo, ma se la tua vita non è coerente con quello che professi non serve a nulla. Quello che attira le persone è la testimonianza di coerenza: noi cristiani siamo chiamati a vivere quello che diciamo, e non far finta di vivere come cristiani ma vivere come mondani. Guardate questi grande missionari – come Matteo Ricci che è un italiano – guardando questi grandi missionari, vedrete che la forza più grande è la coerenza: sono coerenti.

Negli ultimi giorni della sua vita, a chi gli stava più vicino e gli domandava come si sentisse, Matteo Ricci «rispose che stava pensando in quel momento se era più grande la gioia e l’allegria che provava interiormente all’idea che stava vicino al suo viaggio per andare a gustare Dio, o la tristezza che gli poteva causare il lasciare i compagni di tutta la missione che amava grandemente, e il servizio che poteva ancora fare a Dio Nostro Signore in questa missione» (S. De Ursis, Relazione su M.Ricci, Archivio Storico Romano S.I.). È lo stesso atteggiamento dell’apostolo Paolo (cfr Fil 1,22-24), che voleva andarsene dal Signore, trovare il Signore ma “rimango per servire voi”.

Matteo Ricci muore a Pechino nel 1610, all’età di 57 anni, un uomo che ha dato tutta la vita per la missione. Lo spirito missionario di Matteo Ricci costituisce un modello vivo attuale. Il suo amore per il popolo cinese è un modello; ma ciò che rappresenta una strada attuale è la sua coerenza di vita, la testimonianza della sua vita come cristiano. Lui ha portato il cristianesimo in Cina; lui è grande sì, perché è un grande scienziato, lui è grande perché è coraggioso, lui è grande perché ha scritto tanti libri, ma soprattutto lui è grande perché è stato coerente con la sua vocazione, coerente con quella voglia di seguire Gesù Cristo. Fratelli e sorelle, oggi noi, ognuno di noi, domandiamoci dentro: “Sono coerente, o sono un po’ così così?”.

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Catechesi integrale

Saluti ...

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Clarisse Francescane del Santissimo Sacramento che celebrano il Capitolo Generale e il Liceo cattolico di Vipava (Slovenia). Saluto i Seminaristi del Pontificio Seminario Regionale Pugliese, i partecipanti a “Palestra-natura” della Provincia di Barletta-Andria-Trani e i fedeli della parrocchia dei Santi Antonio e Annibale Maria in Roma, che incoraggio a vivere il Vangelo, imitando l’ardore apostolico della Vergine Santa.

Accolgo con affetto i giovani di “Rondine Cittadella della Pace” di Arezzo, accompagnati dal Vescovo Monsignor Andrea Migliavacca, con un pensiero grato per quanti, venendo dall’Ucraina e dalla Russia e da altri Paesi di guerra, hanno deciso di non essere nemici, ma di vivere da fratelli. Il vostro esempio possa suscitare propositi di pace in tutti, anche in coloro che hanno responsabilità politiche. E questo ci deve portare a pregare di più per la martoriata Ucraina ed esserle vicini.

Infine, come di consueto, mi rivolgo ai giovani, ai malati, agli anziani e agli sposi novelli. Oggi, ultimo giorno del mese di Maggio, la Chiesa celebra la Visita di Maria alla cugina Elisabetta, dalla quale è proclamata beata perché ha creduto alla parola del Signore (cf. Lc 1, 45). Guardate a Lei e da Lei implorate il dono di una fede sempre più coraggiosa. Alla sua materna intercessione affidiamo quanti sono provati dalla guerra, specialmente la cara e martoriata Ucraina che tanto soffre.

A tutti voi la mia benedizione.

LE GUERRE SONO DUE. LA DEMOCRAZIA IMPERFETTISSIMA DENTRO E IMPERIALE FUORI di Enrico Peyretti

LE GUERRE SONO DUE.
LA DEMOCRAZIA IMPERFETTISSIMA
DENTRO E IMPERIALE FUORI
di Enrico Peyretti


“La superpotenza unica è più pericolosa del bipolarismo”: un monito di Norberto Bobbio. Non c’è un modello valido per tutti. Dopo il 1989 si è tornati alla guerra come falsificazione e smobilitazione della politica

Purtroppo, le guerre sono due: una è quella di criminale aggressione, di Putin; l’altra è quella, sorda e continua, che Usa-Nato conducono dal 1989/1991 contro ciò che non è sotto controllo (cfr. un articolo chiaro, di Angelo Baracca, nella rivista di Pax Christi, Mosaico di Pace, marzo 2023).

Ma una delle trappole di questa maledetta guerra è che se critichi qualcosa dell’Occidente e della Nato, sei filo-Putin. Se condanni Putin aggressore e autocrate dimentichi le responsabilità e le guerre dell’Occidente. Purtroppo, il male non è da una parte sola. Sarebbe più semplice. La volontà di potenza e l’esercizio effettivo di potenza, del nostro Occidente, per imporre il proprio bene e la propria virtù, per “esportare la democrazia”, e importare materie più desiderate, ha fatto molto male nel mondo, dalla storia lunga, fino ad oggi. E dal male nasce altro male. I meriti e valori dell’Occidente, che noi amiamo, sono altri, e possono correggere i mali della potenza, se volessimo. Gli Usa, capi politici anche di noi europei e italiani, hanno la pretesa dichiarata di non essere eguagliati, non diciamo superati, da nessuna altra potenza. Ora, da parte nostra, vale il principio che la verità, via via che si chiarisce, va detta anzitutto a chi ci condiziona e ci comanda, prima e più che all’avversario: «Dire la verità al potere», è pensiero e regola di Gandhi, come di Vaclav Havel.

Abbiamo ricordato più volte di avere sentito direttamente Norberto Bobbio, la sera del 9 novembre 1989 (abbattimento del Muro di Berlino), avvertirci con grande preoccupazione: «Potrebbe essere la guerra!». Bobbio vedeva che il monopolarismo, la superpotenza unica, poteva essere più pericolosa del bipolarismo. Se nessun potere ha una volontà di potenza superiore, e se nessuno si sente umiliato, si può andare verso un equilibrio, abbastanza sicuro per tutti, più dell’equilibrio del terrore”, della deterrenza minacciosa. La condizione, che apparve possibile per qualche tempo, fu disarmo ed equilibrio, senza minacce. Si sciolse il Patto di Varsavia, ma non la Nato. La notte sul 17 gennaio 1991, la coalizione guidata da Washington diede avvio a una devastante offensiva aerea, navale e missilistica (Desert storm) contro gli obiettivi militari, le industrie, il sistema stradale e i centri urbani iracheni. Cominciavano le “nuove guerre”. La politica giusta e pacifica, sia locale che planetaria, è basata sul pluralismo, sull’accettazione delle differenze, non sull’imperialismo, neppure culturale, neppure “democratico”, non sul monopolarismo, modello unico imposto. Certo, il comunismo imposto dall’Urss, e non maturato nella libertà, ha gettato i satelliti di Mosca nel mito del modello e dell’impero americano, fino ai nostri giorni, fino all’abbaiare” della Nato (espressione di papa Francesco non ripresa da chi giustamente denuncia l’aggressione russa) sotto i confini russi.

