giovedì 31 ottobre 2019

«Se noi non arriviamo a sentire, a capire la tenerezza dell’amore di Dio in Gesù per ognuno di noi, mai, mai potremo capire cosa è l’amore di Cristo.» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)



S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
31 ottobre 2019
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 

Papa Francesco:
“Quello di Cristo non è amore da telenovela”


Capire la tenerezza dell’amore di Dio in Gesù per ognuno di noi: solo così, ha detto Papa Francesco, potremo comprendere realmente l’amore di Cristo. Lo Spirito Santo ci faccia capire «l’amore di Cristo per noi» e prepari il nostro cuore per «lasciarci amare» dal Signore. Questa la raccomandazione del Pontefice soffermandosi, durante la messa celebrata la mattina di giovedì 31 ottobre a Casa Santa Marta, sull’odierna prima lettura, tratta dalla Lettera di san Paolo ai Romani. Nell’omelia, il Pontefice ha spiegato come l’Apostolo delle genti potrebbe sembrare addirittura «un po’ superbo», «troppo sicuro di sé» nell’affermare che nemmeno «la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada» riusciranno a separarci «dall’amore di Cristo».

Eppure, ha evidenziato il Papa leggendo san Paolo, «siamo più che vincitori» con l’amore del Signore. San Paolo lo era perché, ha spiegato Francesco, dal momento in cui «il Signore lo chiamò sulla strada di Damasco, cominciò a capire il mistero di Cristo»: «si era innamorato di Cristo», preso — ha osservato il Papa — da «un amore forte», «grande», non un «argomento» da «telenovela». Un amore «sul serio», al punto da «sentire che il Signore lo accompagnava sempre nelle cose belle e nelle cose brutte».

«Questo — ha notato Francesco — lo sentiva con amore. E io mi domando: ma io amo il Signore così? Quando vengono momenti brutti, quante volte uno sente la voglia di dire: “Il Signore mi ha abbandonato, non mi ama più” e vorrebbe lasciare il Signore. Ma Paolo era sicuro che il Signore mai abbandona. Aveva capito nella propria vita l’amore di Cristo. Questa è la strada che ci fa vedere Paolo: la strada dell’amore, sempre, nelle buone e nelle brutte, sempre, e avanti. Questa è la grandezza di Paolo».

L’amore di Cristo, ha aggiunto il Pontefice, «non si può descrivere», è qualcosa di grande. «È proprio Lui — ha detto — che è stato inviato dal Padre a salvarci e lo ha fatto con amore, ha dato la vita per me: non c’è amore più grande di dare la vita per un altro. Pensiamo a una mamma, l’amore di una mamma, per esempio, che dà la vita per il figlio, lo accompagna sempre nella vita, nei momenti difficili ma questo ancora è poco... È un amore vicino a noi, non è un amore astratto l’amore di Gesù, è un amore io-tu, io-tu, ognuno di noi, con nome e cognome».

Nel Vangelo di Luca, il Papa ha notato «qualcosa dell’amore concreto di Gesù». Parlando di Gerusalemme, Gesù ricordò le volte in cui tentò di raccogliere i suoi figli, «come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali», e gli fu impedito. Quindi «pianse».

«L’amore di Cristo — ha chiarito Francesco — lo porta al pianto, al pianto per ognuno di noi. La tenerezza che c’è in questa espressione. Gesù poteva condannare Gerusalemme, dire cose brutte... E si lamenta perché non si lascia amare come i pulcini della chioccia. Questa tenerezza dell’amore di Dio in Gesù. E questo aveva capito Paolo. Se noi non arriviamo a sentire, a capire la tenerezza dell’amore di Dio in Gesù per ognuno di noi, mai, mai potremo capire cosa è l’amore di Cristo. È un amore così, aspetta sempre, paziente, l’amore che gioca quell’ultima carta con Giuda: “Amico”, gli dà la via d’uscita, fino alla fine. Anche con i grandi peccatori, fino alla fine Lui ama con questa tenerezza. Non so se noi pensiamo a Gesù così tenero, a Gesù che piange, come ha pianto davanti alla tomba di Lazzaro, come ha pianto qui, guardando Gerusalemme».

Francesco ha esortato quindi a chiedersi se Gesù pianga per noi, Lui che ci ha dato «tante cose» mentre noi spesso scegliamo di andare «per un’altra strada». L’amore di Dio «si fa lacrima, si fa pianto, pianto di tenerezza in Gesù», ha ribadito. Per questo, ha concluso il Pontefice, san Paolo «si era innamorato di Cristo e nessuna cosa poteva staccarlo da Lui».
(fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Giada Aquilino)

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Omelia di p. Gregorio Battaglia (VIDEO) - 27.10.2019 - XXX domenica T.O. (C)

Omelia di p. Gregorio Battaglia 
(VIDEO)

27.10.2019
XXX domenica T.O. (C)

Fraternità Carmelitana 

di Barcellona Pozzo di Gotto









... domenica scorsa Gesù ci diceva che è necessario pregare, una necessità assoluta, non ne possiamo fare a meno, è ne dava anche la motivazione: per non incattivirci... Questa domenica Gesù continua ancora... Se Gesù insiste tanto sulla preghiera è perché imparare a pregare è ... la stessa cosa che imparare a vivere, perché il nostro modo di rapportarci a Dio di fatto coinvolge il nostro modo di abitare la terra, il nostro modo di rapportarci agli altri... Imparare a pregare è anche imparare a vivere! Il Signore ci dia il gusto del pregare, dello stare davanti a Lui, perché con Lui possiamo affrontare la nostra giornata e affrontarla con uno sguardo diverso, il Suo sguardo, sguardo di pietà, sguardo di misericordia.


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Omelia integrale

"La Chiesa sinodale e la religione dell’io" di Andrea Monda

"La Chiesa sinodale
 e la religione dell’io"
 di Andrea Monda





Chi ci separerà dall’amore di Cristo? chiedeva l’apostolo Paolo ai cristiani di Roma. E la risposta era incoraggiante: niente e nessuno, «né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8, 38-39).

Il Papa nell’omelia di domenica per la messa di conclusione del Sinodo speciale per l’Amazzonia, ha voluto però mettere in allarme il cuore dei cattolici rispetto a qualcosa di potente e insidioso che potrebbe spezzare questo legame, qualcosa che è un altro legame, quello che Francesco chiama “la religione dell’io”, una religione «ipocrita con i suoi riti e le sue “preghiere” — tanti sono cattolici, si confessano cattolici, ma hanno dimenticato di essere cristiani e umani —, dimentica del vero culto a Dio, che passa sempre attraverso l’amore del prossimo. Anche cristiani che pregano e vanno a Messa la domenica sono sudditi di questa religione dell’io».

Solo una religione può vincere un’altra religione, meglio ancora: solo un amore scalza un altro amore. Emerge evidente la lezione di Sant’Agostino che nel quattordicesimo capitolo de La città di Dio parla delle due città (terrena e celeste) e dei due amori (amor sui e amor Dei), per cui la prima è contraddistinta da «un egoistico amore di se stessi tale da arrivare a disprezzare tutto ciò che riguarda Dio», la seconda da «un amore spirituale verso Dio tale da mettere da parte ogni amore di sé». È come se questo amore egoistico creasse una coltre di nubi capace di non far arrivare il raggio luminoso dell’amore di Dio e isolasse l’uomo in un illusorio senso di onnipotenza che lo astrae dalla realtà e dalla propria verità (che per Paolo VIè la sostanza della virtù dell’umiltà).

C’è però un rimedio, esiste qualcosa che riesce ad aprire un varco, a permettere il ricongiungimento con il divino e secondo il Papa è una voce, anzi un grido: «In questo Sinodo abbiamo avuto la grazia di ascoltare le voci dei poveri e di riflettere sulla precarietà delle loro vite» ha detto Francesco esortandoci a una preghiera precisa, concreta: «Preghiamo per chiedere la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa» e ha ripetuto: «Il grido dei poveri è il grido di speranza della Chiesa. Facendo nostro il loro grido, anche la nostra preghiera, siamo sicuri, attraverserà le nubi». Il discorso prosegue con le immagini di luce, «Perché dal diavolo vengono opacità e falsità [...] da Dio luce e verità, la trasparenza del mio cuore. È stato bello e ve ne sono tanto grato, cari Padri e Fratelli sinodali, aver dialogato in queste settimane col cuore, con sincerità e schiettezza, mettendo davanti a Dio e ai fratelli fatiche e speranze».

