mercoledì 31 maggio 2017

Omelia di p. Aurelio Antista (VIDEO) - 31.05.2017 - Visitazione della B.V. Maria



Omelia di p. Aurelio Antista



 Visitazione della B.V. Maria -
31.05.2017


Fraternità Carmelitana 
di Barcellona Pozzo di Gotto


IL SIGNORE CI VISITA
... Il Signore ci visita, e questa visita avviene attraverso Maria, … e questa visita di Dio è presenza che ci accompagna,  è salvezza per gli uomini. Ogni giorno sentiamo notizie dolorose, assurde, di violenza, di morte e siamo portati a smarrire il senso della vita, la speranza, ... ma proprio la festa di oggi ci ricorda che tutte queste situazioni non sono l’ultima parola sulla storia umana. 
La storia umana è salvata da Dio, quandi siamo invitati a ravvivare la nostra fede, 
e a tornare a sperare ...

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“Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” - MA VIENE UN TEMPO ED È QUESTO

 MA VIENE UN TEMPO ED È QUESTO


“Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” mette a tema il cambiamento d’epoca in atto proponendo un percorso di riflessione che culminerà in un’Assemblea nazionale convocata a Roma per il prossimo 2 dicembre



Cari Amici,
a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, una rete di associazioni e di cristiani qualunque volle richiamare in vita quell’evento e rilanciarne la ricezione nella Chiesa, in quattro successive assemblee annuali che si tennero a Roma dal 2012 al 2015. Quella vasta iniziativa di base, in controtendenza rispetto al clima ecclesiale di allora, si chiamò “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”. Essa concluse il suo ciclo con l’Assemblea del 9 maggio 2015 che, richiamando la “Gaudium et Spes”, aveva come tema: “Gioia e speranza, misericordia e lotta”. Quel titolo già risentiva di una novità: era successo infatti che nella sede di Pietro avesse fatto irruzione papa Francesco, che proprio dal Concilio aveva preso le mosse per rimettere in cammino la Chiesa e riaprire, nel cuore di una modernità che la stava archiviando, la questione di Dio.
Proprio all’inizio del pontificato, dinanzi a una platea che non poteva essere più universale, essendo formata dai 6000 giornalisti che avevano seguito il Conclave, il papa svelò il suo programma dicendo: “Come vorrei una Chiesa povera per i poveri!”.
Sembra naturale che quanti come lui volevano e vorrebbero una Chiesa così, continuino a lavorare per questo scopo. Perciò dopo una pausa di parecchi mesi, dal 7 marzo di quest’anno abbiamo rinnovato e rilanciato il sito intitolato alla “Chiesadituttichiesadeipoveri”, l’abbiamo alimentato ogni settimana e abbiamo intrapreso l’ invio regolare di una newsletter che giunge a tutti i richiedenti come notizie@dachiesadituttichiesadeipoveri. Stabilita tale base operativa, abbiamo ora convenuto di aprire una riflessione che ci conduca fino al prossimo incontro. Il tema che intendiamo proporre è: “Ma viene un tempo ed è questo”, tema che vorremmo portare a un primo confronto pubblico il 2 dicembre prossimo a Roma in un’Assemblea promossa dai gruppi già partecipi delle precedenti iniziative e aperta a tutte le persone interessate (a cominciare dai teologi, ma anche da quei teologi che sono i semplici cristiani, fino a quanti non si ritengono o non sono né teologi né cristiani).
Naturalmente sotto questa proposta di riflessione e di Assemblea c’è un’idea, o se si vuole un’ipotesi, che appunto si tratta di valutare; un’ipotesi abbastanza importante da apparire meritevole di essere esplorata, perfino se fosse infondata.
L’idea, o l’ipotesi, è che il tempo non si è fermato, che il progresso storico non è ricacciato indietro dalla tempesta della crisi e che, nonostante tutto, viene un tempo nuovo ed è questo (sempre se gli lasciamo aperto anche un piccolo varco per il quale possa entrare).
C’è un simbolo, di grande impatto popolare, di questo nuovo tempo che viene, ed è il pontificato di papa Francesco. Non si tratta di fare paragoni incresciosi tra questo e altri pontificati; il fatto è che questo pontefice ha rimesso nel cuore della Chiesa il tema messianico. Aprendo ogni giorno il vangelo al popolo, egli ha ristabilito un continuo rimando, che si era perduto, dal Messia al Padre, ha scrostato dal volto di Dio la patina di errate dottrine onde si credeva di rendergli onore, ha annunciato un Dio non violento ed è arrivato a proporre la non violenza come stile radicale di vita agli uomini e agli ordinamenti. In tal modo egli si è ricongiunto al grande tema messianico di Isaia e di Michea delle lanci trasformate in falci, oltrepassando i confini della Chiesa istituita e mettendo la misericordia, contro i falsi messianismi, al centro della storia del mondo e della salvaguardia del creato.