Se, nel quadro della complessa e paurosa situazione attuale, si vede il male e il pericolo in Putin soltanto, si semplifica e si giustifica la “guerra alla guerra”, mediante l’implementazione della guerra. La stampa conforme, e la politica allineata, senza vere iniziative di tregua, di trattativa per una pace possibile, sacrificano agli interessi di schieramento monopolare, e al capitalismo armaiolo, la vita di migliaia di combattenti gettati nel fuoco, da una parte come dall’altra, e la vivibilità di città, famiglie, bambini ogni giorno “martoriati”. Dopo il 1989 si è tornati alla guerra come falsificazione e smobilitazione della politica, che è la sapienza e l’arte di vivere, senza uccidersi, nella differenza. Se occorre, si può leggere lo svizzero Daniele Ganser, Le guerre illegali della Nato (Fazi): tredici guerre. Non facciamo gli occidentali puri, perché non lo siamo. La “democrazia modello” è già imperfettissima e precaria all’interno (razzismo; più armi che cittadini; diseguaglianze fortissime), e non può decidere di «ridurre alla condizione di paria» la potenza rivale. Anche una democrazia perfetta all’interno, se è imperiale all’esterno oggi è comunque falsa, non è la forma oggi necessaria, perché ormai la polis è il pianeta.

La sorte umana è unica. Nessuno si tira fuori da solo, o prima degli altri, dai grandi pericoli incombenti: «Non si è mai visto un topo che fabbrica trappole da topi» (Einstein): noi siamo quel topo. Vogliamo rinsavire? Chi non vuole pace tra popoli, ma costruisce trappoleimperi (che sia Usa, Russia o Cina) è non solo antidemocratico, ma antiumanitario, comunque lui si dica. La prospettiva giusta, per noi essenziale, è quella di “Costituente Terra”. Questa prospettiva, la sola possibilità e promessa di pace, è impedita e violata da ognuno dei grandi imperi, dai più armati e seminatori di armi, fino ai minuscoli gretti nazionalismi. Magari fosse solo Putin il violatore della legge di pace mondiale!
 Obbligo di tutti, per sopravvivere, è la legge della vita: vivere insieme, nella differenza.

(Fonte:  “www.chiesadituttichiesadeipoveri.it” - 24 maggio 2023)


martedì 30 maggio 2023

Intenzione di preghiera di Papa Francesco per il mese di Giugno 2023: "fermare l'orrore della tortura, la dignità umana sia sopra di tutto" (videomessaggio)

Intenzione di preghiera di Papa Francesco
per il mese di Giugno 2023:
"fermare l'orrore della tortura,
la dignità umana sia sopra di tutto"
(videomessaggio)


Videomessaggio del Papa con le intenzioni di preghiera per giugno, mese in cui ricorre la Giornata internazionale delle Nazioni Unite per le vittime tale pratica antica ma che esiste ancora oggi in diversi Paesi. Ed esiste, dice il Pontefice, anche in forme sofisticate come "trattamenti degradanti, deprivazione dei sensi o detenzioni di massa in condizioni disumane". Appello alla comunità internazionale perché garantisca un sostegno a vittime e familiari


"La tortura. Mio Dio, la tortura! 
La tortura non è una storia di ieri. Purtroppo, fa parte della nostra storia di oggi. 
Come è possibile che la capacità di crudeltà dell'uomo sia così grande? Esistono forme di tortura molto violente, altre più sofisticate: come i trattamenti degradanti, la deprivazione dei sensi o le detenzioni di massa in condizioni disumane, che tolgono la dignità alla persona. Ma questa non è una novità. Pensiamo a come Gesù stesso venne torturato e crocifisso. 
Fermiamo questo orrore della tortura.
È imprescindibile mettere la dignità della persona al di sopra di tutto. 
Altrimenti le vittime non sono persone, sono "cose", e possono essere abusate oltre misura, causandone la morte o provocando danni psicologici e fisici permanenti per tutta la vita. 
Preghiamo perché la comunità internazionale si impegni concretamente nell’abolizione della tortura, garantendo un sostegno alle vittime e ai loro familiari.

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Messaggio integrale

“La società dei selfie. Narcisismo e sentimento di sé nell’epoca dello smartphone” di Luciano Di Gregorio

“La società dei selfie.
Narcisismo e sentimento di sé 
nell’epoca dello smartphone”
di Luciano Di Gregorio*


Dott. Luciano Di Gregorio, Lei è autore del libro La società dei selfie. Narcisismo e sentimento di sé nell’epoca dello smartphone, pubblicato da Franco Angeli: perché ci facciamo i selfie?

Per soddisfare un bisogno di visibilità sociale in cui si cerca di mettere al centro della scena del mondo se stessi, come fossimo elementi significativi e rilevanti di uno scenario che si espande a livello planetario. La propria bacheca di Facebook, la pagina di Twitter, le foto postate su Instagram, sono occasioni mediatiche per parlare di sé e della propria storia personale, che viene trasformata con i post selfie e con i filmati autoprodotti e presi sui social in un palcoscenico di esibizione personale di sé in cui si afferma il valore della propria persona come se fossimo dei personaggi di successo.
Dietro questi atteggiamenti esistono necessità riferibili ad una nuova forma di narcisismo, ciò contengono dei bisogni di autoaffermazione e di soddisfazione personale, culto di se stessi, uscita dall’anonimato, esibizionismo e voyeurismo, partecipazione all’intimità degli altri, amplificazione di un mondo che sentiamo ristretto e incapace di darci lo spazio che meritiamo, oltre a soddisfare un bisogno di appartenenza ad una comunità che va ben oltre l’ambito ristretto delle nostre relazioni sociali.


Da cosa origina il narcisismo contemporaneo?
Il narcisismo contemporaneo nasce come dicevo dal bisogno di uscire da questo vissuto di anonimato sociale, nella condizione ordinaria dell’esistenza si pensa di non contare nulla e di non avere valore, per cui diventa necessario creare una situazione sociale extra-ordinaria in cui le vite semplici e qualunque delle persone diventano eventi speciali che vengono esibite davanti ad un pubblico di potenziali estimatori che si espande potenzialmente all’infinito; gli altri sono chiamati a confermare questa ricerca di valore e di significato personale che temiamo di non avere.

Che relazione esiste tra le nuove tecnologie e il sentimento di sé?
I social media e la Rete hanno creato nuovi bisogni di visibilità sociale e favorito nuove forme di esibizionismo mediatico che non sono necessariamente dei fenomeni naturali, insiti nel nostro essere persone sociali, ma sono indotti dai media stessi e dalle nuove opportunità offerte dalla Rete, per cui se prima potevamo pensare di avere nella vita una o due occasioni di successo e di visibilità mediatica, ora con i social media noi possiamo farlo in continuazione, ma se da un lato siamo noi che desideriamo esibirci sulla Rete per incrementare il nostro valore, condizionati da una cultura del successo come unica condizione per esistere, dall’altro la cultura dei social stessi autoproduce questo bisogno di visibilità e fa da suggeritore forte ai nuovi comportamenti sociali che si diffondono e diventano fenomeni di massa. Il sentimento di sé che si espande fino a diventare una forma di narcisismo, che mette al centro dell’interesse il proprio Io e trascura l’altro, che pensa di affermarsi addirittura a danno dell’altro, è diventato la cifra “delirante” che caratterizza la società contemporanea.
Il problema nasce quando l’interesse per la propria immagine e per i propri contenuti postati su qualche sociale network, diventano più importanti dell’interesse per l’altro, a cui non ci rivolgiamo più con la stessa curiosità e con lo stesso desiderio con i quali ci rivolgevamo prima.
L’investimento narcisistico sul proprio Io, per ingrandirlo, comporta sempre un sacrificio e una svalutazione delle relazioni con le altre persone, che diventano meno significative, oppure sono significative perché sono utilizzate per affermare il proprio valore e non per avere un rapporto umano e interpersonale autentico con loro.


