mercoledì 31 gennaio 2018

Il “nuovo” Padre Nostro... perché cambia?

Il “nuovo” Padre Nostro... 
perché cambia?

Padre nostro... 
non c'indurre in tentazione...


"Questa è una traduzione… non buona. Anche i francesi hanno cambiato adesso il testo con una traduzione che dice: «Non lasciarmi cadere in tentazione», perché sono io a cadere in tentazione, ma non è Lui che mi butta in tentazione per poi vedere come sono caduto. No, un Padre non fa questo, un padre ti aiuta a rialzarti subito. Quello che ti induce alla tentazione è Satana. Questo è l’ufficio di Satana."



Il “nuovo” Padre Nostro: non solo una traduzione. E anche Don Camillo…


Entro la fine dell’anno la Chiesa in Italia potrebbe avere un “nuovo” Padre Nostro. Questo almeno stando a quanto è emerso dall’ultima riunione del Consiglio permanente della Cei, che ha deciso di convocare dal 12 al 14 novembre prossimi un’assemblea straordinaria dei vescovi per discutere ed approvare la terza edizione del Messale Romano, con la quale dovrebbe vedere la luce anche la nuova versione del Padre Nostro.

In verità nulla di nuovo, se si considera che la decisione della Cei di proporre una diversa traduzione della sesta petizione della preghiera più importante dei cristiani risale ai primi anni Duemila. L’edizione 2008 della Bibbia, infatti, al celebre passo di Mt 6,13 introduce già il “non abbandonarci alla tentazione” in luogo del “non ci indurre in tentazione” (dalla versione latina “et ne nos inducas in tentationem”). L’attuale applicazione al testo liturgico delle decisioni prese allora su quello evangelico non sarebbe, quindi, che una logica e coerente conseguenza, agevolata da un Pontefice – Francesco – che non ha fatto mistero del suo appoggio alla nuova versione, così come ad un certo libero decisionismo da parte delle conferenze episcopali.

Soltanto una questione di termini, dunque? Non proprio. Ad ammettere che la questione del Padre Nostro sia (anche) esegetica è lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica, che al n. 2846 chiarisce che «tradurre con una sola parola il termine greco è difficile: significa “non permettere di entrare in”, “non lasciarci soccombere alla tentazione”». Che a muovere i vescovi, però, non siano soltanto considerazioni di carattere filologico è evidente. Non si spiegherebbe, altrimenti, la scarsa fortuna che ha finora accompagnato il pro multis di ratzingeriana – ed evangelica – memoria, filologicamente ineccepibile ma da anni lettera morta. Due pesi e due filologiche misure? È evidente che a motivare la decisione dei vescovi italiani in merito al Padre Nostro sia una combinazione di ragioni teologiche, esegetiche e catechetiche, come traspare anche da una recente puntualizzazione di Francesco, secondo il quale «pregare non è ripetere a pappagallo delle frasi».

I recenti sviluppi dell’affaire Padre Nostro hanno comunque tutta l’aria di un successo postumo per l’abate Jean Carmignac, fra i più noti e accesi avversari dell’indurre in tentazione. Ma per un problema che (forse) si risolve, un altro (e uno solo è un’ipotesi ottimistica) potrebbe venirsi a creare. Se, infatti, l’Ave Maria ha da sempre creato più di una difficoltà nei momenti di preghiera ecumenica, il Padre Nostro aveva offerto un importante terreno di incontro. Almeno finora, visto che buona parte del mondo riformato, luterani e anglicani in testa, si tiene cara la traduzione di Lutero e della Bibbia di re Giacomo: “führe uns nicht in Versuchung” e “and lead us not into temptation”, vale a dire proprio il vituperato “non ci indurre in tentazione”.

Come spiegare questa nuova difficoltà al pensiero mediatico dominante e anche ad una certa parte di Chiesa a pochi mesi dalle entusiastiche celebrazioni dei 500 anni dalla Riforma? Difficile dirlo. Dal canto suo, da buon vecchio tradizionalista, il Don Camillo di Guareschi in tempi non sospetti aveva avanzato una sua proposta: «Il Pater Noster non dovrebbe più dire “liberaci dal male” ma “liberaci dal benessere”». Probabilmente non un buon lezionario, ma di certo una buona lezione.

(fonte: Caffestoria articolo di Simone M. Varisto del 29/01/2018)

Padre Nostro, Tu non ci tenti
di Gianfranco Ravasi 

È stato uno stillicidio che mi ha accompagnato da anni. La domanda era sempre la stessa, anche da parte dei lettori di questa pagina: come si giustifica la sesta delle sette invocazioni di quell’oratio perfectissima di Gesù – come la definiva s. Tommaso d’Aquino – che è il Padre nostro, cioè «non ci indurre in tentazione»? I giornali hanno già riferito le considerazioni di papa Francesco sulla incongruità di questa resa a cui poi si è associata la Conferenza Episcopale Italiana, mentre altri vescovi di varie lingue avevano da tempo introdotto variazioni del tipo «non abbandonarci alla tentazione», «non farci entrare nella tentazione», «non lasciarci entrare in tentazione» e così via. 
È curioso notare che la «brutalità» della resa latina della Vulgata – ne nos inducas in tentationem – creava imbarazzo già nell’VIII secolo: due manoscritti latini dei Vangeli, il cosiddetto Codex Dublinensis e il Codex Rushworthianus, conservato a Oxford, la sostituiscono con un significativo Ne nos patiaris induci, «non tollerare che noi siamo indotti in tentazione» (sottinteso «da Satana»). Due altri codici di un’antica versione latina precedente alla Vulgata, il Bobbiensis (V sec.) e il Colbertinus (XII sec.) variano in questa stessa linea: «Non sopporterai che noi siamo indotti in tentazione». 
Cerchiamo, allora, di risalire all’originale greco che, comunque, ha certamente un sottofondo aramaico, la lingua usata da Gesù, in cui il verbo usato aveva probabilmente un valore permissivo, «non lasciarci/non farci entrare in tentazione». L’indurre italiano è, per altro, già eccessivo rispetto al greco di Matteo (6,13) eisenénkes (da eisphérô): esso letteralmente indica un «non portarci verso», diverso dall’«indurre» che è uno «spingere» qualcuno concretamente a compiere un’azione. Il senso genuino è, allora, quello di non essere esposti e abbandonati al rischio della tentazione. A questo punto, però, è necessario distinguere tra «tentazione-prova» e «tentazione-insidia», accezioni entrambe possibili nel greco peirasmós usato da Matteo. La prova può avere come soggetto Dio che vaglia la fedeltà e la purezza della fede dell’uomo: pensiamo ad Abramo, invitato a sacrificare Isacco, il figlio della promessa divina (Genesi 22), a Giobbe, a Israele duramente «corretto» da Dio nel deserto «come un uomo corregge il figlio» (Deuteronomio 8,5). È un’educazione alla fedeltà, alla donazione disinteressata, all’amore puro e senza doppi fini. Significativa al riguardo è una frase della Prima Lettera ai Corinzi di s. Paolo: «Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (10,13). Diversa è la «tentazione-insidia» che mira alla ribellione dell’uomo nei confronti di Dio e della sua legge e che, a prima vista, dovrebbe avere come radice Satana o il mondo peccatore. Ebbene, se è facile comprendere l’applicazione nel caso della prova (si chiede a Dio di non provarci troppo aspramente e di non lasciarci soccombere in quel momento oscuro), è più complesso giustificare la seconda attribuzione a Dio. Sì, perché – strettamente parlando – nella Bibbia sembra che anche Dio possa «tentare» al male. Lo si legge, ad esempio, nel Secondo Libro di Samuele: «Dio incitò Davide a fare il male attraverso il censimento di Israele» (24,1). 
La domanda del Padre nostro potrebbe, perciò, avere anche questa sfumatura. Ma come spiegarla? La risposta è nella mentalità semitica: essa per evitare di introdurre il dualismo di fronte al bene e al male, cioè l’esistenza di due divinità, l’una buona e l’altra malvagia, cerca di porre tutto sotto il controllo dell'unico Dio, bene e male, grazia e tentazione. In Isaia il Signore non esita a dichiarare: «Sono io che formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e causo il male: io, il Signore, compio tutto questo!» (45,7). In realtà, si sa che il male morale dev’essere ricondotto o alla libertà umana o al tentatore per eccellenza, Satana. Non per nulla la frase sopra citata riguardante Davide nel racconto parallelo dei libri delle Cronache viene corretta e suona così: «Satana spinse Davide a censire gli Israeliti» (I,21,1). 
Pregando il Padre divino di «non indurci in tentazione» si voleva, allora, domandargli sia di non provarci con durezza, cioè di non esporci a prove troppo pesanti per la nostra realtà umana, sia di non lasciarci catturare dalle reti del male, di non permettere che entriamo nel cerchio magico e affascinante del peccato, di non esporci all’insidia diabolica. 
In questa invocazione sono, perciò, coinvolti temi capitali come la libertà e la grazia, la fedeltà e il peccato, il dolore e la speranza, il bene e il male. 
Importante è, a questo proposito, anche la settima e ultima domanda che è la versione positiva della precedente: «Liberaci dal male!». È interessante notare che nell’originale greco si può immaginare nel vocabolo poneroù sia la traduzione «dal male» sia «dal Maligno», cioè il diavolo, ed entrambi i significati sono accettabili e possono coesistere. Durante l’ultima cena Gesù offre a Pietro una rappresentazione suggestiva dell’aiuto divino a «liberarci dal male/Maligno»: «Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede» (Luca 22,31-32). Annotava un noto teologo ortodosso francese, Olivier Clément (1921-2009): «Il Padre nostro non è concluso da una lode o da un ringraziamento, ma rimane sospeso in un pressante grido di miseria», mentre l’uomo si sente sul ciglio del baratro oscuro del dolore e del male. È per questo che alcuni codici antichi, seguiti dalla tradizione e dal culto protestante, hanno sentito il bisogno di aggiungere in finale al Padre nostro questa acclamazione: «Tuo è il Regno, la potenza e la gloria nei secoli!». Ma, con la finezza che le è solita e la sua sensibilità per il messaggio cristiano, nonostante la sua matrice ebraica, Simone Weil nella sua opera Attesa di Dio (1950) osservava acutamente che il percorso del Padre nostro è antitetico rispetto a quello che regge di solito ogni preghiera che va dal basso verso l’alto, dall’uomo e dalla sua miseria a Dio e alla sua luce. Qui, invece, si parte dal cielo e si scende fin nel groviglio oscuro del male.
(fonte: “Il Sole 24 Ore” del 28 gennaio 2018)