Ma se questo è il simbolo e forse il volano che introduce all’epoca nuova, molti altri segni ci sono che un tempo è finito e un altro preme alle porte.
Non era mai successo che il mondo fosse materialmente unito come è adesso, quando tutte le cose dell’esistenza ormai sono globali e comuni, denaro e debito, armi e materie prime, ponti e muri, onde elettromagnetiche e blackout, inquinamento ed energia; ed anche la guerra è globale e comune, sparsa dovunque, oltremare e sulle soglie di casa.
Non era mai successo che popoli interi, famiglie con bambini e bambini non accompagnati, a migliaia e a milioni, migrassero e si muovessero da una patria all’altra, non per conquistare nuove terre ma per andare ad abitarle, e ne fossero ricacciati e affogati.
Non era mai successo che ognuno, in tempo reale, potesse avere notizia e fare esperienza di tutto.
Ciò che non è globale, ciò che non si è messo in comune è invece lo spirito di cui vive il mondo; non sono patrimonio comune la giustizia e il diritto, la condiscendenza e l’accoglienza, i saperi e gli aneliti, l’amore di Dio e l’amore del prossimo.
In questa contraddizione c’è l’alternativa tra l’epoca nuova e la catastrofe. 
Nel decidersi di questa alternativa l’unica cosa che non si può dire è che la religione non c’entri. L’artificio cristiano su cui si è costruita la modernità, “facciamo come se Dio non ci fosse e il mondo lo costruiamo lo stesso”, oggi non è più possibile. Sono gli altri che non ci stanno. Si può decidere che Dio non c’è, e promuovere una società che gli sia indifferente, come è nel segreto pensiero dell’Occidente, ma non si può immaginare che sia così per tutti, che se ne spenga il fuoco sulla terra, e che perfino le religioni facciano a meno di Dio, quando invece è proprio in suo nome che anche oggi vengono perpetrati i peggiori delitti o scattano i più alti antidoti per la salvezza del mondo. In altre parole il retaggio religioso è troppo potente per non avere impatto, nel bene o nel male, sulla crisi epocale in atto. E perché questo impatto non sia per il male (come si teme dal fanatismo islamista e non solo), ma sia per la pace e per il bene, non basta che la conversione sia del cristianesimo (dove pure recalcitra), occorre che sia di tutte le religioni. Non si tratta solo di dialogo, ma di una nuova creazione. Il Dio nonviolento non è solo il Dio inedito ora annunciato dalla Chiesa, è il Dio nascosto da portare alla luce in ogni religione o fede teista; la lettura storico-critica e sapienziale delle Scritture non deve essere solo della Bibbia, ma deve esserlo del Corano e di ogni testo sacro; il discernimento tra il Dio dell’ira e della vendetta e il Dio della misericordia e del perdono deve essere non solo dei battezzati, ma dei confessanti di ogni fede, pur ciascuno restando un tassello del poliedro.
Questo sembra il tempo nuovo che la Chiesa ripartita dal Concilio e fatta scendere in strada da Francesco ha oggi il compito di annunciare e di far accadere. Sì, le cose del mondo vanno male: Ma…. Sì, i tempi sembrano brutti: Ne viene un altro. Sì, ma quando mai sarà questo tempo? 
È questo. Come dice Gesù alla donna samaritana, indicando il momento e la sostanza della svolta: “Ma è venuto il tempo, ed è questo, in cui i veri adoratori non lo faranno su questo monte o a Gerusalemme ma adoreranno il Padre in spirito e verità”.
Che cosa voglia dire questo, da quali Gerusalemme o santuari si debba uscire per dare avvio al tempo nuovo, e come il suo avvento possa essere il programma del terzo millennio non sappiamo. Questo è tuttavia l’oggetto della riflessione cui sono chiamati oggi i discepoli di Gesù, e questo è pure il tema dell’assemblea del 2 dicembre. 
Il sito chiesadituttichiesadeipoveri (http://www.chiesadituttichiesadeipoveri.it)  è al servizio di questa impresa.
Con cordiali saluti