Ecco allora un primo frutto del Sinodo per l’Amazzonia che ha visto la vivace presenza delle popolazioni indigene all’interno dell’aula dell’assemblea: spezzare la religione dell’io, offrire la possibilità alla Chiesa di allargare lo sguardo uscendo dall’autoreferenzialità, allargare e insieme alzare lo sguardo, che si innalza proprio se riesce a chinarsi verso chi si trova nel bisogno: «Preghiamo per chiedere la grazia di sentirci bisognosi di misericordia, poveri dentro. Anche per questo ci fa bene frequentare i poveri, per ricordarci di essere poveri, per ricordarci che solo in un clima di povertà interiore agisce la salvezza di Dio. Sono loro che ci spalancheranno o meno le porte della vita eterna, loro che non si sono considerati padroni in questa vita, che non hanno messo se stessi prima degli altri, che hanno avuto solo in Dio la propria ricchezza. Essi sono icone vive della profezia cristiana». Un Sinodo dunque profetico, capace di attraversare le nubi dell’egoismo e gettare una luce di speranza per una Chiesa che lentamente sta apprendendo il modo per essere veramente sinodale, per camminare insieme.

(Fonte: Osservatore Romano - 28 ottobre 2019)



mercoledì 30 ottobre 2019

"VIOLENZA E INTOLLERANZA. MOSTRI GENERATI DAL SONNO DELLA RAGIONE" di Dacia Maraini

"VIOLENZA E INTOLLERANZA. 
MOSTRI GENERATI 
DAL SONNO DELLA RAGIONE" 
di Dacia Maraini 




Il sonno della ragione genera mostri, scriveva Goya sotto una bellissima acquaforte in cui si vede un uomo appoggiato a un tavolo con la testa nascosta fra le braccia e dietro di lui si sollevano uccellacci scuri dalle ali minacciosamente aperte e dietro ancora, contro un cielo plumbeo, una torma di pipistrelli giganti planano sinistri e intimidatori. Ecco, credo che niente come l’immagine di Goya e le parole che la accompagnano descrivano il momento attuale.
Le ideologie, ovvero i progetti per un cambiamento dei modi di convivenza, le utopie, ovvero i sogni che accompagnano il desiderio condiviso di un mondo migliore, avevano il potere di tenere insieme una tensione etica. Perse le prime e abbandonate le seconde, gli esseri umani sembrano avere piegato la testa sulle braccia, come l’addormentato di Goya e avere rinunciato a ragionare. E subito, alle loro spalle sono accorsi i vampiri. Cosa sono se non mostri, sanguisughe del pensiero, coloro che privi di qualsiasi memoria e simpatia umana, spediscono centinaia di insulti a una anziana sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti come Liliana Segre, oggi in prima linea nel difendere la memoria che quei pipistrelli stanno oscurando? In realtà i pipistrelli sono innocui e timidi animali, ma esiste un tipo, il vampiro di Azara, della famiglia dei Fillostomidi che si trova nell’America del sud. Ha due denti aguzzi che sporgono da una boccuccia da maiale. È questo il pipistrello mostro che disegna Goya e a cui si sono ispirati tutti i registi dei film sui vampiri, da Dracula a Nosferatu.
La ragione porta alla conoscenza, la conoscenza alla memoria, la memoria alla consapevolezza. La memoria Bergson la chiama coscienza storica. Senza coscienza storica precipitiamo nel caos, agitati da egoismi sfrenati, confusi da sentimenti primitivi. In questa atmosfera, nella vita pubblica i politici, anziché discutere sulle idee , hanno come unico scopo la denigrazione dell’avversario, senza rendersi conto che nello stesso tempo denigrano le Istituzioni. Nella vita privata prevale l’aggressione, la difesa cieca dell’io. Il clima si fa incandescente, ed è chiaro che il solo rimedio a un certo punto saranno le guerre, che già si annunciano nelle rissose controversie fra popoli e fra Paesi. Guerra: il modo più brutale e stupido di risolvere le cose: io comando perché ho vinto e tu obbedisci perché hai perso. Il che è esattamente il contrario della democrazia.

(Fonte;  “Corriere della Sera” - 29 ottobre 2019)

martedì 29 ottobre 2019

"La speranza è l'aria che respira il cristiano" Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)

S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
29 ottobre 2019


Papa Francesco:

La speranza è l'aria 
che respira il cristiano



La speranza è come buttare l’ancora all’altra riva. Ha usato quest’immagine Papa Francesco, alla messa di martedì 29 ottobre, a Casa Santa Marta, per esortare a vivere «in tensione» verso l’incontro con il Signore, altrimenti si finisce corrotti e la vita cristiana rischia di diventare una «dottrina filosofica».

La riflessione è partita dalla prima lettura della liturgia del giorno, tratta dalla lettera di san Paolo ai Romani (Rm 8, 18-25), nella quale l’apostolo «canta un inno alla speranza». Sicuramente «alcuni dei romani» sono andati a lamentarsi e Paolo esorta a guardare avanti. «Ritengo che le sofferenze del tempo presente non siano paragonabili alla gloria futura che sarà rivelata in noi» dice parlando anche della Creazione «protesa» verso la rivelazione. «Questa è la speranza: vivere protesi verso la rivelazione del Signore, verso l’incontro con il Signore» ha sottolineato quindi il Papa.

Ci possono essere sofferenze e problemi ma «questo è domani», mentre oggi «tu hai la caparra» di tale promessa che è lo Spirito Santo, il quale «ci aspetta» e «lavora» già da questo momento. La speranza è infatti «come buttare l’ancora all’altra riva» e attaccarsi alla corda. Ma «non solo noi», tutta la Creazione «nella speranza sarà liberata», entrerà nella gloria dei figli di Dio. E anche noi che possediamo le «primizie dello Spirito», la caparra, «gemiamo interiormente aspettando l’adozione».

«La speranza è questo vivere in tensione, sempre; sapere che non possiamo fare il nido qui: la vita del cristiano è “in tensione verso”», ha evidenziato il Papa. «Se un cristiano perde questa prospettiva — ha avvertito Francesco — la sua vita diventa statica e le cose che non si muovono, si corrompono. Pensiamo all’acqua: quando l’acqua è ferma, non corre, non si muove, si corrompe. Un cristiano che non è capace di essere proteso, di essere in tensione verso l’altra riva, gli manca qualcosa: finirà corrotto. Per lui, la vita cristiana sarà una dottrina filosofica, la vivrà così, lui dirà che è fede ma senza speranza non lo è».

Papa Francesco ha notato, poi, come sia «difficile capire la speranza». Se parliamo della fede, ci riferiamo alla «fede in Dio che ci ha creato, in Gesù che ci ha redento e recitare il Credo e sappiamo cose concrete della fede»; se parliamo della carità, riguarda il «fare del bene al prossimo, agli altri», tante opere di carità che si fanno all’altro. Ma la speranza è difficile comprenderla: «È la più umile delle virtù» che «soltanto i poveri possono avere».

«E noi vogliamo essere uomini e donne di speranza, dobbiamo essere poveri, poveri, non attaccati a niente. Poveri. E aperti verso l’altra riva» ha spiegato il Pontefice ricordando che «la speranza è umile, ed è una virtù che si lavora — diciamo così — tutti i giorni: tutti i giorni bisogna riprenderla, tutti i giorni bisogna prendere la corda e vedere che l’ancora sia fissa là e io la tengo in mano; tutti i giorni è necessario ricordare che abbiamo la caparra, che è lo Spirito che lavora in noi con piccole cose».

Per far capire come vivere la speranza, il Papa ha fatto poi riferimento all’insegnamento di Gesù nel brano del Vangelo del giorno (Luca 13, 18-21) quando paragona il regno di Dio al granello di senape gettato nel campo. «Aspettiamo che cresca», non andiamo tutti i giorni a vedere come va, perché altrimenti «non crescerà mai», ha evidenziato Francesco riferendosi alla «pazienza» perché, come dice Paolo, «la speranza ha bisogno di pazienza». È «la pazienza di sapere che noi seminiamo, ma è Dio a dare la crescita. La speranza è artigianale, piccola», ha proseguito il Pontefice, è «seminare un grano e lasciare che sia la terra a dare la crescita».