Guarda il video del colloquio integrale di don Marco Pozza 
con Papa Francesco sul Padre nostro 

La Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» per le università e le facoltà ecclesiastiche è il nuovo tassello per la coraggiosa rivoluzione culturale di Papa Francesco


La Costituzione Apostolica 
«Veritatis gaudium» 
per le università e le facoltà ecclesiastiche
è il nuovo tassello per la coraggiosa rivoluzione culturale di Papa Francesco 


Alle ore 11.00 di lunedì mattina (29/01/2018), nella Sala Stampa della Santa Sede, ha avuto luogo la Conferenza Stampa di presentazione della Costituzione Apostolica «Veritatis gaudium» di Papa Francesco, circa la nuova normativa sugli Istituti di studi ecclesiastici.
Sono intervenuti l’Em.mo Card. Giuseppe Versaldi, Prefetto della Congregazione per l’Educazione Cattolica (degli Istituti di Studi); S.E. Mons. Angelo Vincenzo Zani, Segretario della medesima Congregazione; il Prof. Mons. Piero Coda, Preside dell'Istituto Universitario Sophia, Membro della Commissione Teologica Internazionale.

Guarda il video della conferenza stampa di presentazione

Conversione missionaria

Il cardinale Versaldi spiega la costituzione apostolica 
«Veritatis gaudium»


È l’Evangelii gaudium, con il «sogno» di Papa Francesco di una «scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa», a far da sfondo alla nuova costituzione apostolica Veritatis gaudium sulle università e le facoltà ecclesiastiche, presentata alla stampa il 29 gennaio. È quanto premette il cardinale Giuseppe Versaldi, prefetto della Congregazione per l’educazione cattolica, illustrando in questa intervista i contenuti principali del documento.

Il richiamo al testo programmatico del pontificato sul Vangelo della gioia appare evidente sin dalla scelta del titolo di questa nuova costituzione.

Per intenderne pienamente il significato, al di là delle pur importanti norme tecniche, è necessario tener presente soprattutto il numero 27 dell’Evangelii gaudium, in cui il Papa afferma che la riforma delle strutture esige la conversione pastorale, per far sì che esse siano più missionarie. E in tal senso la Veritatis gaudium è l’applicazione di questa esortazione a una conversione missionaria nel campo delle facoltà e delle università ecclesiastiche. Infatti nel proemio della nuova costituzione apostolica, al numero 3, il Pontefice dice che è giunto il momento in cui questo ricco patrimonio di approfondimenti e di indirizzi imprima agli studi ecclesiastici quel rinnovamento sapiente e coraggioso che è richiesto dalla trasformazione missionaria di una Chiesa in uscita. Per questo il documento ha un’importanza storica, perché è il magistero di Papa Francesco, di una Chiesa missionaria, che offre i criteri alle università e alle facoltà ecclesiastiche.

Quali sono questi criteri di fondo?

Gli studi ecclesiastici costituiscono una sorta di provvidenziale laboratorio culturale in cui la Chiesa esercita la sua missione. Questo perché in un cambiamento d’epoca come quello attuale ci vuole una coraggiosa rivoluzione culturale, secondo l’auspicio del Papa nella Laudato si’. E in tale impegno la rete mondiale delle università e delle facoltà ecclesiastiche è chiamata a portare il decisivo contributo del lievito, del sale e della luce del Vangelo di Gesù Cristo e della tradizione viva della Chiesa, sempre aperta a nuovi scenari e a nuove proposte. Quindi rimane il deposito della fede, ma rinnovato. E Francesco al numero 4 del proemio indica quattro criteri di fondo per un rinnovamento e un rilancio del contributo degli studi ecclesiastici a una Chiesa in uscita missionaria.

Può illustrarceli per sommi capi?

Il primo è quello della contemplazione e della introduzione spirituale, intellettuale ed esistenziale nel cuore del kerygma, cioè della sempre nuova e affascinante lieta notizia del Vangelo di Gesù. In sintesi, anche le università e le facoltà non devono dare per scontato che il fondamento sia il Vangelo, ma ritornare alla fonte, al cuore. Il secondo è quello del dialogo non come mero atteggiamento tattico, ma come esigenza intrinseca per fare esperienza comunitaria della gioia della Verità. Che in pratica rilancia la cultura dell’incontro: le università non possono non dialogare, perché, come ha sottolineato Benedetto XVI, la verità è logos che crea dia-logos e quindi comunicazione e comunione. Per questo bisogna rivedere in quest’ottica e in questo spirito l’architettonica e la dinamica metodica dei curricula di studi proposti. Quindi, Papa Francesco auspica una revisione dei contenuti. Il terzo criterio è molto importante a livello scientifico perché rimanda all’inter-disciplinarietà e alla trans-disciplinarietà esercitate con sapienza e creatività. In sostanza il Pontefice dice che è giusto diversificare i saperi, però occorre poi riportare tutto all’unità, e cita in proposito due autori rivoluzionari nella storia della Chiesa: John Henry Newman e Antonio Rosmini. Entrambi mettevano in guardia dal rischio della dispersione e, di contro, ribadivano la necessità dell’unità, per superare la nefasta separazione tra teoria e pratica. Infine, il quarto criterio è “fare rete” tra le diverse istituzioni: sia intraecclesiali, quindi tra le stesse della Chiesa, ma anche in sinergia con le realtà accademiche dei diversi paesi e con quelle che si ispirano a tradizioni culturali e religiose diverse, ovvero l’apertura ad extra in una società multiculturale e multireligiosa. In tal senso si sottolinea l’impulso che va dato alla ricerca di nuove piste come risposta ai problemi dell’umanità: bisogna aprirsi al mondo non solo a livello intellettuale, ma questa ricchezza delle diversità dei saperi, delle culture e delle religioni deve diventare proposta di progetti comuni. E qui il Papa cita di nuovo la Laudato si’ per riaffermare la necessità che le università non si chiudano a livello accademico ma si aprano alla società, con un aspetto operativo, non limitandosi a elaborare solo teorie ma anche concreti progetti comuni.