Come influiscono i moderni devices elettronici, primo fra tutti lo smartphone, sulle moderne relazioni sentimentali?
Con le tecnologie, con l’uso dello smartphone per presentificare l’altro e per averlo sempre a disposizione, sul palmo di una mano, non si stimola più l’uso della mente per creare l’altro con la fantasia e usando il pensiero. Io lo creo con un click meccanico, e mi abituo, inoltre, all’idea che le persone sono sempre a mia disposizione, si elimina l’assenza che è la precondizione per la creazione dell’universo simbolico, che nasce sempre da una mancanza che si cerca di saturare, ma quantomeno dopo un tempo di attesa che ci ha permesso di fare mente, di creare immagini mentali dell’altro, di provare sentimenti e di associarli alle immagini che dell’altro ci siamo costruiti nella nostra mente in funzione dell’esperienza emotiva vissuta con lui. Da questa considerazione ne consegue che questa abitudine a utilizzare dei sostituti inferiori della comunicazione e a mediare tutti i rapporti con un medium tecnico, l’uso sistematico che facciamo della Rete e dei social media, ci rendono sempre meno capaci di sostenere l’impatto emotivo che la relazione con l’altro inevitabilmente comporta.
Si assiste già da tempo ad un generale impoverimento della capacità di espressione quando ci si trova con la persona di fronte e questo riguarda anche le relazioni sentimentali, le quali inoltre subiscono, per via dell’abitudine al contatto continuo con l’altro e all’incapacità di sopportare l’esperienza della mancanza, un’ulteriore trasformazione; esse finiscono per diventare dei rapporti molto possessivi in cui non si accetta la mancanza di interesse e di ascolto anche solo temporaneo da parte dell’altro, anche se poi siamo noi i primi a non interessarci mai veramente all’altra persona e ad amarla per quello che è nella realtà.

*Luciano Di Gregorio, psicologo e gruppoanalista, svolge attività di psicoterapia a Siena e di formazione a Firenze. É socio ordinario della Società Gruppoanalitica italiana (SGAI) e membro ordinario della Società Italiana Formatori (AIF-Toscana).

(Fonte: letture.org)

Centenario Don Lorenzo Milani Protettore dei docenti smarriti?

Centenario Don Lorenzo Milani
Protettore dei docenti smarriti?
di Lorenzo Pisani*

Il centenario della nascita di don Lorenzo Milani è l'occasione per parlare di scuola e, con la scuola, del disagio, degli studenti e pure dei docenti.


Nei giorni precedenti l’anniversario (27 maggio 1923-2023) mi aveva fatto impressione, non poca, leggere di 11 studenti universitari che si sono tolti la vita negli ultimi tre anni.
Lo scrive Gerolamo Fazzini su Jesus. Fazzini conclude riportando le parole Francuccio Gesualdi, allievo della scuola di Barbiana «La scuola propone come fine la carriera, ma poiché la motivazione della carriera non attecchisce, la scuola è costretta a usare lo spauracchio dei voti e delle bocciature per spronare i ragazzi a studiare. A Barbiana ci veniva proposto di studiare per tutt’altri motivi, primo fra tutti la dignità personale»
Inutile ripetere che il tema delle fragilità degli studenti è per me di grande impatto, come docente e, ancor più, come padre.
Ma il contesto che traspare nelle parole di Gesualdi sembra, come dire, lontano o datato, oggi riferibile forse a poche situazioni.
C’è davvero lo spauracchio dei voti? O piuttosto c’è l’impazzimento del sistema formativo?
Senza pretese di teorizzazioni, provo a raccontare in ordine sparso qualcosa di questo impazzimento, riferendomi principalmente all’istruzione secondaria e terziaria.

Altri potranno scrivere di cause remote, dei mutamenti nel modo di imparare nelle giovani generazioni e poi dei vari postumi del Covid. Io, che sono appassionato di numeri, tra le cause dell’impazzimento vedo anche la demografia. Abbiamo sempre meno giovani, qui al Sud la situazione è drammatica. Probabilmente su questi pochi giovani si riversano tante aspettative familiari; quello che è certo è che le aule si vanno svuotando. E, se i docenti sono stanchi e demotivati, può capitare che la preoccupazione per la sopravvivenza delle cattedre, il posto di lavoro, prevalga su altri doveri istituzionali, come l’orientamento in ingresso ed in itinere.

Al termine dell’obbligo scolastico ci rallegriamo delle iscrizioni e delle immatricolazioni che tengono, non accorgendoci che andiamo a pescare sempre più in basso nel barile (anzi, fatemelo dire, così sembra che sono bravo, nella coda della gaussiana).
Giustamente ci preoccupiamo dei numeri; iscritti anzitutto, e poi percentuali di ogni sorta, di promossi, di dispersi, di esami superati, di CFU conquistati… E piano piano finiamo per assomigliare ad una cosa rispettabilissima, anzi importantissima, ma diversa, che è l’azienda.
Lo scivolamento verso l’alto dei voti può essere un rimedio di facile adozione per garantire l’autoconservazione delle classi, dell’istituto…
E chi se ne frega se, alla fine, il diplomato si porta dietro gravi lacune (sommare le frazioni?).
E chi se ne frega se lo studente con la tesi quasi pronta sembra che abbia disimparato i rudimenti del calcolo letterale e scrive clamorose corbellerie (tengo per me esempi di natura troppo tecnica).
Del resto pure il sistema produttivo ce li chiede i laureati, la statistiche europee continuano a dirci che i laureati sono pochi.

L’ossessione delle iscrizioni compare già ai livelli di obbligo scolastico, quando festeggiamo con occhio miope di aver strappato due o tre iscrizioni all’istituto vicino, come se non fosse un gioco a somma zero tra colleghi.
E così, a tutti i livelli, per strappare (o conquistare) iscrizioni, ci inventiamo sempre più iniziative pubblicitarie, divulgative, derogando forse al nostro dovere primario, quello di stare in aula ad insegnare roba solida (come avrebbe fatto don Milani?). Anzi, insegnare a stare a lungo in aula o sui libri, ad imparare, dovrebbe essere la prima preoccupazione.

Probabilmente il “prodotto” che sforniamo è, in termini statistici, buono, con punte di eccellenza, ma qualcosa ci sfugge tra le mani: che studentesse e studenti, tutti, ci stiano bene dentro il sistema dell’istruzione, quando lo attraversano e quando ne vengono fuori.
Un po’ alla volta, fin dalla scuola dell’obbligo, ci siamo abituati al fatto che il lavoro della scuola (e la valutazione?), poggi sempre più sul cosiddetto extracurriculo, ossia le opportunità di cui godono gli studenti fuori della scuola (cosa che non mi sembra esattamente nello spirito di Barbiana).
Inoltre il mio timore è che noi operatori stiamo chiudendo un occhio sull’eventualità di creare (tanti) disadattati, che sanno di non sapere e devono recitare di sapere, timorosi che qualcuno, la famiglia, il sistema formativo, il datore di lavoro o il cliente, veda il bluff. In un mondo del lavoro spaccato tra specializzazioni e manovalanza, già è amaro il boccone dell’ascensore sociale bloccato da troppi anni (anzi, forse pure in discesa); capiamo bene quali possano essere le conseguenze sulle personalità più fragili.

