martedì 31 ottobre 2017

«Dentro di noi e nella creazione c’è una forza che scatena: c’è lo Spirito Santo. Che ci dà la speranza» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
31 ottobre 2017
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 



Papa Francesco:
Se la pastorale non ha coraggio”



I cristiani «credono davvero» nella «forza dello Spirito Santo» che è in loro? E hanno il coraggio di «gettare il seme», di mettersi in gioco, o si rifugiano in una «pastorale di conservazione» che non lascia che «il Regno di Dio cresca»? Sono le domande poste da Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta martedì 31 ottobre, nella quale ha tracciato un orizzonte di «speranza», per ogni singolo uomo e per la Chiesa come comunità: quello della piena realizzazione del Regno di Dio, che ha due pilastri: la «forza» dirompente dello Spirito e il «coraggio» di lasciar scatenare questa forza.

Lo spunto è giunto al Pontefice dalla lettura del brano evangelico (Luca, 13, 18-21) in cui sembra che Gesù faccia un po’ di fatica: “Ma come posso spiegare il Regno di Dio? A che cosa lo posso paragonare?”» e utilizza «due esempi semplici della vita quotidiana»: quelli del granello di senape e del lievito. Sono, ha spiegato Francesco, entrambi piccoli, sembrano innoqui, «ma quando entrano in quel movimento, hanno dentro una potenza che esce da se stessi e cresce, va oltre, anche oltre quello che si possa immaginare». Proprio «questo è il mistero del Regno».

La realtà, infatti, è che «il grano ha la potenza dentro, il lievito ha la potenza dentro», e anche «la potenza del Regno di Dio viene da dentro; la forza viene da dentro, il crescere viene da dentro». Non è, ha aggiunto il Papa con un paragone che rimanda all’attualità, «un crescere come per esempio si verifica nel caso di una squadra di calcio quando aumenta il numero dei tifosi e fa più grande la squadra», ma «viene da dentro». Un concetto che, ha aggiunto, viene ripreso da Paolo nella Lettera ai Romani (8, 18-25) in un passo «che è pieno di tensioni», perché «questa crescita del Regno di Dio dal di dentro, dall’interno, è una crescita in tensione».

Ecco allora che l’apostolo spiega: «Quante tensioni ci sono nella nostra vita e dove ci conducono», e dice che «le sofferenze di questa vita non sono paragonabili alla gloria che ci aspetta». Ma anche lo stesso «aspettare», ha detto il Pontefice rileggendo l’epistola, non è un attendere «tranquillo»: Paolo parla «di ardente aspettativa. C’è un’ardente aspettativa in queste tensioni». Inoltre quest’ultima non è solo dell’uomo, ma «anche della creazione» che è «protesa verso la rivelazione dei figli di Dio». Infatti «anche la creazione, come noi, è stata sottoposta alla caducità» e procede nella «speranza che sarà liberata dalla schiavitù della corruzione». Quindi, «è tutta la creazione che dalla caducità esistenziale che percepisce, va proprio alla gloria, alla libertà dalla schiavitù; ci porta alla libertà. E questa creazione — e noi con essa, con la creazione — geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi».

La conclusione di questo ragionamento ha portato il Papa a rilanciare il concetto di «speranza»: l’uomo e la creazione intera posseggono «le primizie dello Spirito», ovvero «la forza interna che ci porta avanti e ci dà la speranza» della «pienezza del Regno di Dio». Perciò l’apostolo Paolo scrive «quella frase che ci insegna tanto: “Nella speranza infatti siamo stati salvati”».

Essa, ha continuato il Pontefice, è un «cammino», è «quella che ci porta alla pienezza, la speranza di uscire da questo carcere, da questa limitazione, da questa schiavitù, da questa corruzione e arrivare alla gloria». Ed è, ha aggiunto, «un dono dello Spirito» che «è dentro di noi e porta a questo: a una cosa grandiosa, a una liberazione, a una grande gloria. E per questo Gesù dice: “Dentro il seme di senape, di quel grano piccolino, c’è una forza che scatena una crescita inimmaginabile”».

Ecco allora la realtà prefigurata dalla parabola: «Dentro di noi e nella creazione — perché andiamo insieme verso la gloria — c’è una forza che scatena: c’è lo Spirito Santo. Che ci dà la speranza». E, ha aggiunto Francesco, «Vivere in speranza è lasciare che queste forze dello Spirito vadano avanti e ci aiutino a crescere verso questa pienezza che ci aspetta nella gloria».

Successivamente, la riflessione del Pontefice ha preso in esame un altro aspetto, perché nella parabola si aggiunge che «il granello di senape viene preso e gettato. Un uomo prese e lo gettò nel giardino» e che anche il lievito non viene lasciato inerme: «una donna prende e mescola». Si capisce cioè che «se il grano non è preso e gettato, se il lievito non è preso dalla donna e mescolato, rimangono lì e quella forza interiore che hanno rimane lì». Allo stesso modo, ha spiegato Francesco, «se noi vogliamo conservare per noi il grano, sarà un grano solo. Se noi non mescoliamo con la vita, con la farina della vita, il lievito, rimarrà solo il lievito». Occorre perciò «gettare, mescolare, quel coraggio della speranza». Che «cresce, perché il Regno di Dio cresce da dentro, non per proselitismo». Cresce «con la forza dello Spirito Santo».

A tale riguardo il Papa ha ricordato che «sempre la Chiesa ha avuto sia il coraggio di prendere e gettare, di prendere e mescolare», sia, anche, «la paura di farlo». E ha notato: «Tante volte noi vediamo che si preferisce una pastorale di conservazione» piuttosto che «lasciare che il Regno cresca». Quando accade così «rimaniamo quelli che siamo, piccolini, lì», forse «stiamo sicuri», ma «il Regno non cresce». Mentre «perché il Regno cresca ci vuole il coraggio: di gettare il granello, di mescolare il lievito».

Qualcuno potrebbe obbiettare: «Se io getto il granello, lo perdo». Ma questa, ha spiegato il Papa, è la realtà di sempre: «Sempre c’è qualche perdita, nel seminare il Regno di Dio. Se io mescolo il lievito mi sporco le mani: grazie a Dio! Guai a quelli che predicano il Regno di Dio con l’illusione di non sporcarsi le mani. Questi sono custodi di musei: preferiscono le cose belle» al «gesto di gettare perché la forza si scateni, di mescolare perché la forza faccia crescere».

Tutto questo è racchiuso nelle parole di Gesù e di Paolo proposte dalla liturgia: la «tensione che va dalla schiavitù del peccato» alla «pienezza della gloria». E la speranza che «non delude» anche se è «piccola come il grano e come il lievito». Qualcuno, ha ricordato il Pontefice, «diceva che è la virtù più umile, è la serva. Ma lì c’è lo Spirito, e dove c’è speranza c’è lo Spirito Santo. Ed è proprio lo Spirito Santo che porta avanti il Regno di Dio». E ha concluso suggerendo ai presenti di ripensare «al granello di senape e al lievito, al gettare e al mescolare» e di domandarsi: «Come va, la mia speranza? È un’illusione? Un “magari”? O ci credo, che lì dentro c’è lo Spirito Santo? Io parlo con lo Spirito Santo?».
(fonte: L'Osservatore Romano)


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A ciascuno il suo Lutero di Alberto Melloni

A ciascuno il suo Lutero
di Alberto Melloni 

Secondo la tradizione 500 anni fa il padre della Riforma affisse le 95 tesi a Wittenberg Un episodio mai avvenuto ma che dimostra quanta leggenda ancora circonda la sua figura Oltre le tante maschere resta il nocciolo duro del personaggio: un cristiano deciso a porre la scrittura e la grazia davanti a tutto