Per “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”
Vittorio Bellavite, Monica Cantiani, Emma Cavallaro, Giovanni Cereti, Franco Ferrari, Valerio Gigante, Raniero La Valle, Serena Noceti, Enrico Peyretti, Stefano Toppi, Renato Sacco, Rosa Siciliano, Rosanna Virgili.


Roma 30 maggio 2017



"Per i parroci, per i vescovi, per il Papa; perché la loro sia una vita senza compromessi, una vita in cammino, e una vita dove loro non si credano al centro della storia..."

"Per i parroci, per i vescovi, per il Papa; 
perché la loro sia una vita senza compromessi, 
una vita in cammino, 
e una vita dove loro non si credano al centro della storia..." 
Papa Francesco


Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano

30 maggio 2017

inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m.



«Preghiamo per i pastori, per i nostri pastori: per i parroci, per i vescovi, per il Papa; perché la loro sia una vita senza compromessi, una vita in cammino, e una vita dove loro non si credano al centro della storia e così imparino a congedarsi». È l’invocazione elevata da Francesco al termine dell’omelia con cui ha commentato la liturgia della parola di martedì 30 maggio, durante la messa mattutina a Santa Marta.
In particolare il Pontefice si è soffermato sulla prima lettura, tratta dagli Atti degli apostoli (20,17-27), che — ha detto — «si può intitolare “Il congedo di un vescovo”». Infatti nel racconto «Paolo si congeda dalla Chiesa di Efeso. Quella Chiesa che lui aveva fondato, quel giorno della Pentecoste di Efeso, quando scese su di loro lo Spirito Santo».
«Aveva seguito — ha continuato il Papa riprendendo la descrizione della scena — ma adesso deve andarsene. E da Mileto mandò a chiamare a Efeso tutti i presbiteri». Insomma, ha chiarito Francesco usando una terminologia attuale, «era come una riunione di consiglio presbiteriale, ma dove il vescovo si congeda, il pastore si congeda». Del resto, ha fatto notare, «tutti i pastori dobbiamo congedarci. Arriva un momento dove il Signore ci dice: vai da un’altra parte, vai di là, va di qua, vieni da me. E uno dei passi che deve fare un pastore è anche prepararsi per congedarsi bene, non congedarsi a metà». Anche perché, ha messo in guardia, «il pastore che non impara a congedarsi è perché ha qualche legame non buono col gregge, un legame che non è purificato per la croce di Gesù».
Ecco allora, prosegue la narrazione, che «Paolo si congeda». Ma, ha evidenziato il Pontefice, «il passo di questo congedo non finisce con la lettura di oggi, va fino alla fine del capitolo 20». Da qui la raccomandazione di Francesco: «chiedo a tutti voi di leggere oggi questo capitolo 20 dal versetto 17 fino alla fine. Capitolo 20. Questo consiglio presbiteriale nel quale Paolo vescovo si congeda».
Leggendo il brano, infatti, il Papa ha individuato «tre atteggiamenti» da sottolineare in questo congedo dell’apostolo. Il primo si può notare quando gli anziani della Chiesa giunsero presso di lui e Paolo disse: «Voi sapete come mi sono comportato con voi per tutto questo tempo, fin dal primo giorno in cui arrivai in Asia: ho servito il Signore con tutta umiltà, tra le lacrime, le prove». Dunque, «non si vanta, non è un atto di vanità. No. Racconta la storia». E in tal modo fa risaltare un aspetto, il primo punto che il Papa intende «sottolineare: “Non mi sono mai tirato indietro”. Una delle cose che darà tanta pace al pastore quando si congeda è ricordarsi che mai è stato un pastore di compromessi. “Non mi sono mai tirato indietro”, senza compromessi».