Quali sono le conseguenze pratiche di tali premesse?

Quelle che si trovano al numero 5 dello stesso proemio, ovvero l’imprimere un nuovo impulso alla ricerca scientifica. Del resto, gli studi ecclesiastici non possono limitarsi a trasferire conoscenze, competenze, esperienze, agli uomini e alle donne del nostro tempo, ma devono acquisire l’urgente compito di elaborare strumenti intellettuali in grado di proporsi come paradigmi d’azione e di pensiero, utili all’annuncio in un mondo contrassegnato dal pluralismo etico-religioso. Da qui l’affidamento da parte del Papa alla ricerca condotta nelle università, nelle facoltà e negli istituti ecclesiastici del compito di sviluppare quella apologetica originale indicata nell’Evangelii gaudium, affinché esse aiutino a creare le disposizioni perché il Vangelo sia ascoltato da tutti. Insomma, si tratta di uscire dal mondo del solo pensiero per non rischiare l’isolamento.

Ora che compiti spettano alla Congregazione?

Ci adopereremo per promuovere lo spirito del rinnovamento missionario voluto dal Papa per le nostre istituzioni accademiche, chiamate in prima persona e dare risposte adeguate alle sfide del mondo contemporaneo.



martedì 30 gennaio 2018

«Queste sono le tracce proprio del modo di agire di Gesù, di camminare con il suo popolo, in mezzo al suo popolo: vicinanza e tenerezza» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)



S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
30 gennaio 2018
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 


Papa Francesco:
“Pastore tra la gente


«Vicinanza e tenerezza» sono gli atteggiamenti del vero pastore che sta sempre in mezzo alla gente, preoccupandosi dei problemi concreti, lasciandosi toccare e andando di persona dove è chiamato, fino alla sfinimento fisico se necessario. E senza mai atteggiarsi a profeta o a consulente spirituale o a guaritore, con tanto di orari di visita e listino dei prezzi. E proprio la figura del pastore, modellato sulla testimonianza di Gesù che è stato sempre in mezzo alla strada tra la folla, Papa Francesco ha voluto riproporre nella messa celebrata martedì 30 gennaio a Santa Marta.

Per la sua riflessione il Pontefice ha preso le mosse da un passo del Vangelo che «è più da contemplare che da riflettere», come ha osservato riferendosi al brano di Marco (5,21-43). «Contemplare», dunque, «come era una giornata nella vita di Gesù: Dio aveva promesso di accompagnare il suo popolo, di camminare con lui, e Dio accompagnò il suo popolo e inviò Gesù a portare alla pienezza questo cammino». 
Gesù, ha spiegato il Pontefice, accompagna «il popolo come un pastore. Non apre un ufficio di consulenze spirituali con un cartello: “il profeta riceve lunedì, mercoledì, venerdì dalle 3 alle 6. L’entrata costa tanto o, se volete, potete dare un’offerta”». Il Signore «non fa così», ha affermato il Papa, e «neppure aprì uno studio medico con il cartello: “gli ammalati vengono tal giorno, tal giorno, tal giorno e saranno guariti”». Niente di tutto questo. Anzi, «Gesù si butta in mezzo al popolo». 
«Quasi tutta la vita di Gesù, la vita pubblica, è stata sulla strada con la gente — ha detto Francesco — e quando insegnava c’era sempre quella parola che si ripete: “c’era una grande folla”, la folla della gente che lo seguiva». E «lui si preoccupava della gente perché capissero bene, e anche si preoccupava quando pensava che avevano fame: dare da mangiare». Gesù era sempre «in mezzo alla gente: questo è il pastore, questa è la figura di pastore che Gesù ci dà e ci dice a noi, pastori, come va accompagnata la gente: in mezzo al popolo». 
«Una volta — ha confidato il Papa — un santo sacerdote che accompagnava così il suo popolo mi disse: “La gente è stancante: finisco la giornata distrutto”. Io gli dissi: “Ma felice?” — “Sì!”». E «per dormire quel pastore non aveva bisogno delle pastiglie: dormiva benissimo, perché era davvero stanco, ma con la stanchezza reale, non la stanchezza ideale; la stanchezza di chi lavora, di quella persona che lavora e così accompagna il popolo». 
Nel passo del Vangelo, ha fatto notare Francesco, «cinque volte c’è il verbo “toccare”». Gesù «è “toccato” dalla gente». Ma «anche oggi vediamo, quando va il vescovo in una visita pastorale, o il parroco, toccano, per prendere grazia, dicono». Perché, ha aggiunto, «il popolo è così e se tu sei pastore e sei in mezzo al popolo, tu devi sentire questo». In realtà, ha proseguito il Pontefice, il Vangelo di oggi «dice di più: “Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno”». E quando la folla «lo stringe Gesù non diceva: “no, state lì”». Come se oggi dicessimo: «non toccare il prete, no, per favore, fate spazio che viene, o che viene il vescovo o viene il prete». E così ecco che Gesù «era lì, in mezzo: era più di un prete e di un vescovo, Gesù», e «si lasciava toccare, stringere: sentiva tutti». 
In mezzo a quella folla, racconta Marco nel suo Vangelo, «si è infilato questo capo della Sinagoga» di nome Giàiro «e gli dice: “Maestro, mia figlia sta morendo». Per tutta risposta «Gesù va, cammina; non ha detto: “portatemela”», ma ha risposto: «ci vado». Dunque «il pastore va dove sono i problemi, va dove sono le pecore, va dove sono le difficoltà». Risponde sempre: «ci vado». 
Nel proseguire la rilettura del passo evangelico, Francesco ha indicato la figura di «quella vecchietta che, poveretta, non sapeva come guarire dalla malattia: aveva fede, quella donna, e fa questo scherzo: “se io tocco”» il mantello di Gesù. Pensava infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E Gesù si «accorse» di quel gesto della donna, «perché Gesù era presente ai gesti della gente». E «mai nel cuore di Gesù passò l’idea: “questa gente ignorante, che non sa teologia, questa gente superstiziosa...”, mai!». Ecco invece la sua domanda di pastore: «Chi mi ha toccato?». E subito la rassicurazione: «Non temere. Va’ in pace. La tua fede ti ha salvata». E «così risolve i problemi». 
Francesco ha suggerito una meditazione anche sul momento in cui, nel racconto evangelico, «arriva la notizia della morte della bambina». Al padre, Gesù raccomanda: «Non temere, soltanto abbi fede!». E va a casa della bambina. «Sembra che a Gesù — ha spiegato il Papa — piaccia andare incontro alle difficoltà, ai problemi, quando la gente lo chiede». 
Arrivato in «quella casa», Gesù «deve pagare l’entrata: l’entrata della beffa, della derisione, perché c’era la gente, c’erano le prefiche che piangevano, urlavano, come si faceva in oriente nelle veglie notturne, nelle veglie per i morti». E chiede di non piangere, perché la bambina dorme, non è morta. Con queste parole, ha proseguito il Papa, Gesù raccoglie «la beffa», ma «zitto va avanti, paga con lo sforzo, con la stanchezza, con la vergogna pure, paga per fare il bene». 
E «poi, alla fine, con quel gesto — ha affermato — fa tornare alla vita la ragazza e la dà ai genitori. E non dice: “il Signore vi benedica”, non fa una cerimonia». Dice semplicemente: «Datele da mangiare». Del resto, ha spiegato Francesco, «Gesù è attento alle piccole cose: questo mi viene in mente quando resuscita il figlio della vedova a Naim». E il racconto del «Vangelo finisce così: “E lo restituì a sua madre”». Gesù «dà, anche quella figlia, dà». «Queste, per me, sono le tracce proprio del modo di agire di Gesù, di camminare con il suo popolo, in mezzo al suo popolo: vicinanza e tenerezza» ha ribadito il Pontefice. «Dio — ha aggiunto — sempre è stato vicino al suo popolo, ha camminato con il suo popolo; è stato tenerissimo, come una madre: lui stesso lo dice attraverso i profeti». E anche «Gesù, Dio e uomo, fa che questa vicinanza del Padre sia reale e concreta, e questa tenerezza anche». 
«Il pastore va unto con l’olio il giorno della sua ordinazione: sacerdotale e episcopale» ha affermato il Papa. Ma «il vero olio, quello interiore, è l’olio della vicinanza e della tenerezza». Invece al «pastore che non sa farsi vicino manca qualcosa: forse è un padrone del campo, ma non è un pastore». Perché «un pastore al quale manca tenerezza sarà un rigido, che bastona le pecore». 
Servono dunque «vicinanza e tenerezza; lo vediamo» nella pagina del vangelo di Marco proposta dalla liturgia: «Così era Gesù e il pastore, come era Gesù, finisce la giornata stanco, ma stanco di fare questo bene». Perciò «vicinanza e tenerezza» sono gli «atteggiamenti di un vero pastore»
«Oggi potremo pregare nella messa per i nostri pastori — ha suggerito Francesco — perché il Signore dia loro questa grazia di camminare con il popolo, essere presenti al popolo con tanta tenerezza, con tanta vicinanza». E «quando il popolo trova il suo pastore, sente quella cosa speciale che soltanto si sente alla presenza di Dio». Lo ricorda proprio la conclusione del passo del Vangelo nel descrivere i sentimenti dei presenti: «Essi furono presi da grande stupore». Ed è «lo stupore di sentire la vicinanza e la tenerezza di Dio nel pastore».