Si badi bene, non ho ricette; non sto invocando una scuola “all’antica”, gerarchizzata e selettiva. Ho semplicemente qualche dubbio sulle infinite attività collaterali che sottraggono tempo al nostro “core business”; è una spirale in cui i docenti si trovano come invischiati (lo stesso potremmo dire della burocrazia). Il concetto di dispersione forse andrebbe applicato non solo alla popolazione scolastica/universitaria, ma anche al tempo dedicato al lavoro duro dell’insegnamento (se non erro don Milani lo aveva addirittura aumentato, estendendolo pure alla domenica!). Inoltre, come dicevo sopra, nel rispetto della nostra “utenza”, si dovrebbe rimettere al centro del nostro lavoro, con coscienza, anche la questione dell’orientamento, in ingresso ed in itinere.

E poi? Ahimé altro non so dire, non so come ne verremo fuori. Mi accontento di avere dubbi e di condividerli di tanto in tanto.
Ai miei studenti continuo a parlare (ogni tanto) anche di varia umanità, e pure di responsabilità sociali, perché l’istruzione pubblica superiore la pagano anche quelli che non ne usufruiscono.
Ci provo a insegnare con passione, anche civile, perché poi arriva il maledetto momento della valutazione, dove tutto si complica.
Ci provo almeno a (far) stare bene in aula, perché Dio ci risparmi da altri nomi in quell’elenco di giovani schiacchiati dalla disperazione.
Non so cosa avrebbe fatto don Milani. Forse dovremmo farlo santo e proclamarlo protettore ed esempio di noi docenti smarriti.

*Lorenzo Pisani
Classe 1965, vivo in Puglia. Ho famiglia (moglie e due figlie) e lavoro (insegnare matematica) e questo basterebbe a riempire le giornate. Cerco di custodire con gratitudine, e far fruttificare, le cose che mi sono entrate nel cuore da giovane. Rubando qualche ora al sonno, metto per iscritto qualche pensiero. E spero che questo hobby non mi distolga dall'impegno che dovrebbe essere prioritario, quello nel "mondo vasto e complicato", quello oltre il sagrato e il web.
(fonte: Vino Nuovo 29 maggio 2023)


lunedì 29 maggio 2023

Papa Francesco consegna a Mattarella il premio Paolo VI: «Maestro di servizio e responsabilità» (testi e video integrali)

CONSEGNA DEL "PREMIO PAOLO VI" DELL'ISTITUTO PAOLO VI DI BRESCIA
AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA ITALIANA SERGIO MATTARELLA
 

Sala Clementina
Lunedì, 29 maggio 2023


Guarda il video integrale

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Papa Francesco consegna a Mattarella il premio Paolo VI: «Maestro di servizio e responsabilità»

Oggi il conferimento del Premio Paolo VI al Presidente della Repubblica. Mattarella ha chiesto di devolvere la somma del premio agli alluvionati dell'Emilia-Romagna

(Afp)

«Sono lieto, signor Presidente, di farmi strumento di riconoscenza a nome di quanti, giovani e meno giovani, vedono in lei un maestro….». Papa Francesco guarda Sergio Mattarella che fa un breve cenno come per dire: no, no… Ma papa Francesco torna sulla parola: «Sì, un maestro ma soprattutto un testimone coerente e garbato di servizio e di responsabilità. Amo dire che “non serve per vivere chi non vive per servire”. E credo che oggi il conferimento del Premio Paolo VI al Presidente Mattarella sia proprio una bella occasione per celebrare il valore e la dignità del servizio, lo stile più alto del vivere, che pone gli altri prima delle proprie aspettative. Che ciò sia vero per Lei, Signor Presidente, lo testimonia il popolo italiano, che non dimentica la sua rinuncia al meritato riposo fatta in nome del servizio richiestole dallo Stato».

È solo uno dei passaggi significativi con cui papa Francesco si è rivolto al presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante la consegna del premio internazionale «Paolo VI» 2023 assegnato dall’Istituto Paolo VI nato, dopo la morte di papa Montini, per iniziativa dell’Opera per l’educazione cristiana di Brescia. Papa Francesco ha anche ricordato il fratello Piersanti Mattarella: «A proposito di responsabilità, penso a quella componente essenziale del vivere comune che è l’impegno per la legalità. Essa richiede lotta ed esempio, determinazione e memoria, memoria di quanti hanno sacrificato la vita per la giustizia; penso a suo fratello Piersanti, Signor Presidente, e alle vittime della strage mafiosa di Capaci, di cui pochi giorni fa si è commemorato il trentennale. San Paolo VI notava che nelle società democratiche non mancano istituzioni, patti e statuti, ma “manca tante volte l’osservanza libera ed onesta della legalità”» .

La cerimonia si è svolta nella meraviglia della Sala Clementina, voluta da Clemente VIII nel XVI secolo in onore di papa san Clemente I, terzo successore di san Pietro. Sopra le porte principali di ingresso alla sala splendono gli affreschi del fiammingo Paul Bril dedicati proprio al martirio di san papa Clemente I. Il pontefice ha anche ricordato la figura di san Paolo VI legandola al ruolo di chi ha in mano le sorti della cosa pubblica: «San Paolo VI disse che quanti esercitano il potere pubblico devono considerarsi “come i servitori dei loro compatrioti, con il disinteresse e l’integrità che convengono alla loro alta funzione”. E sentenziò: “Il dovere del servizio è inerente all’autorità; e tanto maggiore è tale dovere quanto più alta è tale autorità”. Eppure, sappiamo bene quanto ciò non sia facile e come la tentazione diffusa, in ogni tempo, anche nei migliori sistemi politici, sia di servirsi dell’autorità anziché di servire attraverso l’autorità.» Il presidente della Repubblica, che ha chiesto di devolvere la somma legata al premio alla Comunità Giovanni XXIII in Romagna (molte sue sedi di accoglienza sono state colpite dall’alluvione) ha così risposto, ringraziando per il premio: «Papa Paolo VI è stato il papa del passaggio dalla mia giovinezza all'età matura. È anche per questo che è così emozionante ricevere questo premio e riceverlo dalla mani del Santo Padre».

Il Comitato scientifico e il Comitato esecutivo hanno deciso di conferirlo al politico ispirato ai valori cristiani e, insieme, rigoroso nel servizio delle istituzioni civili. «In Sergio Mattarella è possibile riconoscere l’erede di una grande tradizione di politici cattolici che hanno pensato e contribuito a realizzare l’Unione Europea come spazio di convivenza pacifica e democratica tra i popoli». L’Istituto Paolo VI è un Centro di studi e di documentazione sulla figura, l’opera e il magistero di Giovanni Battista Montini-Paolo VI. Tra le sue finalità la creazione di una biblioteca specializzata, di un archivio, la promozione di incontri di studio e di pubblicazioni tematiche.