E per questo ci vuole coraggio. È lo stesso Paolo ad affermarlo: «Voi ricordate... perché io potessi istruirvi, predicarvi, darvi testimonianza a tutti». Dunque «non si vanta, perché lui dice che è il peggiore dei peccatori, lo sa e lo dice. Ma qui sta facendo un racconto della sua storia in questa Chiesa». E «poi riprende, l’altra parte del passo, dopo il capitolo 27, fino alla fine, qualche cosa del genere di questo rendiconto, di questo esame di coscienza». Insomma, ha spiegato Francesco, «il pastore si congeda e ha nel cuore la pace di sapere che non ha guidato la Chiesa con i compromessi. Non si è tirato indietro». Ecco perché, ha detto il Papa, «se leggiamo fino alla fine» questo passo «da soli, piangeremo, come hanno pianto i presbiteri. La bellezza della verità, della vita».
Passando poi al secondo punto, il Pontefice ha avvertito che Paolo dopo aver guardato al passato ora pensa al presente: «Ed ecco costretto dallo Spirito io vado a Gerusalemme senza sapere ciò che là mi accadrà». In pratica l’apostolo dice: «Obbedisco allo Spirito: “Costretto dallo Spirito vado”». Da qui il secondo punto sottolineato dal Pontefice: «il pastore sa che è in cammino». Infatti Paolo «mentre guidava la Chiesa era con l’atteggiamento di non fare compromessi; adesso lo Spirito gli chiede di mettersi in cammino, senza sapere cosa accadrà. E continua perché lui non ha cosa propria, non ha fatto del suo gregge un’appropriazione indebita. Ha servito. “Adesso Dio vuole che io me ne vada? Me ne vado senza sapere cosa mi accadrà. So soltanto — lo Spirito gli aveva fatto sapere quello — che lo Spirito santo di città in città mi attesta che mi attendono catene e tribolazioni”. Quello lo sapeva».
Insomma, per il Papa è come se Paolo volesse dire: «Non vado in pensione. Vado altrove a servire altre Chiese. Sempre il cuore aperto alla voce di Dio: lascio questo, vedrò cosa il Signore mi chiede. E quel pastore senza compromessi è adesso un pastore in cammino. Perché non si è appropriato del gregge».
Ed è solo chiedendosi: «perché non si è appropriato?» — ha proseguito il Pontefice nella sua riflessione — che emerge «il terzo tratto» da sottolineare. «Non ritengo in nessun modo preziosa la mia vita», dice Paolo, quasi a significare: «non sono il centro della storia, della storia grande o della storia piccola, non sono il centro. “Non ritengo preziosa la mia vita. Sono un servitore”». E questo ha rimandato alla mente del celebrante «quel detto popolare: come si vive, si muore; come si vive, ci si congeda». Così Paolo «si congeda con la libertà che ha avuto quel giorno che ha fatto la domanda: “Avete ricevuto lo Spirito Santo?”. E poi la libertà senza compromessi, in cammino, e “io non sono il centro della storia”: così si congeda un pastore. Il grande Paolo ci insegna».
Infine il capitolo degli Atti si conclude con la scena degli ascoltatori dell’apostolo, che piangono, perché dice loro: “Non vedrete mai me”. «Si inginocchiano, pregano, lo accompagnano alla nave e se ne va», ha concluso il Papa, esortando «con questo esempio tanto bello» a pregare «per i nostri pastori»
(Fonte: L' Osservatore Romano)

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Servizio TV2000

martedì 30 maggio 2017

Lotta contro la mafia - Tutte e tutti al fianco di don Lugi Ciotti (Video)

Lotta contro la mafia 
Tutte e tutti al fianco 
di don Lugi Ciotti






Milano, 29.05.2017. - Si è svolta presso il Tribunale di Milano (Ufficio del giudice per le indagini preliminari) l'udienza per le minacce di Toto Riina rivolte a Luigi Ciotti, presidente di Libera, intercettate il 14 settembre 2013 nel carcere di Opera a Milano, nel corso di una conversazione tra il capomafia di Corleone e il boss della Sacra Corona Unita, Alberto Lorusso.
Luigi Ciotti, presidente di Libera, parte offesa nel procedimento, è stato in aula con l'avvocato Enza Rando, mentre all'esterno del tribunale una delegazione di coordinamenti e presidi di Libera provenienti da varie parti d'Italia ha testimoniato la propria vicinanza al presidente.