Per parlare della speranza, Gesù, nel brano del Vangelo commentato dal Papa, usa anche l’immagine del «lievito» che una donna prese e mescolò in tre misure di farina. Un lievito non tenuto in frigo ma «impastato nella vita», così come il granello viene sotterrato sotto terra. «Per questo, la speranza è una virtù che non si vede: lavora da sotto; ci fa andare a guardare da sotto. Non è facile vivere in speranza, ma io direi che dovrebbe essere l’aria che respira un cristiano, aria di speranza; al contrario, non potrà camminare, non potrà andare avanti perché non saprà dove andare» ha affermato Papa Francesco, che ha concluso rimarcando come «la speranza — questo sì, è certo — ci» dia «una sicurezza: la speranza non delude. Mai. Se tu speri, non sarai deluso. Bisogna aprirsi a quella promessa del Signore, protesi verso quella promessa, ma sapendo che c’è lo Spirito che lavora in noi. Che il Signore ci dia, a tutti noi, questa grazia di vivere in tensione, in tensione ma non per i nervi, i problemi, no: in tensione per lo Spirito Santo che ci getta verso l’altra riva e ci mantiene in speranza»
(Fonte: Osservatore Romano)

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Servizio Vatican news

#SinodoAmazonico. Il Documento finale: Chiesa alleata dell'Amazzonia - Sinodo dell' altro mondo di Enzo Bianchi

#SinodoAmazonico.
Il Documento finale: 
Chiesa alleata dell'Amazzonia 

Cinque capitoli, più un’introduzione ed una breve conclusione: così si articola il Documento finale dell’Assemblea Speciale per la Regione Panamazzonica, diffuso nella serata del 26 ottobre, per volere espresso del Papa. Tra i temi in esame, missione, inculturazione, ecologia integrale, difesa dei popoli indigeni, rito amazzonico, ruolo della donna e nuovi ministeri, soprattutto in zone in cui è difficile l’accesso all’Eucaristia

" ... oggi la Chiesa ha “l’opportunità storica” di prendere le distanze dalle nuove potenze colonizzatrici, prestando ascolto ai popoli amazzonici ed esercitando la sua attività profetica “in modo trasparente”.



Sinodo dell' altro mondo 
di Enzo Bianchi 
Nello scegliere un titolo per questo appuntamento settimanale con i lettori di Repubblica, sento nuovamente di dover mettere i miei interventi sotto l’espressione “altrimenti”. L’accento cade quindi sul “come” si pensa, sul “come” si comunica. Non ho pretese, non mi sento maestro ma semplice “insegnante” nel senso letterale di chi “fa segno”, chi indica e poi condivide quanto ha saputo discernere. Ho accettato la proposta del direttore e cercherò di onorarla finché mi sarà possibile, fino a quando voi lettori non giudicherete chiacchiere vane le mie parole.
Allora, per iniziare, cercherò di leggere “altrimenti” con voi il sinodo sull’Amazzonia appena concluso, un sinodo “dell’altro mondo”, che ha collocato al cuore della chiesa cattolica una periferia a noi lontana e poco conosciuta. La prospettiva data a questa assemblea di ascolto, confronto e anche scontro riguarda i cammini che la chiesa e l’umanità devono compiere per un’ecologia integrale. Un tema che non può essere isolato dalle forme stesse di vita della chiesa: così il processo avviato a partire da quelle terre amazzoniche avrà una ricaduta anche nelle altre chiese del mondo, fin oltre le porte della vecchia Europa.
I temi venuti alla ribalta, capaci di spaventare porzioni tradizionaliste della chiesa cattolica, sono quelli riguardanti la possibile apertura a presbiteri sposati e a un riconoscimento istituzionale per quei ministeri che le donne di fatto già svolgono in tante comunità cristiane.
Qui si sono manifestate le attuali contraddizioni: molte comunità in Amazzonia sono prive dell’eucaristia per mancanza e scarsità di presbiteri, eppure c’è chi preferisce questa grave carenza, che minaccia la vita della chiesa, piuttosto che mutare la disciplina canonica latina che prevede il celibato per i presbiteri ordinati. Ma il matrimonio, dono del Signore al pari del celibato, è vocazione che non ostacola né la santificazione né l’esercizio del ministero, anche se il celibato consente al missionario ordinato di dedicarsi pienamente al servizio della comunità.
Ed ecco la novità, della quale non sappiamo ora misurare la portata: d’ora in poi l’ordine presbiterale sarà aperto a diaconi permanenti che sono sposati e che hanno mostrato di saper servire nella loro condizione uxorata il popolo di Dio.
Quanto alle donne, pare tuttora impensabile pensare di aprire loro l’accesso all’ordine, anche al diaconato, ma perché manca l’audacia di creare nuovi ministeri nei quali i laici di entrambi i sessi possano esprimere i carismi loro propri anche attraverso la presa della parola nell’assemblea liturgica e la corresponsabilità pastorale della comunità? Perché i semplici battezzati — e in particolare le donne — sono assenti o senza possibilità di decisione nei luoghi istituzionali?
Questo sinodo è stato una tappa decisiva di un processo avviato e non arrestabile.
Sarà ancora una volta papa Francesco — come nel sinodo sulla famiglia — a perseguire vie profetiche che, senza contraddire la grande tradizione, aiutino la chiesa intera a rispondere alle esigenze attuali di un mondo non più cristiano eppure ancora capace di ascoltare il Vangelo!

(Fonte: “la Repubblica”  - 28 ottobre 2019)


Leggi anche i post già pubblicati:
- In questo Sinodo abbiamo avuto la grazia di ascoltare le voci dei poveri e di riflettere sulla precarietà delle loro vite, minacciate da modelli di sviluppo predatori.

- Che cosa è stato il Sinodo? È stato, come dice la parola, un camminare insieme, confortati dal coraggio e dalle consolazioni che vengono dal Signore.


lunedì 28 ottobre 2019

"L’amore è la vittoria sulla paura" Card. Matteo Zuppi - Intervista a "Che tempo che fa" del 27 ottobre 2019

"L’amore è la vittoria sulla paura"
Papa Francesco vuole una Chiesa che non si chiuda nella paura 
ma che abbia fiducia di cambiare uscendo, andando incontro all'uomo"
Card. Matteo Zuppi 
 Intervista a "Che tempo che fa"
del 27 ottobre 2019


Il cardinale in tv ha presentato 

il suo libro “Odierai il prossimo tuo” 
che uscirà il 26 novembre







"L’odio si crede intelligente perché crede di identificare il nemico - ha detto Zuppi - di essere muscolare, di anticipare i problemi, mentre l’amore è visto come buonismo, che è una caricatura. Invece l’amore è la vittoria sulla paura". All’intervistatore che chiede da dove arrivi questa paura che sembra la cifra del presente, Zuppi risponde: "Siamo individualisti e amiamo di meno, siamo indifferenti, abbiamo meno attenzione per gli altri, siamo più conservatori di noi stessi e quindi più fragili".

Ma non sempre l’odio e la paura sono spontanei, come non lo sono del tutto le critiche a Papa Bergoglio che prendono piede ad esempio sui social. "Gli attacchi al Papa ci sono sempre stati ma bisogna dire che incide anche il mondo digitale e certi investimenti - ha detto il cardinale - non è sempre casuale, c’è anche chi produce le notizie e invade il web e si tratta di fabbriche invisibili".
Attacchi al Papa  ... "su Papa Francesco c'è un accanimento indecoroso che viene da dentro la Chiesa e questo è inaccettabile".

Tra i primi punti ora, prosegue il cardinale, occorre rispondere alla sua richiesta di "conversione pastorale e missionaria. Papa Francesco vuole una Chiesa che non si chiuda nella paura ma che abbia fiducia di cambiare uscendo, andando incontro all'uomo"



Il vescovo poi ha sostenuto l’esigenza dell’introduzione dello Ius culturae, la cittadinanza per i bambini nati in Italia al termine di un ciclo di studi. "Bisogna dare delle regole che guardano avanti - ha detto - che siano capaci di dare risposte a coloro che di fatto sono italiani. La scuola questo problema non ce l’ha perché per un maestro i suoi alunni sono italiani. Un maestro o un professore sono in prima linea, lo Ius culturale è un modo per dare chiarezza, che vuol dire diritti, doveri e un futuro". Anche perché i «problemi vengono deformati e ingigantiti, pensiamo che arrivino in tanti come immigrati e non ci accorgiamo che sono di più quelli che emigrano".