Il riconoscimento è stato attribuito per la prima volta nel 1984 ad Hans Urs von Balthasar per gli studi teologici e a consegnarlo è stato Giovanni Paolo II. Sono stati poi premiati nel 1988 Olivier Messiaen per la musica, nel 1993 Oscar Cullmann per l’ecumenismo, nel 2003 Paul Ricoeur per la filosofia e nel 2009 la Collana Sources Chrétiennes per l’educazione.
(fonte: Corriere della Sera, articolo di Paolo Conti 29/05/2023)

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO


Signor Presidente della Repubblica,
distinte Autorità civili e religiose,
gentili Signore e Signori,
cari fratelli e sorelle!

Vi do il benvenuto e vi saluto cordialmente, felice per la vostra presenza. Sono lieto di consegnare al Presidente Sergio Mattarella il Premio Internazionale Paolo VI, che gli è stato attribuito dall’omonimo Istituto, al quale vorrei esprimere riconoscenza per il prezioso lavoro che svolge nella cura della memoria di Papa Montini: i suoi scritti e i suoi discorsi sono una miniera inesauribile di pensiero e testimoniano l’intensa vita spirituale da cui è sgorgata la sua azione di grande Pastore della Chiesa. Grazie dunque ai membri e ai collaboratori dell’Istituto, e grazie a quanti sono giunti dalla Diocesi di Brescia!

Il Concilio Vaticano II, per il quale dobbiamo essere tanto grati a San Paolo VI, ha sottolineato il ruolo dei fedeli laici, mettendone in luce il carattere secolare. I laici, infatti, in virtù del battesimo hanno una vera e propria missione, da svolgere «nel secolo, cioè implicati in tutti e singoli gli impieghi e gli affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale» (Lumen gentium, 31). E tra queste occupazioni spicca la politica, che è la «forma più alta di carità» (Pio XI, Ai dirigenti della Federazione Universitaria Cattolica, 18 dic. 1927). Ma – ci possiamo chiedere – come fare dell’agire politico una forma di carità e, d’altra parte, come vivere la carità, cioè l’amore nel senso più alto, all’interno delle dinamiche politiche?

Credo che la risposta risieda in una parola: servizio. San Paolo VI disse che quanti esercitano il potere pubblico devono considerarsi «come i servitori dei loro compatrioti, con il disinteresse e l’integrità che convengono alla loro alta funzione» (Ai rappresentanti dell’Unione Europea dei Democratici Cristiani, 8 apr. 1972). E sentenziò: «Il dovere del servizio è inerente all’autorità; e tanto maggiore è tale dovere quanto più alta è tale autorità» (Udienza gen., 1968). Eppure, sappiamo bene quanto ciò non sia facile e come la tentazione diffusa, in ogni tempo, anche nei migliori sistemi politici, sia di servirsi dell’autorità anziché di servire attraverso l’autorità. Com’è facile salire sul piedistallo e com’è difficile calarsi nel servizio degli altri!

Cristo stesso parlò della difficoltà a servire e prodigarsi per gli altri, ammettendo, con un realismo velato di tristezza, che «coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono». Ma subito disse ai suoi: «Tra voi però non è così, ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore» (Mc 10,42-43). Da allora in poi, per il cristiano, grandezza è sinonimo di servizio. Amo dire che “non serve per vivere chi non vive per servire”. E credo che oggi il conferimento del Premio Paolo VI al Presidente Mattarella sia proprio una bella occasione per celebrare il valore e la dignità del servizio, lo stile più alto del vivere, che pone gli altri prima delle proprie aspettative.

Che ciò sia vero per Lei, Signor Presidente, lo testimonia il popolo italiano, che non dimentica la sua rinuncia al meritato riposo fatta in nome del servizio richiestole dallo Stato. Una settimana fa ha voluto omaggiare, in occasione dei 150 anni dalla morte, quel grande italiano e cristiano che fu Alessandro Manzoni, capace di intessere con le parole la pregiata stoffa di valori sociali, religiosi e solidali del popolo italiano. Paolo VI lo definì «genio universale», «tesoro inesauribile di sapienza morale», «maestro di vita» (Regina caeli, 20 mag. 1973). Anch’io custodisco nel cuore tanti suoi personaggi. Penso al sarto, che racconta la buona laboriosità di chi concepisce la vita come il tempo dato al singolo per accrescere il bene altrui, per «industriarsi, aiutarsi, e poi esser contenti» (I promessi sposi, cap. XXIV). E con questo lavoro è riuscito ad esprimere uno dei passi più sapienti: «Non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene» (ibid.). Perché servire crea gioia e fa bene anzitutto a chi serve. Per dirla ancora con il Manzoni: «Si dovrebbe pensare più a far bene, che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio» (cap. XXXVIII).

Ma il servizio rischia di restare un ideale piuttosto astratto senza una seconda parola che non può mai esserle disgiunta: responsabilità. Essa, come indica la parola stessa, è l’abilità di offrire risposte, facendo leva sul proprio impegno, senza aspettare che siano altri a darle. Quante volte, Signor Presidente, prima con l’esempio che con le parole, Lei lo ha richiamato! Anche in questo non si può che notare una feconda affinità con Giovanni Battista Montini, che fin da giovane prete fu “educatore di responsabilità”. Da Papa, poi, scrisse che le parole servono a poco «se non sono accompagnate in ciascuno da una presa di coscienza più viva della propria responsabilità» (Lett. ap. Octogesima adveniens, 14 mag. 1971, 48). Perché, spiegava, «è troppo facile scaricare sugli altri la responsabilità delle ingiustizie, se non si è convinti allo stesso tempo che ciascuno vi partecipa e che è necessaria innanzi tutto la conversione personale» (ivi, 47). Sono parole che mi sembrano molto attuali oggi, quando viene quasi automatico colpevolizzare gli altri, mentre la passione per l’insieme si affievolisce e l’impegno comune rischia di eclissarsi davanti ai bisogni dell’individuo; dove, in un clima d’incertezza, la diffidenza si trasforma facilmente in indifferenza. La responsabilità, invece, come ci mostrano in questi giorni tanti cittadini dell’Emilia Romagna, chiama ciascuno ad andare contro-corrente rispetto al clima di disfattismo e lamentela, per sentire proprie le necessità altrui e riscoprire sé stessi come parti insostituibili dell’unico tessuto sociale e umano a cui tutti apparteniamo.

Sempre a proposito di responsabilità, penso a quella componente essenziale del vivere comune che è l’impegno per la legalità. Essa richiede lotta ed esempio, determinazione e memoria, memoria di quanti hanno sacrificato la vita per la giustizia; penso a suo fratello Piersanti, Signor Presidente, e alle vittime della strage mafiosa di Capaci, di cui pochi giorni fa si è commemorato il trentennale. San Paolo VI notava che nelle società democratiche non mancano istituzioni, patti e statuti, ma «manca tante volte l’osservanza libera ed onesta della legalità» e che lì «l’egoismo collettivo insorge» (Angelus, 31 ag. 1975). Anche in quest’ambito, Signor Presidente, con le sue parole e il suo esempio, avvalorati da quanto ha vissuto, Lei rappresenta un coerente maestro di responsabilità.