Il nostro cammino non si ferma! 
Il nostro cammino va avanti!! 
don Luigi Ciotti
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Servizio aTGR Sicilia






"Nessuno fermerà il cammino di Libera, 
perchè fatto da cittadini responsabili!! "
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 Realizzato da Libera



Valignano e il valore dell’intercultura di mons. Bruno Forte

Valignano
e
il valore dell’intercultura 
mons. Bruno Forte
teologo e arcivescovo di Chieti-Vasto


Ricordo ancora l’emozione con cui - invitato per tenere conferenze sul cristianesimo in diverse università della Cina popolare diversi anni fa - visitai la tomba di Alessandro Valignano a Macao, gesuita missionario nato a Chieti nel 1539 e morto alle porte del Celeste Impero il 20 gennaio 1606.

Egli fu non solo un evangelizzatore di straordinaria audacia, ma anche colui che teorizzò e mise in atto nell’annuncio del Vangelo due modalità di cui oggi si apprezza il profondo valore: l’“inculturazione” e l’“interculturalità”. È la stessa opera di Valignano a spiegarne il significato.

Dopo gli studi di diritto a Padova, il giovane Alessandro incontrò a Roma i Gesuiti, nati da pochi anni. Un intenso discernimento spirituale lo portò alla decisione di entrare nel noviziato di Sant’Andrea al Quirinale. Ordinato sacerdote, nell’estate del 1572 fu nominato Visitatore delle Indie Orientali, rappresentante plenipotenziario, cioè, del Padre Generale della Compagnia per l’attività missionaria in estremo Oriente.

Partì da Roma nel settembre 1573 per il Portogallo, da dove salpò per Goa nel marzo 1574. Visitò le missioni in India, Malesia, Molucche e Macao. Si prese quindi cura del loro sviluppo in Cina e Giappone, dove insistette con grande lucidità sul rispetto della cultura locale, rivoluzionando i metodi di evangelizzazione.

Espresse le sue convinzioni in molti scritti e lettere, redatti in latino, italiano, spagnolo o portoghese, che costituiscono una fonte preziosa per la conoscenza della sua opera e delle idee che la guidavano. «Non sono i Giapponesi che devono adattarsi ai nostri costumi, ma noi che dobbiamo adattarci ai loro»: fu questo il principio ispiratore della sua azione.

La recente pubblicazione della relazione del viaggio di quattro giovani principi giapponesi in Europa, da lui voluto e organizzato con cura per creare un ponte fra le culture e favorire la diffusione del cristianesimo nella grande civiltà del Giappone, è un compendio del suo messaggio, quanto mai vivo e stimolante. L’opera, a cura di Marisa Di Russo, è uscita col titolo Dialogo sulla missione degli Ambasciatori Giapponesi alla Curia Romana e sulle cose osservate in Europa e durante tutto il viaggio (Olschki, Firenze 2016: la traduzione è di Pia Assunta Airoldi).

Se il secolo in cui Valignano visse fu segnato dalle grandi scoperte geografiche a Occidente e dal rinnovato slancio di interesse e di espansione dell'Europa verso l'estremo Oriente, l’incontro con nuove civiltà, alcune di grandissima storia e spessore, suscitò la domanda decisiva circa la forma da dare a questo incontro: doveva essere tale, caratterizzato dunque dal dialogo e dal reciproco scambio di valori, o andava invece configurato come uno scontro di civiltà, dove il più forte si sarebbe dovuto imporre? Valignano optò in modo esemplare per la via del dialogo, muovendo dal convinto apprezzamento dei costumi giapponesi e dalla volontà di rispettarli e valorizzarli come porta dell’evangelizzazione.