Zuppi infine si è pronunciato contro l’esibizione dei simboli religiosi, dicendo chiaramente: 
"Il problema è viverli nella quotidianità quei simboli, l’esibizione è una tentazione cui resistere".  E poi ha affrontato anche il tema della laicità. "Sembra strano che la Chiesa difenda la laicità, ma questa non è arrendevolezza - ha detto il cardinale - il punto è che il Vangelo va vissuto nella storia. Quando si ha paura si ricercano risposte immediate". "La Chiesa non è di parte, sta dalla parte della persona", ha sottolineato rispondendo a coloro secondo la quale "la Chiesa non parla più di Dio. Non facciamo altro che parlare di Dio.  Il Papa non fa altro che parlare di Dio"

L’inferno per Zuppi è "un mondo in cui si sta soli, circondati da specchi e sempre connessi". Il Papa gli ha chiesto "poca mondanità e molta compassione" e Zuppi ha provato a spiegarlo, dal piccolo schermo.



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Intervista integrale

Chiedere al Signore la «luce» per «conoscere bene» cosa succede «dentro» ogni persona - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
25 ottobre 2019

Papa Francesco:
Chiedere al Signore la «luce» 
per «conoscere bene» 
cosa succede «dentro» ogni persona


Chiedere al Signore la «luce» per «conoscere bene» cosa succede «dentro» ogni persona. Questa l’invocazione di Papa Francesco alla messa di venerdì mattina , 25 ottobre, nella cappella di Casa Santa Marta.

Riflettendo sulla prima lettura, tratta dalla lettera di san Paolo ai Romani, il Pontefice si è soffermato sulla «lotta interiore» e «continua» dell’Apostolo delle genti «fra il desiderio di fare il bene» e l’incapacità «di attuarlo»: una vera e propria «guerra» che «è dentro di lui».

Qualcuno — ha detto Francesco — potrebbe chiedersi se, compiendo «il male che non vuole», san Paolo sia «all’inferno», sia «uno sconfitto»: eppure, ha ricordato il Pontefice, «è un santo», perché «anche i santi sentono questa guerra dentro se stessi». È «una legge per tutti», «una guerra di tutti i giorni».

«È una lotta tra il bene e il male — ha proseguito il Papa — ma non un bene astratto e un male astratto: fra il bene che ci ispira lo Spirito Santo di fare e il male che ci ispira il cattivo spirito di fare. È una lotta». Una lotta — ha insistito Francesco — «di tutti noi. Se qualcuno di noi dicesse: “Ma, io non sento questo, io sono un beato, vivo tranquillo, in pace, non sento”... io direi: “Tu non sei beato; tu sei un anestetizzato, che non capisce cosa succede”».

In questa lotta quotidiana, ha aggiunto il Pontefice, oggi ne «vinciamo» una, domani ce ne sarà «un’altra» e dopodomani un’altra ancora, «fino alla fine». E il pensiero del Papa è andato anche ai martiri, che «hanno dovuto lottare fino alla fine per mantenere la fede»; e ai santi, come Teresina del Bambino Gesù, per la quale «la lotta più dura era il momento finale», sul letto di morte, perché sentiva che «il cattivo spirito» voleva sottrarla al Signore. Ci sono dei momenti «straordinari di lotta» — ha constatato il Pontefice — ma anche «dei momenti ordinari, di tutti i giorni». E qui Francesco ha evocato il Vangelo di Luca, in cui Gesù dice alle folle e al contempo «a tutti noi: sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai, questo tempo non sapete valutarlo? Tante volte — ha osservato il Papa — noi cristiani siamo indaffarati in molte cose, anche buone; ma cosa succede dentro di te? Chi ti ispira questo? Qual è la tua tendenza spirituale, di questo? Chi ti porta a fare questo? La vita nostra abitualmente è come una vita di strada: andiamo per la strada della vita... quando andiamo in strada, soltanto guardiamo le cose che ci interessano; le altre, non le guardiamo».

La lotta, ha spiegato Francesco, «è sempre tra la grazia e il peccato, tra il Signore che vuole salvarci e tirarci fuori da questa tentazione e il cattivo spirito che sempre ci butta giù», per «vincerci». L’invito del Papa è stato dunque a chiedersi se ciascuno sia «una persona di strada che va e viene senza accorgersi di cosa succede» e se le decisioni prese vengano «dal Signore» o siano dettate dall’«egoismo», «dal diavolo». «È importante conoscere cosa succede dentro di noi», ha affermato Francesco. «È importante vivere un po’ dentro, e non lasciare che la nostra anima sia una strada dove passano tutti».

E come si fa, questo? «Prima di finire la giornata — ha raccomandato il Papa — prenditi due-tre minuti: cosa è successo oggi di importante dentro di me? Oh, sì, ho avuto un po’ di odio lì e ho sparlato lì; ho fatto quell’opera di carità... Chi ti ha aiutato a fare queste cose, sia le brutte, sia le buone? E farci queste domande, per conoscere cosa succede dentro di noi. Alle volte — ha concluso — con quell’anima chiacchierona che tutti abbiamo, sappiamo cosa succede nel quartiere, cosa succede nella casa dei vicini, ma non sappiamo cosa succede dentro di noi»

(fonte: L'Osservatore Romano)

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E' morto Eugenio Melandri - "GRACIAS A LA VIDA" di Renato Sacco e "Eugenio Melandri, una vita per la Pace e gli ultimi" di Alessio Di Florio

E' morto Eugenio Melandri 
"GRACIAS A LA VIDA" di Renato Sacco 
"Eugenio Melandri, una vita per la Pace e gli ultimi" di Alessio Di Florio


È morto ieri, domenica 27 ottobre 2019, 
Eugenio Melandri,
 un uomo sempre in ricerca, 
un disobbediente,
 un innamorato della vita 
(che ringraziava in tutti i suoi post su facebook),
dei poveri.


Avviso: I funerali di Eugenio  Melandri si terranno Martedì 29 alle ore 11 presso la chiesa della Casa dei Saveriani, via Monsignor Bertaccini snc, San Pietro in Vincoli - Ravenna. La bara sarà esposta nella cappella esterna della casa, dalle 9 alle 10.30 circa. La sepoltura avverrà presso la chiesa di San Ruffillo, via San Ruffillo 1, Brisighella (RA). Eugenio ha chiesto di non comprare fiori ma piuttosto donare tali somme ai poveri. 

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 Il ricordo di don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi.