San Paolo VI sentì l’importanza della responsabilità di ciascuno per il mondo di tutti, per un mondo diventato globale. Lo fece parlando di pace – quanto è urgente oggi! –, lo fece esortando a lottare senza rassegnarsi di fronte agli squilibri delle ingiustizie planetarie, perché la questione sociale è questione morale e perché un’azione solidale dopo le guerre mondiali è veramente tale solo se è globale (cfr Lett. enc. Populorum progressio, 26 marzo 1967, 1). Oltre cinquant’anni fa, avvertì l’urgenza di fronteggiare le sfide climatiche, davanti alla minaccia di un ambiente che – scrisse – sarebbe diventato intollerabile all’uomo in conseguenza della distruttiva attività dell’uomo stesso che, spadroneggiando sul creato, si sarebbe trovato a non padroneggiarlo più. E precisò: «A queste nuove prospettive il cristiano deve dedicare la sua attenzione, per assumere, insieme con gli altri uomini, la responsabilità di un destino diventato ormai comune» (Octogesima adveniens, 21).

Sì, il senso di responsabilità e lo spirito di servizio stavano per San Paolo VI alla base della costruzione della vita sociale. Egli ci ha lasciato l’impegnativa eredità di edificare comunità solidali. Era il suo sogno, che si scontrò con vari incubi diventati realtà – penso alla terribile vicenda di Aldo Moro; era il desiderio ardente che portava nel cuore e che espresse nei termini di «comunità di partecipazione e di vita», animate dall’impegno a «prodigarsi per costruire solidarietà attive e vissute» (ivi, 47). Non sono utopie, ma profezie; profezie che esortano a vivere ideali alti. Perché di questo oggi hanno bisogno i giovani. E sono lieto, Signor Presidente, di farmi strumento di riconoscenza a nome di quanti, giovani e meno giovani, vedono in Lei un maestro, un maestro semplice, e soprattutto un testimone coerente e garbato di servizio e di responsabilità. Ne sarebbe lieto Papa Montini, del quale mi piace ripetere, infine, alcune parole tanto note quanto vere: «L’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 41). Grazie.

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SOLENNITÀ DI PENTECOSTE «Questo fa lo Spirito: ci fa sentire la vicinanza di Dio e così il suo amore scaccia il timore, illumina il cammino, consola, sostiene nelle avversità.» Papa Francesco Regina Coeli 28/05/2023 (testo e video)

SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

PAPA FRANCESCO

REGINA CAELI

Piazza San Pietro
Domenica, 28 maggio 2023


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, Solennità di Pentecoste, il Vangelo ci porta nel cenacolo, dove gli apostoli si erano rifugiati dopo la morte di Gesù (Gv 20,19-23). Il Risorto, la sera di Pasqua, si presenta proprio in quella situazione di paura e di angoscia e, soffiando su di loro, dice: «Ricevete lo Spirito Santo» (v. 22). Così, con il dono dello Spirito, Gesù desidera liberare i discepoli dalla paura, questa paura che li tiene rinchiusi in casa, e li libera perché siano capaci di uscire e diventino testimoni e annunciatori del Vangelo. Soffermiamoci un po’ su questo che fa lo Spirito: libera dalla paura.

I discepoli avevano chiuso le porte, dice il Vangelo, «per timore» (v. 19). La morte di Gesù li aveva sconvolti, i loro sogni erano andati in frantumi, le loro speranze erano svanite. E si erano chiusi dentro. Non solo in quella stanza, ma dentro, nel cuore. Vorrei sottolineare questo: chiusi dentro. Quante volte anche noi ci chiudiamo dentro noi stessi? Quante volte, per qualche situazione difficile, per qualche problema personale o familiare, per la sofferenza che ci segna o per il male che respiriamo attorno a noi, rischiamo di scivolare lentamente nella perdita della speranza e ci manca il coraggio di andare avanti? Tante volte succede questo. E allora, come gli apostoli, ci chiudiamo dentro, barricandoci nel labirinto delle preoccupazioni.

Fratelli e sorelle, questo “chiuderci dentro” accade quando, nelle situazioni più difficili, permettiamo alla paura di prendere il sopravvento e di fare la “voce grossa” dentro di noi. Quando entra la paura, noi ci chiudiamo. La causa, quindi, è la paura: paura di non farcela, di essere soli ad affrontare le battaglie di ogni giorno, di rischiare e poi di restare delusi, di fare delle scelte sbagliate. Fratelli, sorelle, la paura blocca, la paura paralizza. E anche isola: pensiamo alla paura dell’altro, di chi è straniero, di chi è diverso, di chi la pensa in un altro modo. E ci può essere persino la paura di Dio: che mi punisca, che ce l’abbia con me… Se diamo spazio a queste false paure, le porte si chiudono: porte del cuore, le porte della società, e anche le porte della Chiesa! Dove c’è paura, c’è chiusura. E non va bene.

Il Vangelo però ci offre il rimedio del Risorto: lo Spirito Santo. Lui libera dalle prigioni della paura. Quando ricevono lo Spirito, gli apostoli – lo festeggiamo oggi – escono dal cenacolo e vanno nel mondo a rimettere i peccati e ad annunciare la buona notizia. Grazie a Lui le paure si superano e le porte si aprono. Perché questo fa lo Spirito: ci fa sentire la vicinanza di Dio e così il suo amore scaccia il timore, illumina il cammino, consola, sostiene nelle avversità. Di fronte ai timori e alle chiusure, allora, invochiamo lo Spirito Santo per noi, per la Chiesa e per il mondo intero: perché una nuova Pentecoste scacci le paure che ci assalgono e ravvivi il fuoco dell’amore di Dio.

Maria Santissima, che per prima è stata ricolmata di Spirito Santo, interceda per noi.

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Dopo il Regina Caeli

Cari fratelli e sorelle!

Lo scorso 22 maggio si è commemorato il 150° anniversario della morte di una delle figure più alte della letteratura, Alessandro Manzoni. Egli, attraverso le sue opere, è stato cantore delle vittime e degli ultimi: essi sono sempre sotto la mano protettrice della Provvidenza divina, che «atterra e suscita, affanna e consola»; e sono sostenuti anche dalla vicinanza dei pastori fedeli della Chiesa, presenti nelle pagine del capolavoro manzoniano.

Invito a pregare per le popolazioni che vivono al confine tra Myanmar e Bangladesh, duramente colpite da un ciclone: più di ottocentomila persone, oltre ai tanti Rohingya che già vivono in condizioni precarie. Mentre rinnovo a queste popolazioni la mia vicinanza, mi rivolgo ai Responsabili, perché favoriscano l’accesso degli aiuti umanitari, e faccio appello al senso di solidarietà umana ed ecclesiale per soccorrere questi nostri fratelli e sorelle.

Saluto di cuore tutti voi, romani e pellegrini dell’Italia e di tanti Paesi, in particolare i fedeli provenienti da Panama e il pellegrinaggio dell’Arcidiocesi di Tulancingo (Mexico) che celebra Nuestra Señora de los Angeles; come pure il gruppo di Novellana (Spagna). Saluto inoltre i fedeli di Celeseo (Padova) e di Bari, e invio la mia benedizione a quanti sono radunati al Policlinico Gemelli per promuovere iniziative di fraternità con gli ammalati.