Aveva quarantacinque anni Lucas Cranach in quella fine ottobre del 1517. S' era guadagnato una prima fama dipingendo a Vienna crocifissioni originalissime, come quella del 1503 (ora a Monaco), con i condannati posti attorno a Maria e Giovanni. Dal 1505 era entrato a servizio dei principi elettori di Sassonia a Wittenberg: la "città" (duemila anime) in cui Federico il Saggio voleva far nascere un suo ateneo e dove era stato chiamato, poco dopo di lui, Martin Luder, monaco agostiniano, prima professore di etica e poi di sacra scrittura, autore di commentari biblici importanti. Figura inquieta e travolgente a cui viene attribuito un gesto che è entrato nell' immaginario collettivo: l' affissione, esattamente 500 anni fa, delle 95 tesi alla porta della chiesa del castello di Wittenberg.
Un gesto mai avvenuto: Lutero non prese il martello né i chiodi, non numerò le tesi, e non affisse proprio nulla; semplicemente sollevò in una serie di punti, in una disputa accademica, il tema della disgustosa compravendita delle indulgenze che svenava la Germania e minacciava la fede.
Un appello ai dotti e agli ecclesiastici, che però, dopo pochi anni, assunse nella leggenda la forma eroica dell' affissione e della sfida. Una scena immaginaria che altri artisti hanno ritratto, e che è diventata cinema con Joseph Fiennes (quello di Shakespeare in love, per intenderci) protagonista di Luther (2003). Un' iconografia fasulla opposta alla quale c' è la ritrattistica di Cranach (e dopo di lui dei suoi figli), diventati i gestori dell'"immagine" di Lutero nei dipinti: da quello dal fondo immobile in cui spiccano lo sguardo e le occhiaie del riformatore a quello funebre che lo ritrae morto, con la faccia gonfia e la testa sprofondata nel cuscino su cui si spense trentuno anni dopo l' inizio di quella che tutti, a buon diritto, chiamano "la" Riforma.
Ecco perché adesso - ancora una volta, come a ogni celebrazione - il ricorrere dell' anniversario di quella svolta condita di leggenda interroga la coscienza delle chiese, la storiografia e la cultura: ponendo una di fronte all' altra le letture di quell' uomo, crinale e cerniera di mondi ed epoche.
E ancora oggi, nel cinquecentesimo anniversario di quell' inizio la "cosa" Lutero domanda una interpretazione alla quale non sfugge nessuno: sia chi sa tutto di Lutero, sia chi ne sa niente, sia chi è a mezza via. Forte, fortissima è la tendenza a leggere Lutero come l' inventore della modernità e delle sue libertà. Era la tesi dei suoi nemici e lo è stata per tanto tempo dentro il confessionalismo cattolico: dove appunto si dava del protestante come un insulto a tutto ciò che sembrava dotato di una dose di libertà e di coscienza di sé superiore a quella accettabile dal bigottismo ideologizzato.
Ma è stata anche la linea di un apprezzamento sincero per il monaco che, cercando di spogliare dagli orpelli la vita di fede, è stato posto all' inizio di una età della soggettività. Sono i sostenitori di questa tesi che nella frase detta da Lutero davanti all' imperatore ragazzino Carlo V a Worms, col rischio di diventare l' ennesimo arrosto di riformatore - «qui io sto e non posso far diverso, amen» - notano che l' unica parola ripetuta era appunto io: un "io" nuovo, distante da quello del Quattrocento. È questo Lutero che a differenza di Colombo, partito per il nuovo mondo in cerca dell' oro necessario a fare la crociata su Gerusalemme e incappato in un continente sconosciuto, avrebbe invece scoperto, come scrive l' ultimo bel lavoro di Adriano Prosperi, il continente della libertà.
Falso? Assolutamente no: perché Lutero è personaggio così grande da portare e sopportare anche il rischio dell' eccesso di interpretazione. Così come è in grado di reggere e sorreggere la discussione sul suo essere l' ultimo dei medievali e il primo dei moderni, che vede dibattere in Germania i tre "tenori" della storiografia luterana, il grande storico berlinese Heinz Schilling (intervistato lo scorso giugno su queste pagine), Thomas Kaufmann e Volker Leppin. Ed è anche in grado si resistere alla insopportabile semplificazione che vede incarnata nella figlia del pastore Kasner (la cancelliera Angela Merkel) una cultura politica ispirata al rigore "luterano", e in noi, terroni europei, una "cattolica" inclinazione all' autoindulgenza.
In realtà proprio le dimensioni teologiche, politiche, culturali di Lutero, domandano e impongono una lettura più profonda: che cerchi di capire non solo a cosa Lutero è "servito", o a cosa si vorrebbe fosse "servito". Ma cosa Lutero è stato e ha voluto essere: cioè un cristiano che in un mondo pronto ad accontentarsi di Erasmo e delle sue svenevoli finezze, ha travolto tutto ponendo davanti la fede, la scrittura, la grazia nella loro nudità. Con la durezza insopportabile di una persona insopportabile: insopportabilmente violento, insopportabilmente antiebreo, insopportabilmente ardente. Ma che dentro tutto questo ha portato una attesa di salvezza che ha cambiato il mondo e ha trascinato nella riforma anche il grande antagonista papista: perché, pur nella condanna e nel rifiuto, il papato dopo Lutero non è più stato quello di prima e ha dovuto iniziare una ricerca di autenticità evangelica di cui noi forse oggi vediamo non un approdo ma un frutto
(Pubblicato su "La Repubblica del 31.10.2017) 

Leggi anche il post già pubblicato:
Per la chiesa è sempre tempo di riforma di Enzo Bianchi

Per la chiesa è sempre tempo di riforma di Enzo Bianchi

Per la chiesa è sempre 
tempo di riforma
di Enzo Bianchi

pubblicato su Avvenire 
il 29 ottobre 2017



Nella nostra lettura della storia abbiamo sempre bisogno che ogni “svolta epocale” sia contrassegnata da una data, un luogo e un evento precisi e – qualora questi non siano sufficientemente definiti o significativi, li si colora di enfasi e di risvolti non sempre verificabili. Così il lento processo che conduce a una realtà non immaginabile fino a poco tempo prima si cristallizza in un punto preciso della storia fino a fargli assumere connotazioni leggendarie. È avvenuto così per la riforma protestante. È ormai opinione prevalente tra gli storici che l’immagine così nitida del monaco agostiniano Martino Lutero – che il mattino del 31 ottobre 1517 affigge sul portone della chiesa del castello di Wittenberg un foglio contenente 95 tesi – sia con ogni probabilità un evento mai avvenuto nelle modalità che l’iconografia classica ha descritto per secoli. Eppure oggi, a cinquecento anni esatti da quel giorno, ci ritroviamo giustamente a fare memoria di tutto ciò che quell’immagine racchiude: un profondo, sofferto desiderio di riforma evangelica dell’unica Chiesa di Dio.

In verità la chiesa ha sempre sentito nei suoi membri il bisogno, l’anelito alla conversione, alla riforma; ma se nel primo millennio questa “riforma” ha un significato essenzialmente individuale e spirituale di conversione interiore, nel secondo millennio è stata invocata quale rinnovamento della chiesa, della sua forma istituzionale, quale ritorno alla primitiva forma ecclesiae: un atto di obbedienza allo Spirito e a “ciò che lo Spirito dice alla chiese”.

Ma cosa può indicare il termine “riforma”, reformatio? Nel cristianesimo, che è ricezione della rivelazione, viene data una forma canonica, più che esemplare: la forma Evangelii, la forma della vita Jesu, la forma ecclesiae. Dunque la riforma è azione per riportare alla forma canonica ciò che con il passare del tempo è stato oscurato, ferito o addirittura perduto: è azione di conversione, di ritorno. Innanzitutto questo movimento deve essere incessante, “finché verrà il Signore”: proprio in attesa di quel giorno della parusia, la chiesa, la sposa, deve farsi bella per il suo sposo (cf. Ap 21,2), deve riformarsi per essere secondo la forma nella quale lo Sposo attende. In questo senso la riforma della chiesa è epiclesi della parusia.

Ma il termine “riforma”, soprattutto nel secondo millennio in occidente, ha avuto il significato di ritorno alla primitiva forma perduta o molto contraddetta. La tradizione cristiana ha sempre guardato ai sommari degli Atti degli apostoli (At 2,42-45; 4,32-35; 5,12-16), nei quali viene presentata la chiesa nata dalla Pentecoste, come descrizione della chiesa voluta dal Signore e plasmata dallo Spirito santo, dunque come sua forma canonica in ogni tempo nella storia. La descrizione della comunità primitiva ha ispirato costantemente la vita cristiana, anche se occorre sempre ribadire che solo il Signore Gesù può riformare la chiesa, così come solo Dio può fare il dono della conversione, come affermava sant’Agostino: “Proprio colui che ti ha formato sarà anche il tuo riformatore”. 
Sì, la chiesa, in quanto istituzione umana, in quanto organismo nella storia, deve essere riformata e purificata, per essere conforme alla volontà del suo Signore.