Eugenio Melandri, era un amico, da tantissimo tempo. E resta un amico. Scrivo queste righe così, di getto, con imbarazzo e con tanti pensieri e ricordi che si accavallano. Non sono certo nelle condizioni di fare un ricordo ‘bello’ e ‘completo’ di Eugenio. Ci sarà tempo, con più calma. Anche se la vedo dura ricordare Eugenio in modo completo. Proprio una settimana fa, domenica 20 pomeriggio, eravamo con lui, a gioire con le lacrime agli occhi perché, dopo 30 anni, tornava a presiedere l’Eucarestia. Grazie a papa Francesco, al vescovo Matteo Zuppi di Bologna, alla sua ‘famiglia’ Saveriana, con il vescovo Giorgio Biguzzi, gli altri fratelli, con Albino Bizzotto, Tonio Dell’Olio e tante amiche e amici, ‘compagni’ di viaggio. Sì, perché quello di Eugenio è stato un viaggio nella vita molto intenso. E la vita l’ha voluta vivere tutta, intensamente, fino all’ultimo, dicendo sempre Gracias a la vida, come titolava ogni suo post su Facebook. Missionario saveriano, per alcuni anni giovane direttore della rivista Missione Oggi (gli ho cambiato anche il nome, ci diceva domenica). E con quella rivista ha seminato umanità, passione, documentazione. Ha promosso campagne, ha fatto entrare nelle case e nel cuore di tante persone scritti con parole vere. Non posso dimenticare la bellissima riflessione sulle Beatitudini intitolata: “Sinfonia dei folli”. Poi la campagna contro i mercanti di morte. Il lavoro intenso che ha portato alla legge 185/90 sul commercio delle armi. Me lo avevi raccontato qualche mese fa per una intervista pubblicata su Mosaico di pace. E in questa lotta al tuo fianco c’è stato sempre il tuo grande amico, don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e Presidente Nazionale di Pax Christi. Piangevi di gioia quando insieme, a Molfetta, aspettavamo papa Francesco il 20 aprile 2018: erano 25 anni dalla morte di don Tonino. E volevi andare a celebrare la tua Messa proprio ad Alessano, da don Tonino. Con lui avevamo condiviso la marcia a Sarajevo nel dicembre 1992, con altri 500 ritenuti ‘folli’. Mi sembra che ti arrivassero telefonate. Eravamo sullo stesso pulmann, per convincerci a non metterci in quell’impresa. Ci sono delle belle foto con te a Sarajevo. A credere che è possibile un mondo di pace, anche, e forse ancora di più, quando c’è una guerra. Con noi c’era anche il vescovo Bettazzi. Tu eri parlamentare, eletto nelle liste di Democrazia Proletaria. Hai fatto quella scelta sofferta, ma convinta. Sapevi che ti sarebbe costata, ma era un tuo modo di essere ‘missionario’. In fondo Eugenio hai sempre avuto una faccia sola. Il tuo amore per il Vangelo tradotto nell’amore per i poveri era sempre lo stesso. Missione Oggi, Chiama l’Africa, SenzaConfine, Solidarietà Internazionale… Quanta passione ci hai messo. E quando qualche mese fa hai incontrato papa Francesco e gli hai parlato delle tue scelte, dell’impegno nella politica, lui ti ha abbracciato e ti ha detto “hai fatto bene”. Eri l’uomo più felice del mondo. Un bambino nel senso più bello del termine, che piangeva di gioia dopo quell’incontro. Lo hai raccontato benissimo su FB, come sai fare tu. Sì, perché Eugenio - (e ora mi sono accorto che ero passato al tu diretto, forse giornalisticamente non è corretto, ma è così, con Eugenio si parla col cuore) – sapeva scrivere davvero bene! Sapeva raccontare di ogni cosa con passione. Delle sue avventure con la malattia, dei suoi momenti di fatica, di dolore e di paura… E mentre leggi cadono le lacrime sulla tastiera, come ha scritto un amico. Sì, Eugenio ci ha insegnato anche a piangere, a non avere vergogna della propria debolezza. Ce lo diceva domenica scorsa parlandoci da seduto: di solito sono le persone importanti che fanno i discorsi da seduti, io invece sto seduto perché non ce la faccio a stare in piedi, e non mi vergogno della mia debolezza.

Eugenio è morto la domenica mattina, giorno della resurrezione. La Parola di Dio nella liturgia faceva risuonare “Il povero grida e il Signore lo ascolta”. E San Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.” Tu ci hai insegnato a vivere con passione ma, come ci dicevi parlando della tua mamma, ci hai anche insegnato come si muore. Con la gioia dentro, come qualcuno mi diceva oggi.

Sì, sono convinto, e non lo penso solo io, che sia un disegno della Provvidenza dietro alla Parabola della vita di Eugenio. Un uomo sempre in ricerca, un disobbediente, un innamorato della vita, dei poveri. “Compagno è una bellissima parola, - ci dicevi domenica - E’ impegnativa! Significa spezzare il pane. Compagno vuole dire che io non posso vivere se non faccio vivere gli altri insieme con me.” E anche le parole di Francesco all’Angelus, pochi minuti dopo la tua morte, sono un segno, credo, della Provvidenza. “Per il cammino che verrà, invochiamo la Vergine Maria, venerata e amata come Regina dell’Amazzonia. Lo è diventata non conquistando, ma “inculturandosi”: col coraggio umile della madre è divenuta la protettrice dei suoi piccoli, la difesa degli oppressi. “


Ciao Eugenio. Grazie!


d. Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi

(Fonte: Famglia Cristiana- 27.10.2019)


Eugenio Melandri, 
una vita per la Pace e gli ultimi
Un ricordo a poche ore dalla scomparsa terrena
di Alessio Di Florio

Ci ha lasciato stamattina Eugenio Melandri, una vita impegnato nel pacifismo, nella solidarietà internazionale, in una politica vera e autentica e nella Chiesa degli ultimi. Prima ancora che la notizia uscisse sui social già correva la commozione. Fondatore dell’Associazione Obiettori di Coscienza e di Senzaconfine, è stato tra i protagonisti di quella grande stagione pacifista delle Marce nei Balcani devastati dalla guerra che caratterizzarono i primi anni di PeaceLink. Prima dell’impegno diretto come europarlamentare (prima con Democrazia Proletaria, poi con Rifondazione) fu missionario saveriano e direttore di Missione Oggi. E quell’attenzione all’informazione alternativa, alla solidarietà con l’Africa e tutti i Sud del mondo non l’abbandonarono dopo la sospensione a divinis per la candidatura e l’elezione. Associazioni come “Chiama l’Africa”, impegnata nella solidarietà con il grande continente dal basso, senza grandi padrini e motore di importantissime campagne sociali, lo hanno visto in primissima fila. Instancabile e mai fermo, sempre col cuore in fiamme per la passione e l’impegno verso gli altri. Una caratteristica che lo accomuna, tra i tanti, ad un altro grande protagonista di quella straordinaria stagione di associazioni, movimenti, campagne pacifiste e di solidarietà di fine Anni Ottanta-Anni Novanta, Dino Frisullo. E proprio le parole che Eugenio scrisse dopo la morte di Dino oggi possono essere dedicate a lui. Ti vestivi come i gigli del campo e ti nutrivi come gli uccelli dell'aria. Per te non cercavi mai nulla. Hai donato tutto. Senza tenerti niente. Neanche un momento di riposo, neanche una pietra dove poggiare il capo: “Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli il loro nido, ma il Figlio dell'uomo non ha dove poggiare il capo”. Giorno dopo giorno. Anno dopo anno. “Beati i poveri. Di loro e' il Regno dei cieli”.
Dino, lo sai che, con tutta la mia povertà, io credo che ci sia l'altra vita. Sento la nostalgia di quel totalmente altro che ricondurrà tutto a giustizia, dove le vittime avranno finalmente ragione dei loro oppressori. E sono sicuro che, nel Regno che viene, tu avrai un posto grande, bello, pieno di luce. Allora ho meno paura. Con te il paradiso diventerà senz'altro più aperto. Romperà i confini per fare entrare tutti. Lo troverai sempre, infatti, il modo di far entrare anche quelli che - a rigor di legge - forse non dovrebbero. Ti metterai accanto a San Pietro e non lo mollerai fino a quando non darà il permesso di entrata e di soggiorno anche all'ultimo arrivato. Ti organizzerai con quelli che già sono arrivati, come don Luigi, e riuscirete davvero a fare entrare tutti nella grande casa che ci aspetta.

Eugenio Melandri e Dino Frisullo furono tra i fondatori di Senzaconfine, l’associazione antirazzista che non ha mai considerato i migranti oggetto di lucro e su cui calare il pietismo dei ricchi (o di chi si vuol arricchire) ma persone con cui costruire reti solidali, politica, conquistare diritti e costruire socialità, nella quale dopo la morte di Dino il testimone può straordinariamente raccolto da Alessia Montuori e oggi presieduta da Simonetta Crisci. Sono considerazioni oggi considerate banali e ovvie, forse persino superate visto l’atomizzarsi e la frantumazione di un tessuto di attivismo e impegno sociale e politico nei tempi dell’individualismo e dell’egoismo assurti a sistema, ma che precedettero i tempi.

Era stata cancellata solo da poche settimane la sospensione a divinis, la settimana scorsa commosso ed emozionato Eugenio era tornato a dire messa. E la vita la voluto strappare a questa terra nelle stesse ore della fine del Sinodo sull’Amazzonia. Un sinodo in cui è risuonata forte l’impegno per il creato, per l’Amazzonia simbolo di tutte le terre (dall’Ilva e le tante terre dei fuochi d’Italia ai Sud del mondo saccheggiati dalle multinazionali) devastate dal capitalismo e dal profitto ad ogni costo. L’ecologia, la Pace, la giustizia, il protagonismo degli emarginati e dei poveri oggi sono centrali per la stessa permanenza della vita, per salvare una società che ha già superato l’orlo del baratro. E sono stati più che centrali nella vita, nell’impegno quotidiano e totale di Eugenio Melandri. La Chiesa di base, schierata contro i potenti e gli oppressori, quella che dalla Teologia della Liberazione ai “preti operai” e di frontiera in Italia ha sempre cercato una strada diversa rispetto alle gerarchie e ai palazzi, ha nel cuore quelli che il Vangelo definisce gli anawin. Gli ultimi tra gli ultimi, i più poveri tra i poveri, i più sofferenti tra i più sofferenti, le vittime più vittime che ci sono dell’ingiustizia. Potremmo anche dire i più piccoli tra i piccoli. Mentre il mondo si precipita oltre il baratro o si hanno loro nel cuore o non si è. E’ necessario sempre più lottare per lasciare questo mondo migliore e meno ingiusto di come l'abbiamo trovato e lo vogliono ridurre oppressori e potenti, senza timore. Perché la vera crescita e la vera libertà stanno nel combattere tutto ciò che rende un uomo schiavo e oppresso: analfabetismo, ingiustizia, degrado ambientale, sfruttamento dei lavoratori e delle classi sociali più deboli. Difendere la vita vuol dire ribellarsi contro tutto ciò che calpesta la vita stessa e la dignità. 
E’ il racconto della vita di Eugenio Melandri e ora il testimone deve essere raccolto da chi siamo rimasti.