Non di meno, mostrò i limiti del popolo che pure tanto amava e indicò con coraggio il salto di qualità cui era necessario avviarlo con la luce del Vangelo: «È il popolo più bellicoso e più dedito alla guerra di qualsiasi altro al mondo». Ma la via per condurre un popolo così colto a preferire il bene della vita e della pace a ogni altro, non doveva essere quella della forza, che non avrebbe cambiato in nulla le sue convinzioni.

A vincerlo non poteva essere che la via evangelica del perdono e della carità più forte di tutto. Rilevante è allora il messaggio che ci viene dalla vita e dalle opere del grande Visitatore delle Indie: figlio della riforma tridentina, egli pone al centro della Chiesa la causa del Vangelo e il dovere missionario di ogni battezzato. Lo fa, però, nel rispetto più grande per il destinatario e nel desiderio di creare ponti di scambio e amicizia fra i popoli, nella convinzione che ciò che accomuna tutti gli esseri umani è il grande mezzo della ragione. Si coglie in questo riconoscimento un’idea chiave, che ispira l’intera azione del Valignano al servizio dell’evangelizzazione: c’è una struttura intelligente della realtà che si mostra a tutti gli spiriti onesti e scevri da pregiudizi.

Poiché tali gli appaiono i maestri del Giappone, è sua ferma convinzione che sia possibile raggiungere la loro mente e il loro cuore attraverso il dialogo, saldamente fondato sull’esercizio della ragione. Su questa strada diventa possibile offrire all’altro il dono di cui ci si riconosce portatori e ricevere dall’altro i beni che lo caratterizzano, come pure può attuarsi il processo di rinnovamento che l’accoglienza della buona novella attiva nelle menti e nei cuori. In antitesi allo “scontro delle civiltà” Alessandro Valignano indica come unica via credibile e praticabile quella del dialogo e dell’incontro fra culture e religioni. E questo vale anche per quanti come noi queste culture ed esperienze religiose diverse siamo chiamati a ricevere nel grande flusso immigratorio che sta conoscendo il nostro Paese.

Un Italiano del ’500 ha dunque tanto da insegnare a non pochi Italiani di oggi circa l’accoglienza dell’altro e il rispetto del diverso…
(fonte testo: Il Sole 24ore)


"“Se non si ascolta lo Spirito, la fede è fredda e ideologica”" Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)

“Se non si ascolta lo Spirito, 
la fede è fredda e ideologica”
Papa Francesco

Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano

29 maggio 2017

inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m.



Cuori «irrequieti» perché «mossi dallo Spirito Santo», o «elettrocardiogrammi spirituali» piatti, lineari, «senza emozioni»? In quale categoria ci si ritrova? È la domanda di fondo posta a ogni cristiano da Papa Francesco nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta lunedì 29 maggio. All’inizio della settimana in cui «la Chiesa ci prepara per ricevere lo Spirito Santo e ci fa riflettere sullo Spirito Santo e ci chiede di pregare perché lo Spirito Santo venga nella Chiesa, nel mio cuore, nella mia parrocchia, nella mia comunità», Papa Francesco ha invitato i cristiani a mettersi «in attesa di questo dono del Padre che Gesù ci ha promesso».

La meditazione del Pontefice ha preso spunto dalla prima lettura del giorno dedicata alla predicazione di san Paolo a Efeso (Atti degli apostoli, 19, 1-8). Subito si nota, ha rilevato Francesco, «come questa comunità che aveva ricevuto la fede non sapeva dello Spirito Santo». Tant’è che, ha detto, questa lettura si potrebbe chiamare «La Pentecoste di Efeso», perché «succede lo stesso che era accaduto a Gerusalemme».

Eppure, ha fatto notare il Papa, «questa gente era credente». Ma quando Paolo domandò loro: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?», questi risposero: «Non abbiamo nemmeno sentito che esiste uno Spirito Santo». In questo racconto, cioè, ci si trova di fronte alla «realtà di una Chiesa, gente buona, gente di fede, gente che credeva nel Signore Gesù», ma che «era lì senza neppure conoscere questo dono del Padre: lo Spirito Santo». Perciò «Paolo impose le mani e incominciarono: “Discese su di loro lo Spirito Santo e si misero a parlare in lingue”».