(fonte: L'Osservatore Romano)

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Omelia p. Gregorio Battaglia (VIDEO) - IV Domenica T. O. / B - 28/01/2018


Omelia p. Gregorio Battaglia

IV Domenica Tempo Ordinario / B - 

28/01/2018

Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto

... Gesù vuole coinvolgere coloro che si dicono credenti, coloro che sono intenzionati a ricercare la volontà di Dio nell'ascolto della sua Parola... 
... Il Signore è il nostro maestro... Lui ha qualcosa da insegnarci, Lui vuole insegnarci come si può affrontare la vita, come va vissuta la nostra esistenza, come imparare in un certo senso a riscoprire la nostra vocazione alla vita; non siamo chiamati a creare e a distruggere, eppure buona parte della politica di ogni stato... è fatta per costruire delle armi per uccidere gli altri, la nostra vocazione alla vita dov'è?... stiamo tradendo la nostra vocazione...
C'è un'umanità posseduta da uno spirito impuro... c'è qualcosa dentro di noi che non ci apre, è come se il nostro cuore non si aprisse... lo spirito impuro che ci portiamo dentro ci impedisce di cogliere la bellezza, la novità di questo insegnamento, di questa vita che va affrontata diversamente ...

Gesù non è soltanto il maestro, ma è anche il contenuto dell'insegnamento... perché la dottrina è Lui.
Noi siamo chiamati non solo ad andare a scuola da Lui, ma a scoprire che il contenuto dell'insegnamento è Lui, perché Lui ci mostra come va vissuta la vita, come va affrontata, è il suo stile di vita che deve diventare il nostro ...


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Giovani e Internet. Lavorare perché le opportunità prevalgano sui rischi

CYBERBULLISMO E VIOLENZA ONLINE

Giovani e Internet.
Lavorare perché le opportunità prevalgano sui rischi

Dalla ricerca “Eu kids online per Miur e Parole O_Stili” presentata oggi a Roma emerge che è in aumento il numero di ragazzi e ragazze tra i 9 e i 17 anni che hanno fatto qualche esperienza su Internet che li ha turbati o fatti sentire a disagio. Per la ministra Fedeli quella a bullismo, cyberbullismo e “hate speech” è una lotta “che riguarda tutti e che deve vederci tutti coinvolti”



La facilità di accesso ad Internet, ampliata dal diffondersi anche tra bambini e ragazzi di smartphone e tablet, ha portato in questi anni ad un contestuale aumento di opportunità e di rischi. Lo conferma anche la ricerca “Eu kids online per Miur e Parole O_Stili” presentata oggi a Roma, nel corso dell’evento “Crea, connetti e condividi il rispetto: un Internet migliore comincia con te”, svoltosi al Ministero dell’Istruzione, della ricerca e dell’università.

Dallo studio condotto dall’OssCom (Centro di ricerca sui media e la comunicazione) dell’Università Cattolica, in collaborazione con Miur e Ats Parole Ostili (formata da Associazione Parole O_Stili, Università Cattolica e Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo), emerge che lo smartphone è oggi il principale strumento con cui i ragazzi accedono al web. Lo impiega quotidianamente il 97% dei ragazzi tra i 15 e i 17 anni e il 51% dei bambini di 9 e 10 anni.“Questo – ha spiegato Giovanna Mascheroni, docente dell’Università Cattolica – si accompagna con un aumento dei luoghi in cui ci si connette, un aumento del tempo della connessione – in media 2,5 ore al giorno – e un aumento dell’attività online”.
Potrebbe anche sembrare un fatto positivo, se non fosse che – stando ai dati della ricerca – “cresce il numero di ragazzi e ragazze di 9-17 anni che hanno fatto qualche esperienza su Internet che li ha turbati o fatti sentire a disagio (13%). Cresce soprattutto fra i bambini di 9-10 anni, passando dal 3% registrato nel 2013 al 13% del 2017”.

Fra i rischi e i pericoli che i minorenni corrono navigando online e connettendosi alla rete ci sono contenuti inappropriati, l’hate speech (offese), l’esposizione a contenuti pornografici e il sexting (messaggi sessuali). In aumento il numero di siti che incitano a forme di autolesionismo, anoressia, bulimia.
Il 31% degli 11-17enni dichiara di aver visto online messaggi d’odio o commenti offensivi rivolti a singoli individui o gruppi di persone, attaccati per il colore della pelle, la nazionalità o la religione. Di fronte all’hate speech il sentimento più diffuso è la tristezza (52%), seguita da rabbia (36%), disprezzo (35%), vergogna (20%). Ma nel 58% dei casi gli intervistati ammettono di non aver fatto nulla per difendere le vittime.
Il 7% dei ragazzi di 11-17 anni ha invece ricevuto messaggi sessuali. Circa un terzo degli intervistati (ma il 67% delle ragazze) si è detto molto o abbastanza turbato dai messaggi ricevuti.
Cresce anche l’esposizione ai contenuti pornografici, con il 31% di ragazzi di 9-17 anni (ma il 51% degli adolescenti di 15-17 anni) che nell’ultimo anno ha visualizzato contenuti sessuali. La reazione più comune di fronte alla pornografia è l’indifferenza. Da rilevare, tuttavia, il numero elevato di ragazzi di 11-12 anni che si dice molto (18%) o abbastanza (50%) turbato da ciò che ha visto).
Inoltre, il 27% dei ragazzi di 9-17 anni è in contatto su Internet con persone che non ha mai incontrato nella vita di tutti i giorni.
E se gli amici (47%) e i genitori (38%) sono le persone a cui principalmente ci si rivolge a seguito di esperienze negative, secondo Mascheroni, a preoccupare è il dato secondo cui “il 25% dei ragazzi interessati da questi rischi (il 50% degli intervistati) non ne hanno parlato con nessuno”. “Un terzo non fa nulla e aspetta che il problema si risolva da solo” mentre “solo il 2% usa il ‘Segnala un abuso’ messo a disposizione dalle piattaforme online”.