Solo una sordità istituzionale a istanze di riforma presenti nella chiesa d’occidente fin dagli inizi del secondo millennio, condurrà la volontà riformatrice di Lutero agli esiti laceranti che abbiamo conosciuto: la riforma tanto desiderata, a causa del suo ritardo diverrà così scisma, rottura, irreparabile divisione della chiesa cattolica. Dopo gli eventi della Riforma protestante vi sarà di fatto una Riforma cattolica (a lungo definita Controriforma) dovuta al concilio di Trento e soprattutto ai santi riformatori e alle loro fondazioni religiose. Tuttavia la parola “riforma” non godrà di buona fama nella chiesa cattolica dopo il grande scisma del XVI secolo, definito ancora nel 1937 dal Dictionnaire de théologie catholique “la rivoluzione protestante”. Presente al cuore del secolo scorso quale titolo di un libro decisivo di Yves Congar – Vera e falsa riforma della Chiesa – il termine “riforma” ricorre solo due volte nei documenti conciliari ed entrambe le volte nel decreto sull’unità dei cristiani, Unitatis redintegratio. Vi è una tale diffidenza verso questo termine, che il testo ufficiale latino dell’enciclica Ecclesiam suam di Paolo VI (1964) traduce il vocabolo italiano “riforma” presente nel manoscritto del papa con il più neutro renovatio. A partire dal Vaticano II il termine “riforma” è stato comunque reintrodotto nel dibattito ecclesiale cattolico, anche se appare raramente nei testi del magistero papale. Il suo uso con papa Francesco è diventato più frequente, quasi un termine programmatico del suo pontificato: riforma, potremmo dire con il concilio di Costanza (1414-1418), “in fide et in moribus, in capite et in membris”, cioè riforma di tutta la chiesa, dal papato a ogni battezzato.

Così il cammino di rilettura della riforma protestante compiuto in questo anno commemorativo ha assunto una forte valenza ecumenica e di riconciliazione, aiutando le chiese a passare “dal conflitto alla comunione”. Stiamo forse assistendo a quanto auspica, ormai ultracentenario, il teologo gesuita francese Joseph Moingt nel libro che raccoglie i suoi scritti dedicati all’urgente riforma della chiesa? Il titolo ben riassume l’anelito di ogni riformatore e di ogni istanza riformatrice: Il Vangelo salverà la chiesa. Sì, attraverso la sua obbedienza al Vangelo, al suo tentare ogni giorno la riforma, la chiesa attenderà la parusia con maggiore fedeltà al Signore, per essere la sposa bella, pronta per il suo Sposo, Gesù Cristo il Signore.
(Fonte: Monastero di Bose) 

Ricordando Don Oreste Benzi: Abbiamo bisogno di profeti, cioè di persone che rendono presente il futuro...


10 anni dalla morte. 
Don Oreste, "scarabocchio di Dio", santo degli ultimi

Il Fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, salito al cielo nella notte tra i Santi e i Defunti del 2007, vive nel mondo attraverso le 500 strutture che accolgono gli emarginati in 40 Paesi

Aveva sette anni il piccolo Oreste il giorno in cui la maestra Olga parlò di tre figure: lo scienziato, l’esploratore e il sacerdote. Tornò da scuola e disse a sua madre «io farò il prete»: non un’infatuazione ma un innamoramento, che darà l’impronta a tutta la sua vita e farà di don Benzi una delle figure più straordinarie della Chiesa, l’«infaticabile apostolo della carità», come lo definirà Benedetto XVI. Romagnolo, settimo di nove figli, a 12 anni entrò in seminario e i suoi genitori, per permettergli gli studi, chiesero l’elemosina. Un’esperienza che egli visse non come avvilente, ma anzi come prova di dignità e amore: «Questo fatto mi ha aiutato molto in seguito...».

Guarda il video realizzato in esclusiva dalla Comunità Papa Giovanni XXIII per Avvenire:

Un '68 davvero incendiario

Dalla madre Rosa ereditò la forza della preghiera, dal padre Achille l’amore per i "piccoli", gli emarginati, gli "scartati". Il primo di questi era proprio suo padre: una sera tornò a casa e raccontò alla famiglia di aver aiutato un proprietario terriero a disincagliare la sua auto. Il ricco gli aveva dato una mancia di due lire e soprattutto po u’ma stret la mena!, diceva incredulo, «poi mi ha stretto la mano». A suo figlio invece si strinse il cuore: «Mio padre apparteneva a quella categoria di persone che reputano di non valere nulla, che chiede quasi scusa di esistere. Quando io incontro il povero, l’ultimo, il disperato, quelli che sono alla stazione, sul marciapiede, in me si rifà presente quella immagine di mio papà». Non dormiva mai più di tre ore per notte, per non perderne nemmeno uno. È stato il prete delle vere rivoluzioni sociali, tutte condotte da dentro la Chiesa, armato solo di tonaca e Vangelo.
Il "suo" ’68 fu incendiario nei fatti: in quell’anno fondò la Comunità "Papa Giovanni XXIII", oggi diffusa nel mondo con 500 strutture di accoglienza. «Quanti giovani vecchi ho visto nella mia vita», diceva dell’altro ’68, quello delle ideologie senza fatti, «incendiari al liceo, ma poi al primo salario, entrati nelle stanze del comando, tutti pompieri. Il loro dorso diventava flessibile, dove si poteva fare carriera. Perché? Perché la loro rivoluzione era contro, non per».

L'incontro con don Benzi converte cuori e restituisce speranza
"L'uomo non è il suo errore"

Il dorso don Oreste non lo ha mai piegato davanti ai potenti, soltanto per chinarsi a raccogliere il povero, il barbone, la prostituta, il drogato. Contro tutte le guerre, ha combattuto accanto ai primi obiettori di coscienza per la nonviolenza e con uguale spirito al fianco di migliaia di bambini destinati all’aborto: La t’è nde bin, «ti è andata bene!» diceva quando ne incontrava uno in braccio alla madre. «L’uomo non è il suo errore», ha rivelato ai carcerati, convincendoli che ricominciare si può sempre, e «nessuna donna nasce prostituta», ha detto liberandone settemila. E poi anziani soli, malati, zingari, stranieri, sbandati, drogati, disperati...


Nelle notte tra i falò portava il Rosario alle schiave del sesso
Un uomo del futuro

Le intuizioni più geniali furono la famiglia come terapia contro ogni sconfitta, e il metodo della condivisione diretta: «Date una famiglia a chi non ce l’ha» e «Non c’è chi salva o chi è salvato, ma ci si salva insieme», disse ai suoi, e così centinaia di giovani sposi accanto ai propri figli oggi accolgono bambini disabili, anziani abbandonati, quelli che nessuno vuole. Il senso è che non basta mandare aiuti, occorre «mettere la propria spalla sotto la croce altrui» e camminare insieme, vivere con i "piccoli" 24 ore al giorno, portarli a casa, renderli famiglia. Sembra impossibile, è vero, ma loro, a migliaia, lo rendono possibile tutti i giorni.



Il mistero dell'ultima cena

La notte del 25 settembre del 2007 don Oreste uscì dalla sua casa e bussò alla Capanna di Betlemme, la sua struttura per senzatetto: «Eccomi, sono un barbone». Vivrà con loro fino alla notte tra i Santi e i Morti, quando all’improvviso, dopo una festosa cena al ristorante dove misteriosamente aveva voluto invitare gli amici più cari (fatto mai avvenuto prima), chiuse gli occhi. «Domani siamo in marcia», rivelò all’amico Oscar Baffoni durante quella cena, con un mezzo sorriso, una battuta che avrebbe compreso ore dopo.

Per i senza tetto ha aperto le Capanne di Betlemme. Qui ha vissuto gli ultimi giorni
Presto beato

Erano in diecimila al suo funerale, i suoi "piccoli", gli ex disperati, tutti con la luce negli occhi e un contagio di gioia nel cuore. «Don Oreste non è ancora stato proclamato santo – ha detto avviando la causa il vescovo di Rimini, Francesco Lambiasi – ma è vissuto da santo pur senza mai ritenersi tale. Al cardinale Caffarra che gli aveva espresso il mio stesso pensiero, don Oreste rispose: no, eminenza, io sono solo uno scarabocchio di Dio». Della "Papa Giovanni XXIII" diceva «è come il calabrone: un insetto così tozzo e con le ali così piccole che per gli scienziati non avrebbe mai potuto volare. Eppure vola». E così realizza l’irrealizzabile.