(Fonte: Peacelink - 27 ottobre 2019)


MORTE E AVVENTO
di Giuliana Martirani
Nella morte Gesù viene definitivamente da noi. L'avvento si riferisce alla venuta di Cristo in ogni momento, ma significa anche il suo ritorno definitivo che non si verifica però alla fine del mondo bensì con la morte di ciascuno di noi. Nella morte Gesù viene definitivamente da noi per infonderci il suo spirito e trasformarci per intero in quell'immagine unica che Dio si è fatto di ciascuno di noi.
Anselm Gruen

E di Eugenio Melandri Gesù si é fatta una bellissima immagine: uomo nuovo, uomo vero!
Come Don Tonino Bello, come Alex Langer... 

CIAO EUGENIO
da Giuliana Martirani

(Fonte: facebook)


Leggi anche il nostro post già pubblicato:
- Eugenio Melandri prete di Tonio Dell'Olio

"La droga, i desti e i dormienti" di Giuseppe Savagnone

"La droga, i desti e i dormienti" 
di Giuseppe Savagnone 










Due fatti di cronaca
Due recentissimi episodi di cronaca ci costringono a riportare l’attenzione sul fenomeno, ormai quasi rimosso dai mass media e dall’opinione pubblica, della diffusione della droga fra i giovani.

Vicino Livorno una ragazza di 19 anni è morta in discoteca dopo aver ingerito delle pasticche, sembra di Ecstasy, insieme ad alcool.

Nei pressi di Palermo due ragazzi, uno di 16, uno di 17 anni, sono morti perché l’auto su cui tornavano dalla discoteca, guidata da un ventenne risultato poi positivo ai test su alcool e droga, è uscita di strada.

Un fenomeno rimosso
Non si tratta di incidenti casuali. Il costante aumento del consumo di droga tra i giovani è segnalato da tutte le statistiche.

Gli esperti segnalano che ormai diventa sempre più frequente il passare con leggerezza da una droga all’altra, o l’assumere sostanze senza nemmeno sapere di che si tratta, solo perché l’ha appena assunta il tuo vicino.

Anche per l’enorme varietà di prodotti in circolazione, dalla cannabis allo SPICE alle anfetamine alla cocaina (con un ritorno perfino della “vecchia” eroina). Senza parlare di quelle droghe “legali” che sono l’alcool e il fumo, di cui spesso si sottovaluta la gravità.

La fragilità delle nuove generazioni
Questi dati ci avvertono che – malgrado l’immagine rassicurante di Greta e dei milioni di ragazzi e ragazze che, sul suo esempio, hanno dato in questi giorni una lezione di responsabilità agli adulti sui problemi del clima – cresce la fragilità di fondo delle nuove generazioni sul piano esistenziale e, con essa, l’enorme responsabilità che abbiamo verso di loro anche sotto questo profilo.

Perché, al di là della desertificazione ambientale, su cui la recente protesta studentesca ha incentrato la sua vibrante accusa, la nostra società ne ha determinato un’altra, forse ancora più devastante – anche se i giovani la subiscono a un livello troppo profondo dentro di loro per riuscire a metterla a fuoco, pur soffrendola dolorosamente sulla propria pelle –, ed è quella che riguarda il senso da dare alla propria vita.


Il “senso” perduto
Le generazioni passate, nel complesso, erano riuscite nell’impegno di trasmettere ai propri figli qualcosa – giusto o sbagliato che fosse – in cui credere.

Si trattasse della fede religiosa, o dei princìpi della morale borghese, o della patria, o della rivoluzione proletaria, si cresceva all’interno di una visione complessiva della realtà che consentiva, anzi richiedeva, l’orientamento della persona verso uno scopo oggettivo, in grado di dare senso – nella duplice accezione di “significato” e di “direzione” – alla sua esistenza.

Ancora le lettere scritte in carcere dai giovani partigiani in procinto di essere giustiziati dai nazisti, testimoniano la loro convinzione di non aver sacrificato invano la propria vita.

Valori autoreferenziali
Oggi sarebbe difficile trovare qualcuno disposto a morire per qualcosa di più grande di lui. E chi non ha niente per cui morire è difficile che abbia qualcosa per cui vivere.

Sì, nella nostra cultura ci sono dei valori, ma a guardare attentamente si scopre che sono per lo più caratterizzati da una sostanziale autoreferenzialità: la libertà, ma intesa solo come mancanza di impedimenti esterni, che spinge a rifiutare la responsabilità dei legami; l’autenticità, che consiste nell’essere fedeli ai propri stati d’animo, indipendentemente dagli effetti che le nostre azioni possono avere sugli altri; l’autorealizzazione, che spesso rischia di far perdere di vista che un lavoro non si fa innanzi tutto per realizzarsi, ma per rendere un servizio alla società, e di cui l’autorealizzazione è solo una conseguenza, non il fine.


Il rischio del narcisismo
È quella che Umberto Galimberti chiama «cultura del narcisismo», associandola al nichilismo sempre più dilagante.

«La cultura del narcisismo (…) si compone con la cultura del relativismo, per cui ciascuno, chiamato alla propria autorealizzazione, deve decidere da sé in che cosa questa consista, senza che nessuno debba o possa interferire in questa auto-determinazione (…). Ma sbarrare la porta alle richieste provenienti dall’esterno dell’Io, accantonare la storia, la natura, la società e ogni altro riferimento che non sia ciò che l’Io trova in se stesso, significa sopprimere le condizioni per cui qualcosa è più o meno rilevante e, nell’impossibilità di questa valutazione, sopprimere anche le condizioni per l’esercizio della propria libertà ».

Non per nulla i giovani, sensibilissimi quando si tratta di battaglie a livello planetario, come quello del clima, sono invece estremamente restii a interessarsi di politica, non leggono i giornali, disertano le assemblee studentesche..

La droga come surrogato di una qualsiasi fede
E allora si capisce meglio perché la droga. Naturalmente le ragioni immediate del ricorso ad essa possono essere le più varie: la pressione o anche semplicemente l’esempio del gruppo; solitudine; incomprensioni in famiglia; delusioni affettive; ansia da prestazione; o anche semplicemente curiosità.

Ma sempre, in ultima istanza, la droga ha la funzione di dare quella forza per vivere che un tempo veniva da una fede, fondata o infondata che fosse.

In altri termini, a dei giovani a cui non è rimasto molto in cui credere oltre se stessi, la droga consente di affrontare una vita sempre più frenetica e competitiva malgrado la loro fragilità.

Da qui il ricorso alle pasticche, nelle estenuanti nottate in discoteca, per reggere alla fatica del divertimento; oppure durante la preparazione a un esame, per far fronte allo stress; oppure prima di fare sesso, per sopperire al diffuso indebolimento della carica erotica e della potenza sessuale.

Lo “sballo”

Accanto a questa funzione “adiuvante”, la droga ne ha anche una di “stordimento”.

Quello che si cerca, sotto questo profilo, è lo “sballo” per se stesso, la perdita di coscienza, l’ebbrezza di una liberazione da ogni peso e da ogni limite. Ancora una volta, la momentanea rivincita sul vuoto di una vita priva di veri contenuti e di scopi, e in cui l’esperienza estatica dell’incontro col vero, col bello, col bene, viene surrogata con quella dell’ecstasy o di altre sostanze simili.

Sullo sfondo, la famosa canzone di Vasco Rossi. «Voglio una vita maleducata Di quelle fatte così voglio una vita che se ne frega che se ne frega di tutto sì. Voglio una vita spericolata voglio una vita come quelle dei film. Voglio una vita esagerata la voglio piena di guai. E poi ci troveremo come le star a bere del whisky al Roxy Bar..».