I temi del bullismo e del cyberbullismo, anche a seguito di tragici eventi di cronaca, hanno generato reazioni a livello istituzionale e di società civile, di insegnanti, educatori e genitori. Poiché “si fa fatica a stare in rete, è diventato pesante”, come ha rilevato durante l’evento l’ideatrice del progetto Parole O_Stili, Rosy Russo, si è dato vita ad una community che ha elaborato e condiviso il “Manifesto della comunicazione non ostile”. “Abbiamo deciso di provare a fare qualcosa per arginare un modo dilagante di stare in rete”. E dopo altre iniziative, in collaborazione con l’Università Cattolica il prossimo 9 febbraio a Milano si terrà “Parole a scuola”, una giornata di formazione gratuita per docenti sul tema delle competenze digitali e dell’ostilità nei linguaggi. Antonella Sciarrone Alibrandi, prorettrice dell’Università Cattolica, ha spiegato che vuole essere un contributo rivolto soprattutto ai docenti “per aiutarli a prevenire, quindi ad educare ad un uso consapevole e rispettoso del web, ed insegnare ad avere una consapevolezza e dimestichezza emotiva e razionale ai ragazzi, più bravi di noi nell’utilizzo pratico dei device”. A Milano ci saranno 2mila insegnanti da tutta Italia; previste più di 30 lezioni frontali e laboratori per un totale di 3.600 ore di formazione gratuita.
L’evento si terrà tre giorni dopo il Safer internet day che, ha annunciato la ministra Valeria Fedeli, “si svolgerà in concomitanza con la giornata ‘Un Nodo Blu – le scuole unite contro il bullismo’”, giunta alla seconda edizione. Ricordando quanto è stato fatto in questi anni anche sul fronte legislativo sul tema del bullismo e del cyberbullismo, con l’approvazione di “una legge che ha determinato non solo una sensibilizzazione politica orizzontale, di tutti, su questo fenomeno ma anche la costituzione di un Osservatorio interministeriale”, Fedeli ha sottolineato come “purtroppo di bullismo e cyberbullismo si muore”. Ma su questi temi “c’è spesso indifferenza, non conoscenza da parte degli adulti”. Si ignora “il significato di un’azione, che a volte appare ancora minimale. Quasi come se fosse un gioco tra ragazzi”.

“Non lo è”, “c’è una responsabilità precisa che dobbiamo assumerci”. E per questo è “fondamentale il ruolo della scuola”. Non solo; si tratta di una realtà “che riguarda tutti e che deve vederci tutti coinvolti”, ha osservato la ministra. “Tutti insieme, ciascuno con le proprie responsabilità, dentro la scuola e fuori ci dovete aiutare a parlare coi genitori, non ci dev’essere uno iato tra ciò che succede a scuola sul modo di utilizzare Internet e ciò che succede a casa”. Anche su questo fronte è più che mai indispensabile un’alleanza tra famiglie, scuola, istituzioni. Perché sui rischi e i pericoli prevalgano le opportunità positive offerte dalle nuove tecnologie, che sempre più hanno invaso e invaderanno la vita non solo dei ragazzi.
(fonte: Sir)

Per approfondire vedi anche:
Il testo integrale della ricerca “EU Kids Online per MIUR e Parole O_Stili”

“Crea, connetti e condividi il rispetto: un'Internet migliore comincia da te”

Vedi anche il nostro post precedente:


lunedì 29 gennaio 2018

«Chiediamo al Signore la grazia dell’umiltà» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
29 gennaio 2018
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 


Papa Francesco:
non c'è vera umiltà senza umiliazione”


“Non c’è vera umiltà senza umiliazione”. E’ il cuore dell’omelia di Papa Francesco stamani alla Messa a Casa Santa Marta. Una riflessione che parte dalla figura del re Davide , al centro della Prima Lettura odierna.

Il grande Davide era anche un peccatore
Davide infatti è “un grande”: aveva vinto il filisteo, aveva “un’anima nobile” perché per due volte avrebbe potuto uccidere Saul e non l’aveva fatto ma anche un peccatore, aveva “peccati grossi” : “quello dell’adulterio e dell’assassinio di Uria", il marito di Betsabea, “quello del censimento”. Eppure – nota Francesco – la Chiesa lo venera come santo “perché si è lasciato trasformare dal Signore, si è lasciato perdonare”, si è pentito, e per “quella capacità non tanto facile di riconoscere di essere peccatore: ‘Sono peccatore’”.

Davide umiliato
In particolare la Prima Lettura è incentrata sull’umiliazione di Davide: suo figlio Assalonne “fa la rivoluzione contro di lui”. Proprio lui, il figlio, “uscito dalle mie viscere”. In quel momento Davide non pensa “alla propria pelle” ma a salvare il popolo, il Tempio, l’Arca. E fugge: “ un gesto che sembra da codardo ma è coraggioso”, sottolinea il Papa . Piangeva, camminando con il capo coperto e i piedi scalzi.

Davide si lascia insultare
Ma il grande Davide viene anche umiliato non solo con la sconfitta e la fuga ma anche con l’insulto. Durante la fuga, un uomo, Simeì, lo insulta dicendogli che il Signore aveva fatto ricadere su di lui tutto sangue della casa di Saul - “al posto del quale regni” - e messo il regno nelle mani di suo figlio Assalonne: “eccoti nella tua rovina – affermava - perché sei un sanguinario”. Davide lo lascia fare nonostante i suoi volessero difenderlo: “E’ il Signore che ispira di insultarmi”, forse “questo insulto commuoverà il cuore del Signore e mi benedirà”.

L'umiltà prêt-à-porter non salva
“Davide saliva l’erta degli ulivi”, dice ancora la Parola. Questa – nota il Papa - è profezia di Gesù che sale il Calvario per dare la vita: insultato, lasciato da parte. Il riferimento è proprio all’umiltà di Gesù. 
Alle volte, noi pensiamo che l’umiltà è andare tranquilli, andare forse a testa bassa guardando il pavimento … ma anche i maiali camminano a testa bassa: questa non è umiltà. Questa è quell’umiltà finta, prêt-à-porter, che non salva né custodisce il cuore. E’ buono che noi pensiamo questo: non c’è vera umiltà senza umiliazione, e se tu non sei capace di tollerare, di portare sulle spalle un’umiliazione, tu non sei umile: fai finta, ma non lo sei.

La strada è portare le umiliazioni in speranza
Davide carica sulle sue spalle i propri peccati. “Davide è Santo; Gesù, con la santità di Dio, è proprio Santo”, dice il Papa e aggiunge: “Davide è peccatore, Gesù è peccatore ma con i nostri peccati. Ma tutti e due, umiliati”.
Sempre c’è la tentazione di lottare contro quello che ci calunnia, contro quello che ci fa l’umiliazione, che ci fa passare vergogna, come questo Simeì. E Davide dice: “No”. Il Signore dice: “No”. Quella non è la strada. La strada è quella di Gesù, profetizzata da Davide: portare le umiliazioni. “Forse il Signore guarderà alla mia afflizione e mi renderà il bene in cambio della maledizione di oggi”: portare le umiliazioni in speranza.