Martedì 31 ottobre in migliaia a Rimini per ricordarlo


«Dieci anni con don Benzi». Don Oreste è salito al cielo il 2 novembre del 2007, nella notte tra i Santi e i Defunti, eppure per la Comunità "Papa Giovanni XXIII" da lui fondata questo non è stato un decennio senza, ma con lui al centro di ogni azione. «Siamo una comunità scalcagnata ma con un cuore che pulsa», amava ripetere, e il cuore ha continuato a pulsare nelle giornate di migliaia di volontari in 40 Paesi del mondo. Tante le iniziative del decennale, il clou al Palacongressi di Rimini martedì 31 ottobre con il convegno nazionale "Una vita per amare", dove personaggi della cultura, dello spettacolo, del giornalismo e della vita ecclesiale racconteranno il "loro" don Oreste, in un contesto di mostre fotografiche, punti di ascolto, performance artistiche, filmati. Tra gli altri, testimonieranno il viceministro degli Esteri Mario Giro, Paolo Ramonda, Matteo Truffelli, Salvatore Martinez, Gigi de Palo, Anna Maria Furlan, Marco Impagliazzo, Matteo Spanò, Lorena Bianchetti, Paolo Cevoli, Beatrice Fazi (la diretta su Tv2000 dalle 15.30, condotta da Paola Saluzzi). In conclusione la Messa presieduta dal cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei, e a seguire "La notte di don Benzi", originale iniziativa sulle orme del sacerdote: «Ci esortava dicendo "siate santi" e proprio nella notte dei Santi, poche ore prima di morire, andò in una discoteca per parlare ai giovani – spiegano alla "Papa Giovanni XXIII" –. Così martedì notte porteremo gruppi di giovani all’incontro con i poveri là dove sono loro, tra i senza fissa dimora, le vittime della tratta, le persone in cammino per uscire dalla tossicodipendenza, i detenuti in pena alternativa...». Tutti quei "piccoli", come li chiamava don Benzi, che rappresentano ogni forma di emarginazione. 

"Andate giù tra gli ultimi. E poi ancora più giù..."

«Quando vi chiedono dov’è il vostro domicilio, voi rispondete: il nostro domicilio è tra i più bisognosi... e tra i più bisognosi siate tra i più bisognosi ancora, là in fondo», raccomandava ai suoi, e da questo ancora oggi li si riconosce. La sua causa di beatificazione, iniziata tre anni fa, è già giunta alla chiusura del processo diocesano.
(fonte: AVVENIRE)




lunedì 30 ottobre 2017

«Il buon pastore si fa vicino sempre alla gente, sempre, come Dio nostro Padre si è fatto vicino a noi, in Gesù Cristo fatto carne» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
30 ottobre 2017
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 


Papa Francesco:
Sulla strada del buon pastore”

Ci sono cinque verbi «di vicinanza» che Gesù vive in prima persona indicano i criteri del «protocollo finale»: vedere, chiamare, parlare, toccare e guarire. Su questo saranno giudicati non solo i pastori, i primi a correre il rischio di essere «ipocriti», ma tutti gli uomini. Con l’avvertenza che non bastano belle parole e buone maniere, perché Gesù ci chiede di toccare con mano la carne dell’altro, soprattutto se sofferente. È questa «la strada del buon pastore» che il Papa ha indicato nella messa celebrata lunedì 30 ottobre a Santa Marta.

«In questo passo del Vangelo — ha subito fatto notare Francesco riferendosi al passo di Luca (13, 10–17) — troviamo Gesù non sulla strada com’era sua abitudine ma in sinagoga: il sabato la comunità va in sinagoga a pregare, ad ascoltare la parola di Dio e anche la predica; e Gesù era lì, ascoltando la parola di Dio». Ma «insegnava anche, perché siccome aveva un’autorità, autorità morale tanto grande, lo invitavano a dire una parola», proprio per «insegnare alla gente». E «in sinagoga c’era una donna che era curva, completamente curva, poveretta, e non riusciva a esser dritta: una malattia della colonna che da anni la tratteneva così».

E «cosa fa Gesù? A me colpiscono — ha confidato il Papa — i verbi che usa l’evangelista per dire cosa ha fatto Gesù: “vide”, la vide; “chiamò”, la chiamò; “le disse”; “Impose le mani su di lei e la guarì”». Sono «cinque verbi di vicinanza».

Anzitutto, ha spiegato il Pontefice, «Gesù si avvicinò a lei: l’atteggiamento del buon pastore, la vicinanza». Perché «un buon pastore è vicino, sempre: pensiamo alla parabola del buon pastore che Gesù ha predicato», così «vicino» alla pecora «smarrita che lascia le altre e va a cercarla».

Del resto, ha affermato Francesco, «il buon pastore non può essere lontano dal suo popolo e questo è il segnale di un buon pastore: la vicinanza. Invece gli altri, in questo caso il capo della sinagoga, quel gruppetto di chierici, dottori della legge, alcuni farisei, sadducei, gli illustri, vivevano separati dal popolo, rimproverandolo continuamente». Ma, ha rilanciato il Papa, «questi non erano buoni pastori, erano chiusi nel proprio gruppo e non importava loro del popolo: forse importava loro, quando finiva il servizio religioso, andare a vedere quanti soldi c’era nelle offerte, questo importava loro, ma non erano vicini al popolo, non erano vicini alla gente».

Ecco che «Gesù sempre si presenta così, vicino», ha fatto presente il Pontefice. E «tante volte appare nel Vangelo che la vicinanza viene da quello che Gesù sente nel cuore: “Gesù si commosse”, dice per esempio un passo del Vangelo, sente misericordia, si avvicina». Per questa ragione «Gesù sempre era lì con la gente scartata da quel gruppetto clericale: c’erano lì i poveri, gli ammalati, i peccatori, i lebbrosi: erano tutti lì perché Gesù aveva questo capacità di commuoversi davanti alla malattia, era un buon pastore». E «un buon pastore si avvicina e ha capacità di commuoversi».

«E io dirò — ha affermato Francesco — che il terzo tratto di un buon pastore è non vergognarsi della carne, toccare la carne ferita, come ha fatto Gesù con questa donna: “toccò”, “impose le mani”, toccò i lebbrosi, toccò i peccatori». È «una vicinanza proprio vicina, vicina». Toccare «la carne», dunque. Perché «un buon pastore non dice: “Ma, sì, sta bene, sì sì, io sono vicino a te nello spirito”». In realtà «questa è una distanza» e non vicinanza.

Invece, ha insistito il Papa, «il buon pastore fa quello che ha fatto Dio Padre, avvicinarsi, per compassione, per misericordia, nella carne del suo Figlio, questo è un buon pastore». E «il grande pastore, il Padre, ci ha insegnato come si fa il buon pastore: si abbassò, si svuotò, svuotò se stesso, si annientò, prese condizione di servo».

Proprio «questa è la strada del buon pastore» ha spiegato il Pontefice. E qui ci si può chiedere: «“Ma, e questi altri, quelli che seguono la strada del clericalismo, a chi si avvicinano?». Costoro, ha risposto Francesco, «si avvicinano sempre o al potere di turno o ai soldi e sono i cattivi pastori: loro pensano soltanto come arrampicarsi nel potere, essere amici del potere e negoziano tutto o pensano alle tasche e questi sono gli ipocriti, capaci di tutto». Di sicuro «non importa del popolo a questa gente. E quando Gesù dice loro quel bell’aggettivo che utilizza tante volte con questi — “ipocriti” — loro si sono offesi: “Ma noi, no, noi seguiamo la legge”». Invece «la gente era contenta: è un peccato del popolo di Dio vedere quando i cattivi pastori sono bastonati; è un peccato, sì, ma hanno sofferto tanto che “godono” di questo un pochettino».

«Pensiamo — è il suggerimento del Pontefice — al buon pastore, pensiamo a Gesù che vede, chiama, parla, tocca e guarisce; pensiamo al Padre che si fa nel suo Figlio carne, per compassione». E «questa è la strada del buon pastore, il pastore che oggi vediamo qui, in questo passo del Vangelo: è una grazia per il popolo di Dio avere dei buoni pastori, pastori come Gesù, che non si vergognano di toccare la carne ferita, che sanno che su questo — non solo loro, anche tutti noi — saremmo giudicati: ero affamato, ero in carcere, ero ammalato...».

«I criteri del protocollo finale — ha concluso il Papa — sono i criteri della vicinanza, i criteri di questa vicinanza totale» per «toccare, condividere la situazione del popolo di Dio». E «non dimentichiamo questo: il buon pastore si fa vicino sempre alla gente, sempre, come Dio nostro Padre si è fatto vicino a noi, in Gesù Cristo fatto carne».
(fonte: L'Osservatore Romano)


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Papa Francesco: I cristiani sono chiamati a ridare anima all’Europa a ridestarne la coscienza per animare processi che generino nuovi dinamismi nella società.


Dialogo, inclusione, solidarietà, sviluppo e pace. Sono i cinque «mattoni» su cui Papa Francesco ha invitato i cristiani a costruire l’edificio dell’Europa, a partire da due solide «fondamenta»: la persona e la comunità. Su queste linee si è sviluppato il discorso che il Pontefice ha rivolto sabato pomeriggio, 28 ottobre, ai partecipanti alla conferenza «(Re)Thinking Europe» promossa dalla Commissione delle Conferenze episcopali della Comunità europea (Comece).