La droga fa male
Fa pena che i ragazzi affascinati da questa illusione di pienezza vitale siano in realtà condannati a un impoverimento umano da tutti punti di vista. Perché la droga – qualunque droga – fa male.

C’è chi sottolinea i danni che queste sostanze – ma ripeto, non bisogna dimenticare l’alcool e le comuni sigarette – arrecano alla salute fisica e mentale. Alcune soprattutto, in una stagione della vita il cervello si modella e assume la struttura adulta, possono avere effetti deleteri sulle capacità cognitive, sulla memoria, sulla capacità di concentrazione.

Per non parlare del condizionamento che deriva dall’assuefazione e del pericolo mortale derivante dalla possibilità di overdose. È riferendosi a tutto ciò, probabilmente, che Jim Morrison, il leader del famoso gruppo musicale “The Doors”, notava: «Comprare droghe è come comprare un biglietto per un mondo fantastico, ma il prezzo di questo biglietto è la propria vita».

I desti e i dormienti
Senza minimamente sottovalutare questi aspetti, vorrei soprattutto sottolineare, però, che di tutto i nostri giovani hanno bisogno, tranne che di qualcosa che li aiuti a stordirsi.

Già i ritmi di vita imposti dalla società e l’uso indiscriminato delle nuove tecniche di comunicazione – computer, tablet, smartphone –, tendono a distoglierci dalla riflessione e da una comunicazione degna di questo nome, fondata cioè sulla reale capacità di capirsi a vicenda e di confrontarsi in profondità.

Un antico pensatore, Eraclito, distingueva gli uomini in «desti» e «dormienti». Il problema è terribilmente attuale. La vita odierna ci anestetizza e ci rende sonnambuli.

Già per gli adulti questo è un dramma e la loro testimonianza non può certo essere di aiuto alle nuove generazioni. Ma esse sono ancora più indifese, perché non hanno neppure – come invece i loro genitori –, la remota memoria dell’esperienza di un mondo diverso, dove si parlava a tavola la sera, dove si pensava che la verità differisse dalla menzogna, e ancora, in politica, si discuteva di idee, senza ridurre il confronto a uno scambio di insulti.

Abbiamo bisogno che i giovani restino svegli
Abbiamo bisogno di giovani che siano lucidi, per sconfiggere le malattie dell’anima che noi adulti abbiamo sviluppato e che stiamo trasmettendo loro. Il diffondersi della droga, in cui essi credono di vedere una coraggiosa trasgressione, in realtà li indebolisce e segna la loro resa all’esistente.

Il potere è grato di avere cittadini “fatti” e mezzo addormentati a cui continuare a imporre la falsa democrazia di cui siamo ostaggio. La nostra società ha bisogno di una profonda trasformazione che solo dai giovani può venire. Per questo soprattutto dobbiamo chiedere loro di non drogarsi, per restare svegli

(Fonte: Rubrica "I Chiaroscuri")

domenica 27 ottobre 2019

"Si annuncia solo quel che si vive" Papa Francesco, Angelus del 27 ottobre 2019 (Testo e video)

"Si annuncia solo quel che si vive" 
Papa Francesco



Angelus del 27 ottobre 2019

(Testo e video)









Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La Messa celebrata questa mattina a san Pietro ha concluso l’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per la Regione Panamazzonica. La prima Lettura, dal Libro del Siracide, ci ha ricordato il punto di partenza di questo cammino: l’invocazione del povero, che «attraversa le nubi», perché «Dio ascolta la preghiera dell’oppresso» (Sir 35,21.16). Il grido dei poveri, insieme a quello della terra, ci è giunto dall’Amazzonia. Dopo queste tre settimane non possiamo far finta di non averlo sentito. Le voci dei poveri, insieme a quelle di tanti altri dentro e fuori l’Assemblea sinodale – Pastori, giovani, scienziati – ci spingono a non rimanere indifferenti. Abbiamo sentito spesso la frase “più tardi è troppo tardi”: questa frase non può rimanere uno slogan.

Che cosa è stato il Sinodo? È stato, come dice la parola, un camminare insieme, confortati dal coraggio e dalle consolazioni che vengono dal Signore. Abbiamo camminato guardandoci negli occhi e ascoltandoci, con sincerità, senza nascondere le difficoltà, sperimentando la bellezza di andare avanti uniti, per servire. Ci stimola in questo l’Apostolo Paolo nella seconda Lettura odierna: in un momento drammatico per lui, mentre sa che “sta per essere versato in offerta – cioè giustiziato – e che è giunto il momento di lasciare questa vita” (cfr 2 Tm 4,6), scrive, in quel momento: «Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero» (v. 17). Ecco l’ultimo desiderio di Paolo: non qualcosa per sé o per qualcuno dei suoi, ma per il Vangelo, perché sia annunciato a tutte le genti. Questo viene prima di tutto e conta più di tutto. Ciascuno di noi si sarà chiesto tante volte che cosa fare di buono per la propria vita; oggi è il momento; chiediamoci: “Io, che cosa posso fare di buono per il Vangelo?”

Nel Sinodo ce lo siamo chiesti, desiderosi di aprire nuove strade all’annuncio del Vangelo. 
Si annuncia solo quel che si vive. E per vivere di Gesù, per vivere di Vangelo bisogna uscire da se stessi. Ci siamo sentiti allora spronati a prendere il largo, a lasciare i lidi confortevoli dei nostri porti sicuri per addentrarci in acque profonde: non nelle acque paludose delle ideologie, ma nel mare aperto in cui lo Spirito invita a gettare le reti.

Per il cammino che verrà, invochiamo la Vergine Maria, venerata e amata come Regina dell’Amazzonia. Lo è diventata non conquistando, ma “inculturandosi”: col coraggio umile della madre è divenuta la protettrice dei suoi piccoli, la difesa degli oppressi. Sempre andando alla cultura dei popoli. Non c’è una cultura standard, non c’è una cultura pura, che purifica le altre; c’è il Vangelo, puro, che si incultura. A lei, che nella povera casa di Nazaret si prese cura di Gesù, affidiamo i figli più poveri e la nostra casa comune.

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Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle,

Rivolgo un pensiero speciale al caro popolo libanese, in particolare ai giovani, che nei giorni scorsi hanno fatto sentire il loro grido di fronte alle sfide e ai problemi sociali, morali ed economici del Paese. Esorto tutti a ricercare le giuste soluzioni nella via del dialogo, e prego la Vergine Maria, Regina del Libano, affinché, con il sostegno della comunità internazionale, quel Paese continui ad essere uno spazio di convivenza pacifica e di rispetto della dignità e libertà di ogni persona, a beneficio di tutta la Regione mediorientale, che soffre tanto.

Saluto con affetto tutti voi, pellegrini italiani e di vari Paesi, in particolare quelli provenienti da San Paolo del Brasile e dalla Polonia, come pure il gruppo del “Céntro Académico Romano Fundación”, dalla Spagna.

Saluto le Apostole del Sacro Cuore, che ricordano il centenario della loro fondazione; la comunità Siro-Malabarese della Diocesi di Patti; e i seminaristi della Diocesi di Reggio Emilia-Guastalla, che questa mattina hanno servito la Messa in Basilica. E vedo anche che ci sono i cresimandi di Galzignano: vi saluto!

Questa è l’ultima domenica di ottobre, mese missionario, che quest’anno ha avuto un carattere straordinario, ed è anche il mese del Rosario. Rinnovo l’invito a pregare il Rosario per la missione della Chiesa oggi, in particolare per i missionari e le missionarie che incontrano maggiori difficoltà. E nello stesso tempo continuiamo a pregare il Rosario per la pace. Il Vangelo e la pace camminano insieme.

A tutti auguro buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

GUARDA IL VIDEO
Angelus integrale

Guarda anche il post già pubblicato: 


Attenti al dramma di diventare uomini senza amore.Considerate che anche le cose migliori, senza amore, non giovano a nulla. No alla religione dell'io - Papa Francesco (Testo e video )

Attenti al dramma di diventare uomini senza amore.
Considerate che anche le cose migliori, senza amore,
 non giovano a nulla. No alla religione dell'io 

PAPA FRANCESCO




omelia

S. Messa 

a conclusione del Sinodo dei Vescovi

- Domenica 27 ottobre 2019 -




La Parola di Dio oggi ci aiuta a pregare attraverso tre personaggi: nella parabola di Gesù pregano il fariseo e il pubblicano, nella prima Lettura si parla della preghiera del povero.