Mercoledì prossimo, a conclusione del mese di maggio, nei Santuari mariani di tutto il mondo sono previsti momenti di preghiera a sostegno dei preparativi alla prossima Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Chiediamo alla Vergine Maria che accompagni questa importante tappa del Sinodo con la sua materna protezione. E a Lei affidiamo anche il desiderio di pace di tante popolazioni in tutto il mondo, specialmente della martoriata Ucraina.

A tutti auguro buona domenica. E per favore non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

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SOLENNITÀ DI PENTECOSTE «Se il mondo è diviso, se la Chiesa si polarizza, se il cuore si frammenta, non perdiamo tempo a criticare gli altri e ad arrabbiarci con noi stessi, ma invochiamo lo Spirito: Lui è capace di risolvere queste cose.» Papa Francesco Omelia 28/05/2022 (testo e video)

SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

Basilica di San Pietro
Domenica, 28 maggio 2023


OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO


La Parola di Dio oggi ci mostra lo Spirito Santo in azione. Lo vediamo agire in tre momenti: nel mondo che ha creato, nella Chiesa e nei nostri cuori.

1. Anzitutto nel mondo che ha creato, nella creazione. Fin dall’inizio lo Spirito Santo è all’opera: «Mandi il tuo spirito, sono creati», abbiamo pregato con il Salmo (104,30). Egli, infatti, è creator Spiritus (cfr S. Agostino, In Ps., XXXII,2,2), Spirito creatore: così la Chiesa lo invoca da secoli. Ma, possiamo chiederci, che cosa fa lo Spirito nella creazione del mondo? Se tutto ha origine dal Padre, se tutto è creato per mezzo del Figlio, qual è il ruolo specifico dello Spirito? Un grande Padre della Chiesa, San Basilio, ha scritto: «Se provi a sottrarre lo Spirito alla creazione, tutte le cose si mescolano e la loro vita appare senza legge, senza ordine» (Spir., XVI,38). Ecco il ruolo dello Spirito: è Colui che, al principio e in ogni tempo, fa passare le realtà create dal disordine all’ordine, dalla dispersione alla coesione, dalla confusione all’armonia. Questo modo di agire lo vedremo sempre, nella vita della Chiesa. Egli dà al mondo, in una parola, armonia; così «dirige il corso dei tempi e rinnova la faccia della terra» (Gaudium et spes, 26; Sal 104,30). Rinnova la terra, ma attenzione: non cambiando la realtà, bensì armonizzandola; questo è il suo stile perché Egli è in se stesso armonia: Ipse harmonia est (cfr S. Basilio, In Ps., 29,1), dice un Padre della Chiesa.

Oggi nel mondo c’è tanta discordia, tanta divisione. Siamo tutti collegati eppure ci troviamo scollegati tra di noi, anestetizzati dall’indifferenza e oppressi dalla solitudine. Tante guerre, tanti conflitti: sembra incredibile il male che l’uomo può compiere! Ma, in realtà, ad alimentare le nostre ostilità c’è lo spirito della divisione, il diavolo, il cui nome significa proprio “divisore”. Sì, a precedere ed eccedere il nostro male, la nostra disgregazione, c’è lo spirito maligno che «seduce tutta la terra» (Ap 12,9). Egli gode degli antagonismi, delle ingiustizie, delle calunnie, è la sua gioia. E, di fronte al male della discordia, i nostri sforzi per costruire l’armonia non bastano. Ecco allora che il Signore, al culmine della sua Pasqua, al culmine della salvezza, riversa sul mondo creato il suo Spirito buono, lo Spirito Santo, che si oppone allo spirito divisore perché è armonia, Spirito di unità che porta la pace. Invochiamolo ogni giorno sul nostro mondo, sulla nostra vita e davanti ad ogni tipo di divisione!

2. Oltre che nella creazione, lo vediamo all’opera nella Chiesa, a partire dal giorno di Pentecoste. Notiamo però che lo Spirito non dà inizio alla Chiesa impartendo istruzioni e norme alla comunità, ma scendendo su ciascun Apostolo: ognuno riceve grazie particolari e carismi differenti. Tutta questa pluralità di doni diversi potrebbe ingenerare confusione, ma lo Spirito, come nella creazione, proprio a partire dalla pluralità ama creare armonia. La sua armonia non è un ordine imposto e omologato, no; nella Chiesa c’è un ordine «organizzato secondo la diversità dei doni dello Spirito» (S. Basilio, Spir., XVI,39). A Pentecoste, infatti, lo Spirito Santo scende in tante lingue di fuoco: dà a ciascuno la capacità di parlare altre lingue (cfr At 2,4) e di sentire la propria lingua parlata dagli altri (cfr At 2,6.11). Dunque non crea una lingua uguale per tutti, non cancella le differenze, le culture, ma armonizza tutto senza omologare, senza uniformare. E ciò deve farci pensare in questo momento, nel quale la tentazione dell’“indietrismo” cerca di omologare tutto in discipline soltanto di apparenza, senza sostanza. Restiamo su questo aspetto, sullo Spirito che non comincia da un progetto strutturato, come faremmo noi, che spesso poi ci disperdiamo nei nostri programmi; no, Lui inizia elargendo doni gratuiti e sovrabbondanti. Infatti a Pentecoste, sottolinea il testo, «tutti furono colmati di Spirito Santo» (At 2,4). Tutti colmati, così comincia la vita della Chiesa: non da un piano preciso e articolato, ma dallo sperimentare il medesimo amore di Dio. Lo Spirito crea armonia così, ci invita a provare stupore per il suo amore e per i suoi doni presenti negli altri. Come ci ha detto San Paolo: «Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito […] Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo» (1 Cor 12,4.13). Vedere ogni fratello e sorella nella fede come parte dello stesso corpo a cui appartengo: questo è lo sguardo armonioso dello Spirito, questo il cammino che ci indica!

E il Sinodo in corso è – e dev’essere – un cammino secondo lo Spirito: non un parlamento per reclamare diritti e bisogni secondo l’agenda del mondo, non l’occasione per andare dove porta il vento, ma l’opportunità per essere docili al soffio dello Spirito. Perché, nel mare della storia, la Chiesa naviga solo con Lui, che è «l’anima della Chiesa» (S. Paolo VI, Discorso al Sacro Collegio per gli Auguri onomastici, 21 giugno 1976), il cuore della sinodalità, il motore dell’evangelizzazione. Senza di Lui la Chiesa è inerte, la fede è solo una dottrina, la morale solo un dovere, la pastorale solo un lavoro. A volte sentiamo cosiddetti pensatori, teologi, che ci danno dottrine fredde, sembrano matematiche, perché manca lo Spirito dentro. Con Lui, invece, la fede è vita, l’amore del Signore ci conquista e la speranza rinasce. Rimettiamo lo Spirito Santo al centro della Chiesa, altrimenti il nostro cuore non sarà bruciato dall’amore per Gesù, ma per noi stessi. Mettiamo lo Spirito al principio e al cuore dei lavori sinodali. Perché “di Lui, soprattutto, ha oggi bisogno la Chiesa! Diciamogli dunque ogni giorno: vieni!” (cfr Id., Udienza generale, 29 novembre 1972). E camminiamo insieme, perché lo Spirito, come a Pentecoste, ama discendere mentre “tutti si trovano insieme” (cfr At 2,1). Sì, per mostrarsi al mondo Egli ha scelto il momento e il luogo in cui tutti stavano insieme. Il Popolo di Dio, per essere ricolmo dello Spirito, deve dunque camminare insieme, fare sinodo. Così si rinnova l’armonia nella Chiesa: camminando insieme con lo Spirito al centro. Fratelli e sorelle, costruiamo armonia nella Chiesa!