Intervenendo alla conclusione dei lavori, nell’Aula del Sinodo, il Pontefice ha riproposto la sua visione del continente europeo alla luce del contributo che i cristiani possono offrire «per superare le crisi che attraversiamo e affrontare le sfide che ci attendono». Un contributo che, secondo Francesco, ha le sue radici nella concezione dell’uomo fatta propria dalla Regola di san Benedetto da Norcia. Per il quale, ha ricordato, non contano condizione sociale, ricchezza o potere, perché la «natura comune di ogni essere umano» sta nel «senso della persona costituita a immagine di Dio».

Ecco perché, ha spiegato il Papa, «il primo, e forse più grande, contributo che i cristiani possono portare all’Europa di oggi è ricordarle che essa non è una raccolta di numeri o di istituzioni, ma è fatta di persone». E poiché «l’essere persone ci lega agli altri», ha aggiunto, il secondo fondamentale contributo è «la riscoperta del senso di appartenenza a una comunità» come «antidoto agli individualismi che caratterizzano il nostro tempo». Non a caso, ha puntualizzato, «la famiglia, come prima comunità, rimane il più fondamentale luogo» dove si fa esperienza della scoperta e della comprensione dell’altro.

A partire da queste «fondamenta» il Pontefice ha indicato i cinque «mattoni» dell’edificio europeo, cominciando dal “dialogo” «sincero e costruttivo» che deve sostituire «il predominio di un certo pensiero unico» e «le urla delle rivendicazioni». Quando, infatti, a prevalere è «una contrapposizione sterile» o «un’egemonia del potere politico che ingabbia», allora trovano «terreno fertile in molti Paesi le formazioni estremiste e populiste che fanno della protesta il cuore del loro messaggio politico, senza tuttavia offrire l’alternativa di un costruttivo progetto politico».

Il secondo mattone dell’Europa immaginata dal Papa è l’“inclusione”. Che, ha chiarito Francesco, «non è sinonimo di appiattimento indifferenziato» ma di valorizzazione delle differenze, assunte «come patrimonio comune e arricchente». In questa prospettiva, «i migranti sono una risorsa più che un peso» e non possono essere scelti o scartati «a proprio piacimento, secondo logiche politiche, economiche o perfino religiose». Tutto ciò, beninteso, «non è in contrasto con il dovere di ogni autorità di governo di gestire la questione migratoria» con «prudenza», tenendo conto «tanto della necessità di avere un cuore aperto, quanto della possibilità di integrare pienamente coloro che giungono nel paese a livello sociale, economico e politico». Dunque, ha precisato il Pontefice, «non si può pensare che il fenomeno migratorio sia un processo indiscriminato e senza regole», ma allo stesso tempo «non si possono nemmeno ergere muri di indifferenza o di paura».

A questa visione è legato l’imperativo della “solidarietà”, che «significa avere premura per i più deboli della società, per i poveri, per quanti sono scartati dai sistemi economici e sociali, a partire dagli anziani e dai disoccupati». In proposito Francesco ha fatto riferimento all’«inverno demografico» dell’Europa — dove «si fanno pochi figli e troppi sono quelli che sono stati privati del diritto di nascere» — e ha esortato a superare il conflitto tra le generazioni costruendo «un futuro di speranza» radicato nel «valore del passato».

Da ultimo il Papa ha affidato al continente la duplice missione di essere «sorgente di sviluppo» e di costituire «una promessa di pace» per il mondo. Sulla base di questi cinque “mattoni” ideali — è stato l’appello conclusivo di Francesco — i cristiani «sono chiamati a ridare anima all’Europa» e «a ridestarne la coscienza». Non «per occupare degli spazi», ha ribadito, ma «per animare processi che generino nuovi dinamismi nella società».
 (fonte: L'OSSERVATORE ROMANO 30/10/2017)

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Pubblichiamo il testo integrale del discorso del Papa.

Eminenze, Eccellenze,
Distinte Autorità,
Signore e Signori,

Sono lieto di prendere parte a questo momento conclusivo del Dialogo (Re)Thinking Europe. Un contributo cristiano al futuro del progetto europeo, promosso dalla Commissione degli Episcopati della Comunità Europea (COMECE). Saluto particolarmente il Presidente, Sua Eminenza il Cardinale Reinhard Marx, come pure l’On. Antonio Tajani, Presidente del Parlamento Europeo, e li ringrazio per le deferenti parole che poc’anzi mi hanno rivolto. A ciascuno di voi desidero esprimere vivo apprezzamento per essere intervenuti numerosi a questo importante ambito di discussione. Grazie!

Il Dialogo di questi giorni ha fornito l’opportunità di riflettere in modo ampio sul futuro dell’Europa da una molteplicità di angolature, grazie alla presenza tra voi di diverse personalità ecclesiali, politiche, accademiche o semplicemente provenienti dalla società civile. I giovani hanno potuto proporre le loro attese e speranze, confrontandosi con i più anziani, i quali, a loro volta, hanno avuto l’occasione di offrire il loro bagaglio carico di riflessioni ed esperienze. È significativo che questo incontro abbia voluto essere anzitutto un dialogo nello spirito di un confronto libero e aperto, attraverso il quale arricchirsi vicendevolmente e illuminare la via del futuro dell’Europa, ovvero il cammino che tutti insieme siamo chiamati a percorrere per superare le crisi che attraversiamo e affrontare le sfide che ci attendono.

Parlare di un contributo cristiano al futuro del continente significa anzitutto interrogarsi sul nostro compito come cristiani oggi, in queste terre così riccamente plasmate nel corso dei secoli dalla fede. Qual è la nostra responsabilità in un tempo in cui il volto dell’Europa è sempre più connotato da una pluralità di culture e di religioni, mentre per molti il cristianesimo è percepito come un elemento del passato, lontano ed estraneo?

Persona e comunità

Nel tramonto della civiltà antica, mentre le glorie di Roma divenivano quelle rovine che ancora oggi possiamo ammirare in città; mentre nuovi popoli premevano sui confini dell’antico Impero, un giovane fece riecheggiare la voce del Salmista: «Chi è l'uomo che vuole la vita e desidera vedere giorni felici?». [1] Nel proporre questo interrogativo nel Prologo della Regola, san Benedetto pose all’attenzione dei suoi contemporanei, e anche nostra, una concezione dell’uomo radicalmente diversa da quella che aveva contraddistinto la classicità greco-romana, e ancor più di quella violenta che aveva caratterizzato le invasioni barbariche. L’uomo non è più semplicemente un civis, un cittadino dotato di privilegi da consumarsi nell’ozio; non è più un miles, combattivo servitore del potere di turno; soprattutto non è più un servus, merce di scambio priva di libertà destinata unicamente al lavoro e alla fatica.

San Benedetto non bada alla condizione sociale, né alla ricchezza, né al potere detenuto. Egli fa appello alla natura comune di ogni essere umano, che, qualunque sia la sua condizione, brama certamente la vita e desidera giorni felici. Per Benedetto non ci sono ruoli, ci sono persone: non ci sono aggettivi, ci sono sostantivi. È proprio questo uno dei valori fondamentali che il cristianesimo ha portato: il senso della persona, costituita a immagine di Dio. A partire da tale principio si costruiranno i monasteri, che diverranno nel tempo culla della rinascita umana, culturale, religiosa ed anche economica del continente.

Il primo, e forse più grande, contributo che i cristiani possono portare all’Europa di oggi è ricordarle che essa non è una raccolta di numeri o di istituzioni, ma è fatta di persone. Purtroppo, si nota come spesso qualunque dibattito si riduca facilmente ad una discussione di cifre. Non ci sono i cittadini, ci sono i voti. Non ci sono i migranti, ci sono le quote. Non ci sono lavoratori, ci sono gli indicatori economici. Non ci sono i poveri, ci sono le soglie di povertà. Il concreto della persona umana è così ridotto ad un principio astratto, più comodo e tranquillizzante. Se ne comprende la ragione: le persone hanno volti, ci obbligano ad una responsabilità reale, fattiva, “personale”; le cifre ci occupano con ragionamenti, anche utili ed importanti, ma rimarranno sempre senz’anima. Ci offrono l’alibi di un disimpegno, perché non ci toccano mai nella carne.

Riconoscere che l’altro è anzitutto una persona, significa valorizzare ciò che mi unisce a lui. L’essere persone ci lega agli altri, ci fa essere comunità. Dunque il secondo contributo che i cristiani possono apportare al futuro dell’Europa è la riscoperta del senso di appartenenza ad una comunità. Non a caso i Padri fondatori del progetto europeo scelsero proprio tale parola per identificare il nuovo soggetto politico che andava costituendosi. La comunità è il più grande antidoto agli individualismi che caratterizzano il nostro tempo, a quella tendenza diffusa oggi in Occidente a concepirsi e a vivere in solitudine. Si fraintende il concetto di libertà, interpretandolo quasi fosse il dovere di essere soli, sciolti da qualunque legame, e di conseguenza si è costruita una società sradicata priva di senso di appartenenza e di eredità. E per me questo è grave.