Non c'è umiltà senza umiliazione
Francesco però avverte che l’umiltà non è giustificarsi subito di fronte all’offesa, cercando di sembrare buono: “se non sai vivere una umiliazione, tu non sei umile”, ammonisce. “Questa è la regola d’oro”.

Chiediamo al Signore la grazia dell’umiltà, ma con umiliazioni. C’era quella suora che diceva: “Io sono umile, sì, ma umiliata, mai!”. No, no! Non c’è umiltà senza umiliazione. Chiediamo questa grazia. E anche, se qualcuno è coraggioso, può chiedere – come ci insegna Sant’Ignazio – può chiedere al Signore che gli invii umiliazioni, per assomigliare di più al Signore.

(fonte: VATICAN NEWS)

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Italiani razzisti? Tristi storie dei nostri giorni spesso sottovalutate di "ordinario razzismo"

Dei 55 italiani su cento che, rispondendo a un sondaggio di Swg (15 novembre 2017), hanno giustificato il razzismo, la gran parte probabilmente escluderebbe di essere razzista. La domanda era diretta: «Determinate forme di razzismo e discriminazione possono essere giustificate?». Per il 45 per cento è «no mai». Per il 29 «dipende dalle situazioni». Per il 16 «solo in pochi specifici casi». Per il 7 «nella maggior parte dei casi». Per il 3 «sempre». Se la domanda fosse stata «lei è razzista?» è presumibile che avrebbe risposto sì il 3 per cento per cui il razzismo è giustificabile sempre, e forse alcuni del 7 per cento per cui è accettabile nella maggior parte dei casi. Il razzismo è una malattia insidiosa, dà sintomi vaghi, talvolta deboli o indecifrabili: non si prende il razzismo come un’influenza, dall’oggi al domani.
...
Il linguaggio della politica 
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La violenza quotidiana
Un’inchiesta dell’associazione Lunaria, presentata a Montecitorio lo scorso ottobre, ha registrato 1483 casi «di violenza razzista e discriminazione» tra il primo gennaio 2015 e il 31 maggio 2017. Da gennaio 2007 ad aprile 2009, la stessa Lunaria ne aveva registrati 319. Di questi 1483 casi, 1197 vanno alla voce violenza verbale, e non bisogna per questo pensare che siano meno gravi 
... Sono episodi pescati alla rinfusa fra centinaia. Se ne sono citati due consumati fra bambini o ragazzini per rendere l’idea dell’aria che tira.
Le istituzioni contagiate 
L’aspetto più stupefacente del lavoro di Lunaria è che il maggior numero dei casi (615) ha per protagonisti «attori istituzionali». Hanno spesso a che fare coi sindaci e le loro ordinanze teoricamente a tutela dell’ordine pubblico. ... Poi, naturalmente, ci sono anche le violenze fisiche: 84. ... 
L’intolleranza via social 
Fin qui si tratta di fatti di cronaca, ma poi c’è una frenetica attività di razzismo quotidiano. L’associazione Vox, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e La Sapienza di Roma, ha monitorato il social Twitter nel periodo che va dall’agosto 2015 al febbraio 2016, e ha trovato 412 mila tweet misogini, razzisti o omofobi. ... 
Cresce l’antisemitismo
E qui arriviamo all’ultimo studio, proposto dalla Anti Defamation League - Osservatorio antisemitismo Italia. ... Anche qui si potrebbe andare avanti per pagine ...
Per sottolineare l’ovvio: nelle società dove il razzismo cresce, chi lo subisce spesso poi lo alimenta, in un clima facilone, crudele ed epidemico in cui tutti hanno conquistato il diritto alla spudoratezza.

... La donna si era presentata nell'ambulatorio della guardia medica di Cantù, nel Comasco, domenica sera per un controllo medico. Entrata nello studio si era trovata davanti in camice bianco il medico di guardia, originario del Camerun: la donna, colta di sorpresa, non è riuscita a nascondere il suo disprezzo per il colore della pelle del professionista che aveva di fronte. Ha preso la porta e ha fatto per andarsene, non senza farsi scappare quelle parole taglienti, pesanti e razziste: «Io non mi farò mai toccare da un medico negro». 
...

... Il post appare su Facebook sabato scorso. Musah Awudu, 37 anni, ha avuto un banale incidente domestico ed è al pronto soccorso dell'Ospedale civile per farsi medicare. "L'infermiera di turno non si sta preoccupando della mia salute, è molto infastidita dalla mia presenza, quindi mi chiede perché sono venuto in italia. Io: "Chiedimi del mio problema, per favore". Lei: "No no, questo è il mio paese e se non ti piace torna in Africa". Awudu osserva: "E comunque ha la croce e il quadro di padre Pio appesi dapertutto, glielo faccio notare, sfidando la sua fede e la sua professionalità. Si infastidisce ancora di più: "Viva Salvini, viva l'Italia", esclama. Io sono ancora in fila per vedere il medico".
...

C’è poco da fare. Oramai siamo in piena campagna elettorale, e i toni sono già andati ben oltre la soglia della normalità e della “civiltà”. Soltanto qualche giorno fa, le dichiarazioni di Attilio Fontana sulla “razza bianca” sollevavano dichiarazioni indignate da parte degli avversari politici. Ma non sono solo le parole ed i discorsi ad istigare al razzismo. Dai “manifesti” virtuali sulla “razza” e sull’orgoglio etnico”, si passa ai manifesti reali. E la campagna elettorale condotta sui temi dell’immigrazione assume ancor di più un ruolo centrale e d’impatto, quando alla “parola” si associa un’immagine. L’efficacia del messaggio diventa pervasiva.

Il 12 gennaio compaiono a Sesto Fiorentino grandi manifesti 6×3 di Fratelli d’Italia, affissi vicino ai terreni dove sorgerà la futura moschea, nella zona del Polo scientifico dell’Università, con lo slogan “No alla moschea”, abbinato a quello “Prima gli Italiani”.
Lo stesso giorno a Noto, all’ingresso della città, compare un altro 6×3, questa volta di CasaPound Italia, con l’immagine di un barcone con alcune persone a bordo ed una grande freccia rossa che ne indica una direzione, e recita: “Immigrazione: obiettivo rimpatrio. Chi non ha titolo per stare in Italia deve tornare immediatamente da dove è venuto”.

Mentre ieri, alcuni manifesti della neonata lista Liberi e Uguali, il movimento di sinistra guidato da Pietro Grasso, affissi accanto allo stadio Braglia di Modena, vengono coperti da un’altra affissione abusiva ad opera del gruppo di destra Azione Identitaria, dai contenuti razzisti e fascisti.

Sempre di ieri è la notizia di un manifesto apparso in corso Siccardi, all’angolo con via Cernaia, a Torino, dove sul celebre scatto del viso di Sharbat Gula (“Ragazza afgana” di Steve McCurry), fotografata nel 1984 nel campo profughi di Peshawar, è stata aggiunta una targhetta con lo slogan «No zingari». Il manifesto reca in basso il simbolo di CasaPound. Dal canto suo, Casapound Torino nega ogni tipo di responsabilità e accusa il cosiddetto “Bansky” di Torino, l’artista piemontese che mette alla berlina i politici con le sue opere, di esserne l’artefice. E smentisce attraverso un post su Facebook: “Dopo Appendino, Le Pen, Salvini e Obama questa volta il ‘Banksy torinese’ cita CasaPound. Essendo d’altronde l’unica realtà politica realmente attiva su Torino, c’era da aspettarselo. Da anni ci battiamo con i residenti delle periferie per chiedere la chiusura dei campi rom e qualcuno pare essersene accorto!“.