Il Pontefice ha spiegato che, con la discesa dello Spirito Santo, per i discepoli di Efeso «è incominciato il moto del cuore perché quello che muove il nostro cuore, quello che ci ispira, che ci insegna» è lui: è lo Spirito «che muove il cuore», che alimenta «le emozioni nel cuore». Del resto, ha aggiunto, lo aveva detto lo stesso Gesù: lo Spirito «insegnerà» e farà ricordare «tutto quello che io vi ho insegnato».

Ciò che è accaduto ai discepoli di Efeso è un’esperienza ricorrente nei racconti del Nuovo testamento, in cui si incontrano tanti personaggi che «hanno sentito questo messaggio e hanno cambiato vita». Per esempio, ha approfondito il Pontefice, «possiamo domandarci: chi mosse Nicodemo ad andare di notte a parlare con Gesù»? Fu proprio «quella inquietudine». E «chi mosse la samaritana dopo aver dato l’acqua a Gesù a intrattenersi a parlare con lui?». La risposta è che lei sentiva che «il cuore cambiava». Ancora: «chi mosse la peccatrice ad andare e bagnare i piedi di Gesù con le sue lacrime? E chi mosse tanta gente ad avvicinarsi a Gesù? Pensiamo a quella signora, ammalata di perdite di sangue: chi è stato a muoverla e a metterle quel sentimento, quell’idea: “Se io tocco l’orlo del mantello sarò guarita”?». La risposta è sempre la stessa: «lo Spirito Santo», colui che «muove il cuore».

A questo punto Papa Francesco ha, come sua consuetudine, attualizzato la meditazione applicandola alla vita di ogni cristiano. Ha posto quindi una serie di domande: «Io sono come quelli di Efeso che nemmeno sapevano che esistesse lo Spirito Santo? Quale è il posto che lo Spirito Santo ha nella mia vita, nel mio cuore? Io sono capace di ascoltarlo? Io sono capace di chiedere ispirazione prima di prendere una decisione o dire una parola o fare qualcosa? O il mio cuore è tranquillo, senza emozioni, un cuore fisso?». Il problema infatti, ha aggiunto, è che per «certi cuori, se noi facessimo un elettrocardiogramma spirituale, il risultato sarebbe lineare, senza emozioni».

Una realtà spirituale che si ritrova descritta anche nei vangeli, ha ricordato il Pontefice, se si pensa, ad esempio, ai dottori della legge: «erano credenti in Dio, sapevano tutti i comandamenti, ma il cuore era chiuso, fermo, non si lasciavano interpellare».

Ecco, allora, il punto di volta della riflessione: occorre «lasciarsi interpellare dallo Spirito Santo». Qualcuno, ha detto il Papa, potrebbe obiettare: «“Eh, ho sentito questo… Ma, padre, quello è sentimentalismo?” — “No, può essere, ma no. Se tu vai sulla strada giusta non è sentimentalismo”». Così come può capitare di sentir dire: «Ho sentito la voglia di fare questo, di andare a visitare quell’ammalato o cambiare vita o lasciare questo...». L’importante, ha spiegato Francesco, è «sentire e discernere: discernere quello che sente il mio cuore», perché «lo Spirito Santo è il maestro del discernimento».

Certi slanci sono infatti positivi: «una persona che non ha questi movimenti nel cuore, che non discerne cosa succede, è una persona che ha una fede fredda, una fede ideologica. La sua fede è un’ideologia, tutto qui». È proprio quello che viene descritto nel Vangelo: «il dramma di quei dottori della legge che se la prendevano con Gesù».

Perciò, ha detto il Papa, bisogna chiedersi: «Quale è il mio rapporto con lo Spirito Santo? Io prego lo Spirito Santo? Chiedo luce allo Spirito Santo? Chiedo che mi guidi per il cammino che devo scegliere nella mia vita e anche tutti i giorni? Chiedo che mi dia la grazia di distinguere il buono dal meno buono? Perché il buono dal male subito si distingue. Ma c’è quel male nascosto che è il meno buono, ma ha nascosto il male. Chiedo quella grazia?».