I cristiani riconoscono che la loro identità è innanzitutto relazionale. Essi sono inseriti come membra di un corpo, la Chiesa (cfr 1 Cor12,12), nel quale ciascuno con la propria identità e peculiarità partecipa liberamente all’edificazione comune. Analogamente tale relazione si dà anche nell’ambito dei rapporti interpersonali e della società civile. Dinanzi all’altro, ciascuno scopre i suoi pregi e i difetti; i suoi punti di forza e le sue debolezze: in altre parole scopre il suo volto, comprende la sua identità.

La famiglia, come prima comunità, rimane il più fondamentale luogo di tale scoperta. In essa, la diversità è esaltata e nello stesso tempo è ricompresa nell’unità. La famiglia è l’unione armonica delle differenze tra l’uomo e la donna, che è tanto più vera e profonda quanto più è generativa, capace di aprirsi alla vita e agli altri. Parimenti, una comunità civile è viva se sa essere aperta, se sa accogliere la diversità e le doti di ciascuno e nello stesso tempo se sa generare nuove vite, come pure sviluppo, lavoro, innovazione e cultura.

Persona e comunità sono dunque le fondamenta dell’Europa che come cristiani vogliamo e possiamo contribuire a costruire. I mattoni di tale edificio si chiamano: dialogo, inclusione, solidarietà, sviluppo e pace.

Un luogo di dialogo

Oggi tutta l’Europa, dall’Atlantico agli Urali, dal Polo Nord al Mare Mediterraneo, non può permettersi di mancare l’opportunità di essere anzitutto un luogo di dialogo, sincero e costruttivo allo stesso tempo, in cui tutti i protagonisti hanno pari dignità. Siamo chiamati a edificare un’Europa nella quale ci si possa incontrare e confrontare a tutti i livelli, in un certo senso come lo era l’agoràantica. Tale era infatti la piazza della polis. Non solo spazio di scambio economico, ma anche cuore nevralgico della politica, sede in cui si elaboravano le leggi per il benessere di tutti; luogo in cui si affacciava il tempio così che alla dimensione orizzontale della vita quotidiana non mancasse mai il respiro trascendente che fa guardare oltre l’effimero, il passeggero e il provvisorio.

Ciò ci spinge a considerare il ruolo positivo e costruttivo che in generale la religione possiede nell’edificazione della società. Penso ad esempio al contributo del dialogo interreligioso nel favorire la conoscenza reciproca tra cristiani e musulmani in Europa. Purtroppo, un certo pregiudizio laicista, ancora in auge, non è in grado di percepire il valore positivo per la società del ruolo pubblico e oggettivo della religione, preferendo relegarla ad una sfera meramente privata e sentimentale. Si instaura così pure il predominio di un certo pensiero unico,[2] assai diffuso nei consessi internazionali, che vede nell’affermazione di un’identità religiosa un pericolo per sé e per la propria egemonia, finendo così per favorire un’artefatta contrapposizione fra il diritto alla libertà religiosa e altri diritti fondamentali. C'è un divorzio fra loro.

Favorire il dialogo – qualunque dialogo – è una responsabilità basilare della politica, e, purtroppo, si nota troppo spesso come essa si trasformi piuttosto in sede di scontro fra forze contrastanti. Alla voce del dialogo si sostituiscono le urla delle rivendicazioni. Da più parti si ha la sensazione che il bene comune non sia più l’obiettivo primario perseguito e tale disinteresse è percepito da molti cittadini. Trovano così terreno fertile in molti Paesi le formazioni estremiste e populiste che fanno della protesta il cuore del loro messaggio politico, senza tuttavia offrire l’alternativa di un costruttivo progetto politico. Al dialogo si sostituisce, o una contrapposizione sterile, che può anche mettere in pericolo la convivenza civile, o un’egemonia del potere politico che ingabbia e impedisce una vera vita democratica. In un caso si distruggono i ponti e nell’altro si costruiscono muri. E oggi l'Europa conosce ambedue.

I cristiani sono chiamati a favorire il dialogo politico, specialmente laddove esso è minacciato e sembra prevalere lo scontro. I cristiani sono chiamati a ridare dignità alla politica, intesa come massimo servizio al bene comune e non come un’occupazione di potere. Ciò richiede anche un’adeguata formazione, perché la politica non è “l’arte dell’improvvisazione”, bensì un’espressione alta di abnegazione e dedizione personale a vantaggio della comunità. Essere leader esige studio, preparazione ed esperienza.

Un ambito inclusivo

Responsabilità comune dei leader è favorire un’Europa che sia una comunità inclusiva, libera da un fraintendimento di fondo: inclusione non è sinonimo di appiattimento indifferenziato. Al contrario, si è autenticamente inclusivi allorché si sanno valorizzare le differenze, assumendole come patrimonio comune e arricchente. In questa prospettiva, i migranti sono una risorsa più che un peso. I cristiani sono chiamati a meditare seriamente l’affermazione di Gesù: «Ero straniero e mi avete accolto» (Mt 25,35). Soprattutto davanti al dramma dei profughi e dei rifugiati, non ci si può dimenticare il fatto di essere di fronte a delle persone, le quali non possono essere scelte o scartate a proprio piacimento, secondo logiche politiche, economiche o perfino religiose.

Tuttavia, ciò non è in contrasto con il dovere di ogni autorità di governo di gestire la questione migratoria «con la virtù propria del governante, cioè la prudenza»,[3] che deve tener conto tanto della necessità di avere un cuore aperto, quanto della possibilità di integrare pienamente coloro che giungono nel paese a livello sociale, economico e politico. Non si può pensare che il fenomeno migratorio sia un processo indiscriminato e senza regole, ma non si possono nemmeno ergere muri di indifferenza o di paura. Da parte loro, gli stessi migranti non devono tralasciare l’onere grave di conoscere, rispettare e anche assimilare la cultura e le tradizioni della nazione che li accoglie.

Uno spazio di solidarietà

Adoperarsi per una comunità inclusiva significa edificare uno spazio di solidarietà. Essere comunità implica infatti che ci si sostenga a vicenda e dunque che non possono essere solo alcuni a portare pesi e compiere sacrifici straordinari, mentre altri rimangono arroccati a difesa di posizioni privilegiate. Un’Unione Europea che, nell’affrontare le sue crisi, non riscoprisse il senso di essere un’unica comunità che si sostiene e si aiuta – e non un insieme di piccoli gruppi d’interesse – perderebbe non solo una delle sfide più importanti della sua storia, ma anche una delle più grandi opportunità per il suo avvenire.

La solidarietà, quella parola che tante volte sembra che si voglia cacciare via dal dizionario. La solidarietà, che nella prospettiva cristiana trova la sua ragion d’essere nel precetto dell’amore (cfr Mt 22,37-40), non può che essere la linfa vitale di una comunità viva e matura. Insieme all’altro principio cardine della sussidiarietà, essa riguarda non solo i rapporti fra gli Stati e le Regioni d’Europa. Essere una comunità solidale significa avere premura per i più deboli della società, per i poveri, per quanti sono scartati dai sistemi economici e sociali, a partire dagli anziani e dai disoccupati. Ma la solidarietà esige anche che si recuperi la collaborazione e il sostegno reciproco fra le generazioni.

A partire dagli anni Sessanta del secolo scorso è in atto un conflitto generazionale senza precedenti. Nel consegnare alle nuove generazioni gli ideali che hanno fatto grande l’Europa, si può dire iperbolicamente che alla tradizione si è preferito il tradimento. Al rigetto di ciò che giungeva dai padri, è seguito così il tempo di una drammatica sterilità. Non solo perché in Europa si fanno pochi figli - il nostro inverno demografico -, e troppi sono quelli che sono stati privati del diritto di nascere, ma anche perché ci si è scoperti incapaci di consegnare ai giovani gli strumenti materiali e culturali per affrontare il futuro. L’Europa vive una sorta di deficit di memoria. Tornare ad essere comunità solidale significa riscoprire il valore del proprio passato, per arricchire il proprio presente e consegnare ai posteri un futuro di speranza.

Tanti giovani si trovano invece smarriti davanti all’assenza di radici e di prospettive, sono sradicati, «in balia delle onde e trasportati qua e là da qualsiasi vento di dottrina» (Ef 4,14); talvolta anche “prigionieri” di adulti possessivi, che faticano a sostenere il compito che spetta loro. Grave è l’onere di educare, non solo offrendo un insieme di conoscenze tecniche e scientifiche, ma soprattutto adoperandosi «per promuovere la perfezione integrale della persona umana, come anche per il bene della società terrena e per la edificazione di un mondo più umano».[4] Ciò esige il coinvolgimento di tutta la società. L’educazione è un compito comune, che richiede l’attiva partecipazione allo stesso tempo dei genitori, della scuola e delle università, delle istituzioni religiose e della società civile. Senza educazione, non si genera cultura e s’inaridisce il tessuto vitale delle comunità.