3. Infine lo Spirito fa armonia nei nostri cuori. Lo vediamo nel Vangelo, dove Gesù, la sera di Pasqua, soffia sui discepoli e dice: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Lo dona per uno scopo preciso: per perdonare i peccati, cioè per riconciliare gli animi, per armonizzare i cuori lacerati dal male, frantumati dalle ferite, disgregati dai sensi di colpa. Solo lo Spirito rimette armonia nel cuore, perché è Colui che crea «l’intimità con Dio» (S. Basilio, Spir., XIX,49). Se vogliamo armonia cerchiamo Lui, non dei riempitivi mondani. Invochiamo lo Spirito Santo ogni giorno, iniziamo ogni giornata pregandolo, diventiamo docili a Lui!

E oggi, nella sua festa, chiediamoci: io sono docile all’armonia dello Spirito? Oppure perseguo i miei progetti, le mie idee senza lasciarmi plasmare, senza farmi cambiare da Lui? Il mio modo di vivere la fede è docile allo Spirito o è testardo? Attaccato in modo testardo alle lettere, alle cosiddette dottrine che sono soltanto espressioni fredde della vita? Sono frettoloso nel giudicare, punto il dito e sbatto porte in faccia agli altri, ritenendomi vittima di tutti e di tutto? Oppure accolgo la sua potenza creatrice armoniosa, accolgo la “grazia dell’insieme” che Egli ispira, il suo perdono che dà pace? E a mia volta perdono? Il perdono è fare spazio perché venga lo Spirito. Promuovo riconciliazione e creo comunione, o sempre sto cercando, ficcando il naso dove ci sono difficoltà per sparlare, per dividere, per distruggere? Perdono, promuovo riconciliazione, creo comunione? Se il mondo è diviso, se la Chiesa si polarizza, se il cuore si frammenta, non perdiamo tempo a criticare gli altri e ad arrabbiarci con noi stessi, ma invochiamo lo Spirito: Lui è capace di risolvere queste cose.

Spirito Santo, Spirito di Gesù e del Padre, sorgente inesauribile di armonia, ti affidiamo il mondo, ti consacriamo la Chiesa e i nostri cuori. Vieni Spirito creatore, armonia dell’umanità, rinnova la faccia della terra. Vieni Dono dei doni, armonia della Chiesa, rendici uniti in Te. Vieni Spirito del perdono, armonia del cuore, trasformaci come Tu sai, per mezzo di Maria.

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domenica 28 maggio 2023

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - DOMENICA DI PENTECOSTE - A

Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)

Preghiera dei Fedeli


 DOMENICA DI PENTECOSTE - A
28 Maggio 2023 

Per chi presiede

Fratelli e sorelle, nel battesimo ognuno di noi è stato unto con l’olio dello Spirito. È Lui che impregna i nostri pensieri e ci sigilla nella nostra appartenenza all’umanità gloriosa del Signore Gesù. Confidenti in Dio Padre, innalziamo le nostre preghiere ed insieme invochiamo la venuta dello Spirito:


R/  Vieni, Spirito Consolatore

Lettore

- Spirito del Padre e del Figlio, Tu che sei soffio, fuoco, acqua, abbraccia tutta la Chiesa dispersa in mezzo ai popoli. Rinnovala dal di dentro, falle il dono di una parola vera, perché possa annunciare in tutti i linguaggi umani l’Evangelo della paternità di Dio così come si è rivelata in Cristo Gesù. Invochiamo insieme.

- Spirito Santo, luce dei cuori, illumina le menti di chi ha responsabilità di guida nella Chiesa: papa Francesco e con lui tutti i vescovi. Dona loro coraggio e apertura di mente e di cuore, affinché nella Chiesa tutti si cresca nella corresponsabilità, e le donne, finora escluse da ogni ministerialità, possano ritrovare il loro vero posto, uscendo, così, da un ruolo di minorità e di subalternità. Invochiamo insieme.

- Spirito Santo, soffio del Padre e del Figlio, padre dei poveri e datore di ogni bene, sostieni la vita dei numerosi popoli segnati dalla guerra, dalla carestia e dalla fame, come l’Ucraina, lo Yemen, la Siria, il Sud-Sudan, il Sahel africano. Suscita nel mondo profeti e testimoni, che spingano i governi a cercare non la supremazia militare del proprio Paese, ma la solidarietà e la cooperazione con tutti. Invochiamo insieme.

- Vieni, o Spirito Santo e riempi della tua presenza energica e delicata l’intimo delle nostre case. Piega ogni durezza dei cuori, rinnova l’amore coniugale affievolito, dona alle nostre famiglie la capacità di dialogare, di donarsi il perdono reciproco e di saper pregare insieme. Invochiamo insieme.

- Davanti al Figlio Gesù, che dalla Croce ci dona il Soffio del suo Spirito, ci ricordiamo dei nostri parenti e amici defunti [pausa di silenzio]; ci ricordiamo anche delle numerose vittime sul lavoro e sulla strada, e delle vittime dell’omofobia e misoginia. Su tutti scenda la pace e la consolazione dello Spirito Santo. Invochiamo insieme.


Per chi presiede

Compi per noi, o Dio nostro Padre, la promessa del tuo Figlio Gesù: invia il Consolatore, il Fuoco dello Spirito che purifica e rinnova la sua Chiesa, e accende fra tutti gli uomini desideri e progetti di amore, di giustizia e di pace. Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore. AMEN.


"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 28 - 2022/2023 anno A

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


DOMENICA DI PENTECOSTE (ANNO A)

Vangelo:



«La Pace sia con voi!» è il saluto e l'augurio del Risorto ai suoi discepoli riuniti nel cenacolo, pienezza di ogni benedizione che il Padre ha profuso sull'umanità. E' il dono dello Shalom, il frutto di un amore che vince la morte che il mondo non può conoscere perché guidato da un altro spirito. Il Risorto, il Vivente si rende presente "nel mezzo", nel profondo del cuore della sua comunità come unico e solo punto di riferimento e fattore di unità. Le mani e il fianco feriti, segni visibili del suo immenso amore per noi, sono le inesauribili sorgenti della nostra guarigione e salvezza. Ora che «tutto è compiuto!», Gesù mantiene la sua promessa e ci fa dono del suo Spirito, la Vita del Padre, lo Spirito che ha animato l'intera sua esistenza e che ora viene donato anche a noi perché, come Lui e in Lui, possiamo diventare degni figli del Padre e fratelli tra di noi. E' la Pentecoste, il dono del suo Spirito che ci è stato consegnato come anticipo sotto la croce (cfr. Gv 19,30); il Paraclito che è sceso e si è posato su l'Agnello di Dio (cfr. Gv 1,31-32), adesso avvolge e santifica anche noi suoi discepoli, perché anche noi possiamo diventare capaci di proseguire la sua opera di riconciliazione nel mondo. E' il dono per eccellenza, il dono dei doni, quello che ci dà la forza di rinunciare alle seduzioni della violenza e del potere, che ci abilita a parlare il linguaggio dell'amore per ogni uomo, anche per il nemico, l'unico linguaggio che tutti siamo in grado di comprendere.