1. La preghiera del fariseo comincia così: «O Dio, ti ringrazio». È un ottimo inizio, perché la preghiera migliore è quella di gratitudine, è quella di lode. Ma subito vediamo il motivo per cui ringrazia: «perché non sono come gli altri uomini» (Lc 18,11). E spiega pure il motivo: digiuna due volte la settimana, mentre allora era d’obbligo una volta all’anno; paga la decima su tutto quello che ha, mentre era prescritta solo sui prodotti più importanti (cfr Dt 14,22 ss). Insomma, si vanta perché adempie al meglio precetti particolari. Però dimentica il più grande: amare Dio e il prossimo (cfr Mt 22,36-40). Traboccante della propria sicurezza, della propria capacità di osservare i comandamenti, dei propri meriti e delle proprie virtù, è centrato solo su di sé.
Il dramma di questo uomo è che è senza amore. Ma anche le cose migliori, senza amore, non giovano a nulla, come dice San Paolo (cfr 1 Cor 13). E senza amore, qual è il risultato? Che alla fine, anziché pregare, elogia se stesso. Infatti al Signore non chiede nulla, perché non si sente nel bisogno o in debito, ma si sente in credito. Sta nel tempio di Dio, ma pratica un’altra religione, la religione dell’io. E tanti gruppi “illustri”, “cristiani cattolici”, vanno su questa strada.

E oltre a Dio dimentica il prossimo, anzi lo disprezza: per lui, cioè, non ha prezzo, non ha valore. Si ritiene migliore degli altri, che chiama, letteralmente, “i rimanenti, i restanti” (“loipoi”, Lc 18,11). Sono, cioè, “rimanenze”, sono scarti da cui prendere le distanze. Quante volte vediamo questa dinamica in atto nella vita e nella storia! Quante volte chi sta davanti, come il fariseo rispetto al pubblicano, innalza muri per aumentare le distanze, rendendo gli altri ancora più scarti. Oppure, ritenendoli arretrati e di poco valore, ne disprezza le tradizioni, ne cancella le storie, ne occupa i territori, ne usurpa i beni. Quante presunte superiorità, che si tramutano in oppressioni e sfruttamenti, anche oggi – lo abbiamo visto nel Sinodo quando parlavamo dello sfruttamento del creato, della gente, degli abitanti dell’Amazzonia, della tratta delle persone, del commercio delle persone! Gli errori del passato non son bastati per smettere di saccheggiare gli altri e di infliggere ferite ai nostri fratelli e alla nostra sorella terra: l’abbiamo visto nel volto sfregiato dell’Amazzonia. La religione dell’io continua, ipocrita con i suoi riti e le sue “preghiere” – tanti sono cattolici, si confessano cattolici, ma hanno dimenticato di essere cristiani e umani –, dimentica del vero culto a Dio, che passa sempre attraverso l’amore del prossimo. Anche cristiani che pregano e vanno a Messa la domenica sono sudditi di questa religione dell’io. Possiamo guardarci dentro e vedere se anche per noi qualcuno è inferiore, scartabile, anche solo a parole. Preghiamo per chiedere la grazia di non ritenerci superiori, di non crederci a posto, di non diventare cinici e beffardi. Chiediamo a Gesù di guarirci dal parlare male e dal lamentarci degli altri, dal disprezzare qualcuno: sono cose sgradite a Dio. E provvidenzialmente, oggi ci accompagnano in questa Messa non solo gli indigeni dell’Amazzonia: anche i più poveri delle società sviluppate, i fratelli e sorelle ammalati della Comunità dell’Arche. Sono con noi, in prima fila.

2. Passiamo all’altra preghiera. La preghiera del pubblicano ci aiuta invece a capire che cosa è gradito a Dio. Egli non comincia dai suoi meriti, ma dalle sue mancanze; non dalla sua ricchezza, ma dalla sua povertà: non una povertà economica – i pubblicani erano ricchi e guadagnavano pure iniquamente, a spese dei loro connazionali – ma sente una povertà di vita, perché nel peccato non si vive mai bene. Quell’uomo che sfrutta gli altri si riconosce povero davanti a Dio e il Signore ascolta la sua preghiera, fatta di sole sette parole ma di atteggiamenti veri. Infatti, mentre il fariseo stava davanti in piedi (cfr v. 11), il pubblicano sta a distanza e “non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo”, perché crede che il Cielo c’è ed è grande, mentre lui si sente piccolo. E “si batte il petto” (cfr v. 13), perché nel petto c’è il cuore. La sua preghiera nasce proprio dal cuore, è trasparente: mette davanti a Dio il cuore, non le apparenze. Pregare è lasciarsi guardare dentro da Dio – è Dio che mi guarda quando prego –, senza finzioni, senza scuse, senza giustificazioni. Tante volte ci fanno ridere i pentimenti pieni di giustificazioni. Più che un pentimento sembra una auto-canonizzazione. Perché dal diavolo vengono opacità e falsità – queste sono le giustificazioni –, da Dio luce e verità, la trasparenza del mio cuore. È stato bello e ve ne sono tanto grato, cari Padri e Fratelli sinodali, aver dialogato in queste settimane col cuore, con sincerità e schiettezza, mettendo davanti a Dio e ai fratelli fatiche e speranze.

Oggi, guardando al pubblicano, riscopriamo da dove ripartire: dal crederci bisognosi di salvezza, tutti. È il primo passo della religione di Dio, che è misericordia verso chi si riconosce misero. Invece, la radice di ogni sbaglio spirituale, come insegnavano i monaci antichi, è credersi giusti. Ritenersi giusti è lasciare Dio, l’unico giusto, fuori di casa. È tanto importante questo atteggiamento di partenza che Gesù ce lo mostra con un confronto paradossale, mettendo insieme nella parabola la persona più pia e devota del tempo, il fariseo, e il peccatore pubblico per eccellenza, il pubblicano. E il giudizio si capovolge: chi è bravo ma presuntuoso fallisce; chi è disastroso ma umile viene esaltato da Dio. Se ci guardiamo dentro con sincerità, vediamo in noi tutti e due, il pubblicano e il fariseo. Siamo un po’ pubblicani, perché peccatori, e un po’ farisei, perché presuntuosi, capaci di giustificare noi stessi, campioni nel giustificarci ad arte! Con gli altri spesso funziona, ma con Dio no. Con Dio il trucco non funziona. Preghiamo per chiedere la grazia di sentirci bisognosi di misericordia, poveri dentro. Anche per questo ci fa bene frequentare i poveri, per ricordarci di essere poveri, per ricordarci che solo in un clima di povertà interiore agisce la salvezza di Dio.

3. Arriviamo così alla preghiera del povero, della prima Lettura. Essa, dice il Siracide, «attraversa le nubi» (35,21). Mentre la preghiera di chi si presume giusto rimane a terra, schiacciata dalla forza di gravità dell’egoismo, quella del povero sale dritta a Dio. Il senso della fede del Popolo di Dio ha visto nei poveri “i portinai del Cielo”: quel sensus fidei che mancava nella dichiarazione [del fariseo]. Sono loro che ci spalancheranno o meno le porte della vita eterna, loro che non si sono considerati padroni in questa vita, che non hanno messo se stessi prima degli altri, che hanno avuto solo in Dio la propria ricchezza. 
Essi sono icone vive della profezia cristiana.

In questo Sinodo abbiamo avuto la grazia di ascoltare le voci dei poveri e di riflettere sulla precarietà delle loro vite, minacciate da modelli di sviluppo predatori. Eppure, proprio in questa situazione, molti ci hanno testimoniato che è possibile guardare la realtà in modo diverso, accogliendola a mani aperte come un dono, abitando il creato non come mezzo da sfruttare ma come casa da custodire, confidando in Dio. Egli è Padre e, dice ancora il Siracide, «ascolta la preghiera dell’oppresso» (v. 16). E quante volte, anche nella Chiesa, le voci dei poveri non sono ascoltate e magari vengono derise o messe a tacere perché scomode. Preghiamo per chiedere la grazia di saper ascoltare il grido dei poveri: è il grido di speranza della Chiesa. Il grido dei poveri è il grido di speranza della Chiesa. Facendo nostro il loro grido, anche la nostra preghiera, siamo sicuri, attraverserà le nubi.

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