Una sorgente di sviluppo

L’Europa che si riscopre comunità sarà sicuramente una sorgente di sviluppo per sé e per tutto il mondo. Sviluppo è da intendersi nell’accezione che il Beato Paolo VI diede a tale parola. «Per essere autentico sviluppo deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo. Com’è stato giustamente sottolineato da un eminente esperto: “noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera”».[5]

Certamente allo sviluppo dell’uomo contribuisce il lavoro, che è un fattore essenziale per la dignità e la maturazione della persona. Serve lavoro e servono condizioni adeguate di lavoro. Nel secolo scorso non sono mancati esempi eloquenti di imprenditori cristiani che hanno compreso come il successo delle loro iniziative dipendeva anzitutto dalla possibilità di offrire opportunità di impiego e condizioni degne di occupazione. Occorre ripartire dallo spirito di quelle iniziative, che sono anche il miglior antidoto agli scompensi provocati da una globalizzazione senz’anima, una globalizzazione "sferica", che, più attenta al profitto che alle persone, ha creato diffuse sacche di povertà, disoccupazione, sfruttamento e di malessere sociale.

Sarebbe opportuno anche riscoprire la necessità di una concretezza del lavoro, soprattutto per i giovani. Oggi molti tendono a rifuggire lavori in settori un tempo cruciali, perché ritenuti faticosi e poco remunerativi, dimenticando quanto essi siano indispensabili per lo sviluppo umano. Che ne sarebbe di noi, senza l’impegno delle persone che con il lavoro contribuiscono al nostro nutrimento quotidiano? Che ne sarebbe di noi senza il lavoro paziente e ingegnoso di chi tesse i vestiti che indossiamo o costruisce le case che abitiamo? Molte professioni oggi ritenute di second’ordine sono fondamentali. Lo sono dal punto di vista sociale, ma soprattutto lo sono per la soddisfazione che i lavoratori ricevono dal poter essere utili per sé e per gli altri attraverso il loro impegno quotidiano.

Spetta parimenti ai governi creare le condizioni economiche che favoriscano una sana imprenditoria e livelli adeguati di impiego. Alla politica compete specialmente riattivare un circolo virtuoso che, a partire da investimenti a favore della famiglia e dell’educazione, consenta lo sviluppo armonioso e pacifico dell’intera comunità civile.

Una promessa di pace

Infine, l’impegno dei cristiani in Europa deve costituire una promessa di pace. Fu questo il pensiero principale che animò i firmatari dei Trattati di Roma. Dopo due guerre mondiali e violenze atroci di popoli contro popoli, era giunto il tempo di affermare il diritto alla pace.[6] È un diritto. Ancora oggi però vediamo come la pace sia un bene fragile e le logiche particolari e nazionali rischiano di vanificare i sogni coraggiosi dei fondatori dell’Europa.[7]

Tuttavia, essere operatori di pace (cfr Mt 5,9) non significa solamente adoperarsi per evitare le tensioni interne, lavorare per porre fine a numerosi conflitti che insanguinano il mondo o recare sollievo a chi soffre. Essere operatori di pace significa farsi promotori di una cultura della pace. Ciò esige amore alla verità, senza la quale non possono esistere rapporti umani autentici, e ricerca della giustizia, senza la quale la sopraffazione è la norma imperante di qualunque comunità.

La pace esige pure creatività. L’Unione Europea manterrà fede alla suo impegno di pace nella misura in cui non perderà la speranza e saprà rinnovarsi per rispondere alle necessità e alle attese dei propri cittadini. Cent’anni fa, proprio in questi giorni iniziava la battaglia di Caporetto, una delle più drammatiche della Grande Guerra. Essa fu l’apice di una guerra di logoramento, quale fu il primo conflitto mondiale, che ebbe il triste primato di mietere innumerevoli vittime a fronte di risibili conquiste. Da quell’evento impariamo che se ci si trincera dietro le proprie posizioni, si finisce per soccombere. Non è dunque questo il tempo di costruire trincee, bensì quello di avere il coraggio di lavorare per perseguire appieno il sogno dei Padri fondatori di un’Europa unita e concorde, comunità di popoli desiderosi di condividere un destino di sviluppo e di pace.

Essere anima dell’Europa

Eminenze, Eccellenze,
Illustri Ospiti,

L’autore della Lettera a Diogneto afferma che «come è l'anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani».[8] In questo tempo, essi sono chiamati a ridare anima all’Europa a ridestarne la coscienza, non per occupare degli spazi - questo sarebbe proselitismo -, ma per animare processi[9] che generino nuovi dinamismi nella società. È proprio quanto fece san Benedetto, non a caso da Paolo VI proclamato patrono d’Europa: egli non si curò di occupare gli spazi di un mondo smarrito e confuso. Sorretto dalla fede, egli guardò oltre e da una piccola spelonca di Subiaco diede vita ad una movimento contagioso e inarrestabile che ridisegnò il volto dell’Europa. Egli, che fu «messaggero di pace, realizzatore di unione, maestro di civiltà»,[10] mostri anche a noi cristiani di oggi come dalla fede sgorga sempre una speranza lieta, capace di cambiare il mondo. Grazie.

Che il Signore benedica tutti noi, benedica il nostro lavoro, benedica i nostri popoli, le nostre famiglie, i nostri giovani, i nostri anziani, benedica l'Europa.

Vi benedica Dio Onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo.

Grazie tante. Grazie.

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[1] Benedetto, Regola, Prologo, 14. Cfr Sal 33,13.
[4] Concilio Ecumenico Vaticano II, Dich. Gravissimum educationis, 28 ottobre 1965, 3.
[5] Paolo VI, Lett. enc. Popolorum progressio, 26 marzo 1967, 14.
[6] Cfr Discorso agli studenti e al mondo accademico, Bologna, 1° ottobre 2017, n. 3.
[7] Cfr ibid.
[8] Lettera a Diogneto, VI.
[9] Cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 223.
[10] Paolo VI, Lett. ap. Pacis Nuntius, 24 ottobre 1964.


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Bettazzi. Anche per Humanae vitae è ora di attuare il Concilio

Bettazzi. Anche per Humanae vitae è ora di attuare il Concilio

La decisione di Paolo VI fu tormentata. Temeva di non essere compreso e scelse il rigore

Mezzo secolo dopo è forse arrivato il momento di ripensare alle conclusioni indicate da Paolo VI nell’Humanae vitae e di "scongelare", come sta tentano di fare Francesco, l’eredità del Vaticano II. Lo afferma il vescovo emerito di Ivrea, Luigi Bettazzi, 94 anni il prossimo novembre, ultimo testimone del Concilio.

Che rapporto c’è tra la teologia di Humanae vitae e quella espressa dal Vaticano II?
Era uno dei temi che Paolo VI si era riservato. Al Concilio non fu possibile parlare di contraccezione. Com’è noto della questione si occupò una commissione. Il Papa ne allargò la partecipazione e poi sposò la tesi della minoranza.

Perché questa scelta?
Pensava che forse, lasciando la possibilità di discutere il tema al Concilio, sarebbe uscita una linea che non condivideva. Sul piano provvidenziale non riteneva che fosse opportuno aprire modifiche alla teologia consolidata. Ora, cinquant’anni dopo, può darsi invece che sia arrivato il momento di ripensare la questione. Ma affermare questo oggi, non vuol dire concludere che allora la decisione di Paolo Vi non fu chiara.

Fu comunque tormentata. La stessa scelta di aprire un supplemento di indagini dopo l’esito della commissione, non dimostra che il Papa stesso soppesò a lungo la questione?
Non poteva che essere così. Sapeva che sia la maggioranza dei padri conciliari, sia della commissione di esperti, propendeva per un parere più sfumato rispetto al “no” che poi sarebbe arrivato nell’Humanae vitae. Per questo venne contestato sia da molti teologi sia da tante conferenze episcopali.


Da dove nascevano le sue incertezze?
Temeva di non essere compreso. La Chiesa non ama i balzi in avanti. Nella storia è sempre stato così. Nell’Ottocento si aveva paura della democrazia. Cinquant’anni fa Paolo VI si convinse di non poter venire meno al rigore dottrinale sui temi della generazione. Oggi forse è arrivato il momento di ascoltare Giovanni XXIII: non è il Vangelo che cambia, siamo noi che con il trascorrere degli anni, riusciamo a capirlo sempre meglio. E quindi non sono le dottrine a cambiare, siamo noi che riusciamo a comprenderne sempre meglio il significato leggendole alla luce dei segni dei tempi. 