Questo esordio di campagna elettorale non ci sorprende. Sin troppa agibilità politica e mediatica è stata lasciata agli imprenditori del razzismo in questi anni e d’altra parte le scelte del Governo degli ultimi mesi, dai decreti Minniti-Orlando, alla campagna di delegittimazione della solidarietà, alle missioni militari che hanno il fine precipuo di fermare gli arrivi dei migranti nel nostro paese, non hanno fatto altro che legittimare discorsi e comportamenti discriminatori e razzisti. Non resta che rimboccarsi le maniche e continuare a denunciarli. Dateci una mano!


"Gesù è il nostro Maestro, potente in parole e opere. Gesù ci comunica tutta la luce che illumina le strade, a volte buie, della nostra esistenza; ci comunica anche la forza necessaria per superare le difficoltà, le prove, le tentazioni." Papa Francesco Angelus 28/01/2018 (testo e video)

ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 28 gennaio 2018


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo di questa domenica (cfr Mc 1,21-28) fa parte della più ampia narrazione indicata come la “giornata di Cafarnao”. Al centro dell’odierno racconto sta l’evento dell’esorcismo, attraverso il quale Gesù è presentato come profeta potente in parole e in opere.

Egli entra nella sinagoga di Cafarnao di sabato e si mette a insegnare; le persone rimangono stupite delle sue parole, perché non sono parole ordinarie, non assomigliano a quanto loro ascoltano di solito. Gli scribi, infatti, insegnano ma senza avere una propria autorevolezza. E Gesù insegna con autorità. Gesù, invece, insegna come uno che ha autorità, rivelandosi così come l’Inviato di Dio, e non come un semplice uomo che deve fondare il proprio insegnamento solo sulle tradizioni precedenti. Gesù ha una piena autorevolezza. La sua dottrina è nuova e il Vangelo dice che la gente commentava: «Un insegnamento nuovo, dato con autorità» (v. 27).

Al tempo stesso, Gesù si rivela potente anche nelle opere. Nella sinagoga di Cafarnao c’è un uomo posseduto da uno spirito immondo, che si manifesta gridando queste parole: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!» (v. 24). Il diavolo dice la verità: Gesù è venuto per rovinare il diavolo, per rovinare il demonio, per vincerlo. Questo spirito immondo conosce la potenza di Gesù e ne proclama anche la santità. Gesù lo sgrida, dicendogli: «Taci! Esci da lui» (v. 25). Queste poche parole di Gesù bastano per ottenere la vittoria su Satana, il quale esce da quell’uomo «straziandolo e gridando forte», dice il Vangelo (v. 26).

Questo fatto impressiona molto i presenti; tutti sono presi da timore e si chiedono: «Ma, chi è mai questo? […] Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!» (v. 27). La potenza di Gesù conferma l’autorevolezza del suo insegnamento. Egli non pronuncia solo parole, ma agisce. Così manifesta il progetto di Dio con le parole e con la potenza delle opere. Nel Vangelo, infatti, vediamo che Gesù, nella sua missione terrena, rivela l’amore di Dio sia con la predicazione sia con innumerevoli gesti di attenzione e soccorso ai malati, ai bisognosi, ai bambini, ai peccatori.

Gesù è il nostro Maestro, potente in parole e opere. Gesù ci comunica tutta la luce che illumina le strade, a volte buie, della nostra esistenza; ci comunica anche la forza necessaria per superare le difficoltà, le prove, le tentazioni. Pensiamo a quale grande grazia è per noi aver conosciuto questo Dio così potente e così buono! Un maestro e un amico, che ci indica la strada e si prende cura di noi, specialmente quando siamo nel bisogno.

La Vergine Maria, donna dell’ascolto, ci aiuti a fare silenzio attorno e dentro di noi, per ascoltare, nel frastuono dei messaggi del mondo, la parola più autorevole che ci sia: quella del suo Figlio Gesù, che annuncia il senso della nostra esistenza e ci libera da ogni schiavitù, anche da quella del Maligno.


Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle,

Ieri è giunta dall’Afghanistan la dolorosa notizia della terribile strage terroristica compiuta nella capitale Kabul, con più di cento morti e numerosi feriti. Pochi giorni fa un altro grave attentato, sempre a Kabul, aveva seminato terrore e morte in un grande albergo. Fino a quando il popolo afghano dovrà sopportare questa disumana violenza? Preghiamo in silenzio per tutte le vittime e per le loro famiglie; e preghiamo per quanti, in quel Paese, continuano a lavorare per costruire la pace.

Si celebra oggi la Giornata mondiale dei malati di lebbra. Questa malattia purtroppo colpisce ancora soprattutto le persone più disagiate e più povere. A questi fratelli e sorelle assicuriamo la nostra vicinanza e solidarietà; e preghiamo anche per coloro che li assistono e si adoperano per il loro reinserimento nella società.

Saluto le famiglie, le parrocchie, le associazioni e tutti quanti sono venuti dall’Italia e da tante parti del mondo. In particolare gli studenti di Badajoz (Spagna), i fedeli di Ljubljana (Slovenia) e quelli di Venezia e di Veglie.

Con grande affetto saluto i ragazzi e le ragazze dell’Azione Cattolica della Diocesi di Roma! Spero che anche facendo rumore, sappiate fare cose buone, no? Cari ragazzi, anche quest’anno, accompagnati dall’Arcivescovo Vicario, dai vostri genitori ed educatori e dai sacerdoti assistenti, siete venuti numerosi al termine della “Carovana della Pace”. Vi ringrazio per questa iniziativa. Grazie, grazie tante! Non stancatevi di essere strumenti di pace e di gioia tra i vostri coetanei! Ascoltiamo ora tutti il messaggio che i vostri amici, qui accanto a me, ci leggeranno.

[lettura del messaggio]

[Si rivolge ai due bambini che hanno letto il messaggio]: “Grazie, grazie. Rimanete qui. Salutate, saluta, saluta, senza paura!”


E ora, insieme alle nostre preghiere per la pace, ognuno di noi nel suo cuore prega per la pace. Insieme a queste preghiere saliranno al cielo i palloncini!

[lancio dei palloncini]
Avete visto questi palloncini? Quando noi preghiamo male, quando noi portiamo una vita che non è la vita che Gesù vuole, le nostre preghiere non arrivano e per questo deve venire un aiuto per farle andare su. Quando voi sentite che le vostre preghiere non salgono, cercate l’aiuto di qualcuno.

A tutti auguro una buona domenica. Per favore non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

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domenica 28 gennaio 2018

Papa Francesco: "Non saranno le idee o la tecnologia a darci conforto e speranza, ma il volto della Madre, le sue mani che accarezzano la vita, il suo manto che ci ripara. Impariamo a trovare rifugio, andando ogni giorno dalla Madre." Omelia Festa della Traslazione dell’Icona della Salus Populi Romani


Domenica, 28 gennaio 2018

SANTA MESSA IN OCCASIONE DELLA FESTA DELLA TRASLAZIONE
DELL'ICONA DELLA SALUS POPULI ROMANI
Basilica di Santa Maria Maggiore


E’ tutta un inno alla Madre, l’omelia di Papa Francesco che celebra la Messa in occasione della Festa della Traslazione dell’Icona della Salus Populi Romani, nella Basilica di Santa Maria Maggiore. Ma il legame del Pontefice con quest’icona è profondo: è la 59.ma volta che si reca in questa Basilica per venerare l’antica immagine che proviene dall’Oriente. Qui, infatti, cerca ristoro prima e dopo ogni viaggio. Questa volta, poi, la Festa della Traslazione si veste di un carattere particolare: è stata ricollocata l'antica icona mariana, recentemente sottoposta a restauro presso i laboratori dei Musei Vaticani.