Oggi la situazione sociale è profondamente diversa e anche la riflessione teologica è andata molto avanti. Amoris laetitia esprime questo cambio di prospettive.
Sì, perché riprende il Vaticano II. Non era facile a quei tempi affermare che nel matrimonio quello che conta è l’amore degli sposi e poi c’è la procreazione. Non che non sia importante. Ma al primo posto c’è l’amore coniugale. Era una posizione molto avanzata. 

Quando pesarono in quella scelta i pareri di chi consigliava Paolo VI di non staccarsi dalla tradizione?
L’enciclica venne firmata da lui e quindi dobbiamo pensare che la decisione fu sua. Forse non vedeva chiaramente gli esiti di una decisione diversa. Forse arrivarono pressioni importanti. Ma non possiamo mettere in discussione il fatto che fu lui a decidere. Certo, i tormenti ci furono. E anche le sollecitazioni. La posizione rigorosa del cardinale Ottaviani e dell’allora Sant’Uffizio non è un mistero.

È vero che di fronte al dilagare delle proteste, Paolo VI avrebbe voluto tornare sulla questione?
Questo non saprei dirlo. Certo, l’attuazione del Concilio era un tema che lo preoccupava molto. In un senso e nell’altro. Ci teneva, ma lo portava avanti con molta prudenza. Tanto che il vescovo brasiliano Helder Camara scrisse in un suo libro di aver sollecitato più volte Paolo VI perché istituisse una commissione per l’attuazione del Concilio.

Perché questa esigenza?
Ma è chiaro. Camara, e tanti vescovi con lui, si chiedevano come sarebbe stato possibile lasciare l’attuazione del Concilio in mano a quelli che non l’avevano voluto...

E invece andò proprio così…
Purtroppo sì. Poi arrivò la rivoluzione del ’68, la Chiesa si spaventò ancora di più. E prevalsero i nemici del Concilio. Non che non ci fossero esagerazioni postconciliari da correggere. Ma invece di correggere, abbiamo congelato tutto. Con l’acqua sporca abbiamo buttato via anche il bambino.

Adesso però papa Francesco sta tentato l’operazione “scongelamento del Concilio”. Ci riuscirà?
Sì, ma deve farlo con prudenza. Perché come già aveva intuito Paolo VI, non bisogna sgomentare i fedeli più semplici. E anche quella parte della Chiesa dove la situazione sociale è diversa rispetto all’Occidente. Non è un caso che le resistenze più forti ad Amoris laetitia siano arrivate dall’Africa e dall’Europa dell’Est. E poi ci sono i tradizionalisti. Ma questo dura fin dai tempi del Vangelo. Gli oppositori di Gesù provenivano dall’area più intransigente, da coloro che guardavano alla lettera della religione, scribi e farisei. Oggi come allora, cambiare significa rinunciare a determinate posizioni, a una fetta del proprio potere, quello politico e quello ideologico. Pensarla diversamente è normale e anche giusto, ma il confronto deve avvenire nella carità, nel rispetto reciproco.

Gli attacchi che oggi vengono rivolti al Papa non sembrano proprio nel segno della carità…
No, infatti. Mi ha molto amareggiato l’uscita dei quattro cardinali con i Dubia. Si sono giustificati dicendo che inizialmente avevano scritto in privato. Ma nel momento in cui si esce pubblicamente, si tratta quasi di una sovrapposizione al potere del Papa. Certa gente è papista finché pensa che il Papa sia dalla loro parte.

Anche dopo Humanae vitae si visse questo clima di attacco al papa?
Sicuramente sì. Nella sostanza l’opposizione, anche da parte di intere conferenze episcopali, fu molto netta. Si pronunciarono per un’applicazione estensiva di Humanae vitae più di 40 conferenze episcopali. Ma in modo rispettoso, non come gli attacchi che abbiamo visto in questi mesi contro Francesco. Allora la preoccupazione dei vescovi era di tipo interpretativo. Non volevano che i divieti mettessero in secondo piano il tema dell’amore nella coppia, che anche il Concilio aveva indicato come punto di svolta.
(fonte: articolo di Luciano Moia AVVENIRE 30/10/2017)


«Noi siamo stati creati per amare ed essere amati. Questo è il “sogno” di Dio per l’uomo.» Papa Francesco Angelus 29/10/2017 (testo e video)


ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 29 ottobre 2017


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

In questa domenica la liturgia ci presenta un brano evangelico breve, ma molto importante (cfr Mt 22,34-40). L’evangelista Matteo racconta che i farisei si riuniscono per mettere alla prova Gesù. Uno di loro, un dottore della Legge, gli rivolge questa domanda: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?» (v. 36). È una domanda insidiosa, perché nella Legge di Mosè sono menzionati oltre seicento precetti. Come distinguere, tra tutti questi, il grande comandamento? Ma Gesù non ha alcuna esitazione e risponde: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente». E aggiunge: «Amerai il tuo prossimo come te stesso» (vv. 37.39).

Questa risposta di Gesù non è scontata, perché, tra i molteplici precetti della legge ebraica, i più importanti erano i dieci Comandamenti, comunicati direttamente da Dio a Mosè, come condizioni del patto di alleanza con il popolo. Ma Gesù vuole far capire che senza l’amore per Dio e per il prossimo non c’è vera fedeltà a questa alleanza con il Signore. Tu puoi fare tante cose buone, compiere tanti precetti, tante cose buone, ma se tu non hai amore, questo non serve.

Lo conferma un altro testo del Libro dell’Esodo, detto “codice dell’alleanza”, dove si dice che non si può stare nell’Alleanza con il Signore e maltrattare quelli che godono della sua protezione. E chi sono questi che godono della sua protezione? Dice la Bibbia: la vedova, l’orfano e lo straniero, il migrante, cioè le persone più sole e indifese (cfr Es 22,20-21). Rispondendo a quei farisei che lo avevano interrogato, Gesù cerca anche di aiutarli a mettere ordine nella loro religiosità, a ristabilire ciò che veramente conta e ciò che è meno importante. Dice Gesù: «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22,40). Sono i più importanti, e gli altri dipendono da questi due. E Gesù ha vissuto proprio così la sua vita: predicando e operando ciò che veramente conta ed è essenziale, cioè l’amore. L’amore dà slancio e fecondità alla vita e al cammino di fede: senza l’amore, sia la vita sia la fede rimangono sterili.

Quello che Gesù propone in questa pagina evangelica è un ideale stupendo, che corrisponde al desiderio più autentico del nostro cuore. Infatti, noi siamo stati creati per amare ed essere amati. Dio, che è Amore, ci ha creati per renderci partecipi della sua vita, per essere amati da Lui e per amarlo, e per amare con Lui tutte le altre persone. Questo è il “sogno” di Dio per l’uomo. E per realizzarlo abbiamo bisogno della sua grazia, abbiamo bisogno di ricevere in noi la capacità di amare che proviene da Dio stesso. Gesù si offre a noi nell’Eucaristia proprio per questo. In essa noi riceviamo Gesù nell’espressione massima del suo amore, quando Egli ha offerto se stesso al Padre per la nostra salvezza.

La Vergine Santa ci aiuti ad accogliere nella nostra vita il “grande comandamento” dell’amore di Dio e del prossimo. Infatti, se anche lo conosciamo fin da quando eravamo bambini, non finiremo mai di convertirci ad esso e di metterlo in pratica nelle diverse situazioni in cui ci troviamo.

Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle,

ieri a Caxias do Sul, in Brasile, è stato proclamato Beato Giovanni Schiavo, sacerdote dei Giuseppini del Murialdo. Nato sui colli vicentini all’inizio del ‘900, fu inviato giovane prete in Brasile, dove ha lavorato con zelo al servizio del popolo di Dio e della formazione dei religiosi e delle religiose. Il suo esempio ci aiuti a vivere in pienezza la nostra adesione a Cristo e al Vangelo.

Saluto con affetto tutti voi, pellegrini italiani e di vari Paesi, in particolare quelli provenienti da Ballygawley (Irlanda), Salisburgo (Austria) e dalla regione di Traunstein e Berchtesgaden (Germania). Saluto i partecipanti al Convegno degli Istituti secolari italiani, che incoraggio nella loro testimonianza del Vangelo nel mondo; e l’associazione donatori di sangue FIDAS di Orta Nova (Foggia). Vedo che ci sono colombiani lì!

Saluto la comunità Togolese in Italia, come pure quella Venezuelana con l’immagine di Nostra Signora di Chiquinquirà, la “Chinita”. Alla Vergine Maria affidiamo le speranze e le legittime attese di queste due Nazioni!

A tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticate di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

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