L’immagine della Madonna col Bambino in braccio esposta da secoli nella basilica infatti è stata da poco restaurata, l’intervento è stato coordinato dal direttore Barbara Jatta con la supervisione di una commissione presieduta dall’Arciprete della Basilica Liberiana, il cardinale Stanislaw Rylko. In una nota dalla Basilica «Le sofisticate tecnologie delle indagini intraprese prima dell’intervento e la straordinaria perizia dei restauratori vaticani hanno consentito di recuperare l’originaria bellezza e la realtà storica dell’Opera, offuscata nei secoli da vernici, ridipinture e dagli effetti dell’uso devozionale. Così, finalmente, l’intimo sommesso colloquio delle anime potrà immergersi senza barriere nell’intenso sguardo della Madre di Dio e Madre nostra».

Nella preghiera dei fedeli è stata letta anche una preghiera per i "governanti di Roma". "Per intercessione di Maria, Salus Populi Romani - recita la preghiera -, guida, o Signore, la città di Roma e i suoi governanti nella ricerca della giustizia e del vero bene di ognuno".


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OMELIA DI PAPA FRANCESCO


Come popolo di Dio in cammino, siamo qui a sostare nel tempio della Madre. La presenza della Madre rende questo tempio una casa familiare a noi figli. Insieme a generazioni e generazioni di romani, riconosciamo in questa casa materna la nostra casa, la casa dove trovare ristoro, consolazione, protezione, rifugio. Il popolo cristiano ha capito, fin dagli inizi, che nelle difficoltà e nelle prove bisogna ricorrere alla Madre, come indica la più antica antifona mariana: Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta.

Cerchiamo rifugio. I nostri Padri nella fede hanno insegnato che nei momenti turbolenti bisogna raccogliersi sotto il manto della Santa Madre di Dio. Un tempo i perseguitati e i bisognosi cercavano rifugio presso le nobili donne altolocate: quando il loro mantello, che era ritenuto inviolabile, si stendeva in segno di accoglienza, la protezione era concessa. Così è per noi nei riguardi della Madonna, la donna più alta del genere umano. Il suo manto è sempre aperto per accoglierci e raccoglierci. Ce lo ricorda bene l’Oriente cristiano, dove molti festeggiano la Protezione della Madre di Dio, che in una bella icona è raffigurata mentre, col suo manto, ripara i figli e copre il mondo intero. Anche i monaci antichi raccomandavano, nelle prove, di rifugiarsi sotto il manto della Santa Madre di Dio: invocarla – “Santa Madre di Dio” – era già garanzia di protezione e di aiuto e questa preghiera ripetuta: “Santa Madre di Dio”, “Santa Madre di Dio” … Soltanto così.

Questa sapienza, che viene da lontano, ci aiuta: la Madre custodisce la fede, protegge le relazioni, salva nelle intemperie e preserva dal male. Dove la Madonna è di casa il diavolo non entra. Dove la Madonna è di casa il diavolo non entra. Dove c’è la Madre il turbamento non prevale, la paura non vince. Chi di noi non ha bisogno di questo, chi di noi non è talvolta turbato o inquieto? Quante volte il cuore è un mare in tempesta, dove le onde dei problemi si accavallano e i venti delle preoccupazioni non cessano di soffiare! Maria è l’arca sicura in mezzo al diluvio. Non saranno le idee o la tecnologia a darci conforto e speranza, ma il volto della Madre, le sue mani che accarezzano la vita, il suo manto che ci ripara. Impariamo a trovare rifugio, andando ogni giorno dalla Madre.

Non disprezzare le suppliche, continua l’antifona. Quando noi la supplichiamo, Maria supplica per noi. C’è un bel titolo in greco che dice questo: Grigorusa, cioè “colei che intercede prontamente”. E questo prontamente è quanto usa Luca nel Vangelo per dire come è andata Maria da Elisabetta: presto, subito! Intercede prontamente, non ritarda, come abbiamo sentito nel Vangelo, dove porta subito a Gesù il bisogno concreto di quella gente: «Non hanno vino» (Gv 2,3), niente più!. Così fa ogni volta, se la invochiamo: quando ci manca la speranza, quando scarseggia la gioia, quando si esauriscono le forze, quando si oscura la stella della vita, la Madre interviene. E se la invochiamo, interviene di più. È attenta alle fatiche, sensibile alle turbolenze - le turbolenze della vita -, vicina al cuore. E mai, mai disprezza le nostre preghiere; non ne lascia cadere nemmeno una. È Madre, non si vergogna mai di noi, anzi attende solo di poter aiutare i suoi figli.

Un episodio può aiutarci a capire. Accanto a un letto di ospedale una madre vegliava il proprio figlio, dolorante dopo un incidente. Quella madre stava sempre lì, giorno e notte. Una volta si lamentò col sacerdote, dicendo: «Ma il Signore non ha permesso una cosa a noi madri!». «Che cosa?» – chiese il prete. «Prendere il dolore dei figli», rispose la donna. Ecco il cuore di madre: non si vergogna delle ferite, delle debolezze dei figli, ma le vuole con sé. E la Madre di Dio e nostra sa prendere con sé, consolare, vegliare, risanare.

Continua l’antifona, liberaci da ogni pericolo. Il Signore stesso sa che ci occorrono rifugio e protezione in mezzo a tanti pericoli. Per questo, nel momento più alto, sulla croce, ha detto al discepolo amato, a ogni discepolo: «Ecco tua Madre!» (Gv 19,27). La Madre non è un optional, una cosa opzionale, è il testamento di Cristo. E noi abbiamo bisogno di lei come un viandante del ristoro, come un bimbo di essere portato in braccio. È un grande pericolo per la fede vivere senza Madre, senza protezione, lasciandoci trasportare dalla vita come le foglie dal vento. Il Signore lo sa e ci raccomanda di accogliere la Madre. Non è galateo spirituale, è un’esigenza di vita. Amarla non è poesia, è saper vivere. Perché senza Madre non possiamo essere figli. E noi, prima di tutto, siamo figli, figli amati, che hanno Dio per Padre e la Madonna per Madre.

Il Concilio Vaticano II insegna che Maria è «segno di certa speranza e di consolazione per il peregrinante popolo di Dio» (Cost. Lumen gentium, VIII, V). È segno, è il segno che Dio ha posto per noi. Se non lo seguiamo, andiamo fuori strada. Perché c’è una segnaletica della vita spirituale, che va osservata. Essa indica a noi, «ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni» (ivi,,62), la Madre, che è già giunta alla meta. Chi meglio di lei può accompagnarci nel cammino? Che cosa aspettiamo? Come il discepolo che sotto la croce accolse la Madre con sé, «fra le cose proprie», dice il Vangelo (Gv 19,27), anche noi, da questa casa materna, invitiamo Maria a casa nostra, nel cuore nostro, nella vita nostra. Non si può stare neutrali o distaccati dalla Madre, altrimenti perdiamo la nostra identità di figli e la nostra identità di popolo, e viviamo un cristianesimo fatto di idee, di programmi, senza affidamento, senza tenerezza, senza cuore. Ma senza cuore non c’è amore e la fede rischia di diventare una bella favola di altri tempi. La Madre, invece, custodisce e prepara i figli. Li ama e li protegge, perché amino e proteggano il mondo. Facciamo della Madre l’ospite della nostra quotidianità, la presenza costante a casa nostra, il nostro rifugio sicuro. Affidiamole ogni giornata. Invochiamola in ogni turbolenza. E non dimentichiamoci di tornare da lei per ringraziarla.

Adesso guardandola, appena uscita dall’ospedale, guardiamola con tenerezza e salutiamola come l’hanno salutata i cristiani di Efeso. Tutti insieme, per tre volte: “Santa Madre di Dio”. Tutti insieme: “Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio, Santa Madre di Dio”.

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