In fin dei conti, la domanda che il Papa ha voluto oggi «seminare» nel cuore di ognuno è: «Come è il mio rapporto con lo Spirito Santo?». Ogni cristiano dovrebbe cioè chiedersi: «Io ho un cuore irrequieto perché mosso dallo Spirito Santo?»; e ancora: «Chiedo questa grazia di capire cosa succede nel mio cuore?»; e infine: «Quando mi viene la voglia di fare qualcosa, mi fermo e chiedo allo Spirito Santo che mi ispiri, che mi dica di sì o di no o faccio soltanto i calcoli con la mente: “Questo sì perché se no...”»?.

L’impegno è quello di mettersi in ascolto: «Cosa mi dice lo Spirito?». Non a caso, ha ricordato il Pontefice, l’apostolo Giovanni nell’Apocalisse, rivolgendosi «a ognuna delle sette chiese di quel tempo, incomincia così: “Ascoltate quello che lo Spirito dice alle chiese”». Perciò, ha concluso, «oggi chiediamo questa grazia di ascoltare quello che lo Spirito dice alla nostra Chiesa, alla nostra comunità, alla nostra parrocchia, alla nostra famiglia e a me, a ognuno di noi: la grazia di imparare questo linguaggio di ascoltare lo Spirito Santo».
(Fonte:  Osservatore Romano)


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Servizio TV2000

lunedì 29 maggio 2017

Papa Francesco a Genova / 1 "Il lavoro è una priorità umana" (foto, testi, video)


Papa Francesco ha iniziato alle 8.15 circa la sua visita pastorale a Genova. 

Ad accoglierlo nell'aeroporto ligure il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo della città, il sindaco Marco Doria e il presidente della Regione Giovanni Toti. E' un viaggio molto intenso in cui il Pontefice incontrerà la Chiesa ligure, il mondo del lavoro, i giovani. Pranzerà con i migranti e i carcerati e abbraccerà i bambini ricoverati all’ospedale pediatrico Gaslini. Momento centrale sarà la Santa Messa, nel pomeriggio, presieduta nell’area della Fiera del Mare. 

In un messaggio pubblicato dal Secolo XIX, il Pontefice si rivolge così ai "cari genovesi": "Vengo a farvi visita da pellegrino di pace e di speranza. So che Genova è una città generosa, che non chiude le sue porte, che si impegna ad accogliere e ad integrare quanti scappano dalla fame, dalla povertà e dalle guerre. Non posso non pensare che dal porto della vostra città, il 1° febbraio 1929, si imbarcarono sulla nave 'Giulio Cesare' i miei nonni Giovanni e Rosa, e mio papà Mario, che allora aveva ventun anni. Torno nel luogo da dove loro sono partiti, come figlio di migranti e vi ringrazio per l’accoglienza. So che i problemi non mancano. So quanto è pesante la disoccupazione, la mancanza di lavoro che colpisce giovani e meno giovani, e condiziona la vita di tante famiglie. Ma so anche che i genovesi non sono soltanto abitanti di una città di mare e dunque abituati ad avere a che fare con le imbarcazioni e con le reti. Sono anche capaci di «fare rete» e di essere solidali".

Incontro con il mondo del lavoro allo Stabilimento Ilva

Il primo incontro del suo viaggio pastorale è allo stabilimento dell’Ilva che si trova a fianco all’aeroporto.
Francesco ha raggiunto il luogo del suo primo appuntamento con i genovesi a bordo di un auto elettrica scoperta,  lo hanno accolto 3.500 lavoratori con il caratteristico elmo giallo.
Sotto un gigantesco capannone è stato allestito un piccolo palco.
Il Papa risponde a braccio a 4 domande di un imprenditore, una lavoratrice interinale, un sindacalista e un lavoratore.






1) L'imprenditore Ferdinando Garré del distretto Riparazioni Navali

Nel nostro lavoro ci troviamo a lottare contro tanti ostacoli - l'eccessiva burocrazia, la lentezza delle decisioni pubbliche, la mancanza di servizi e infrastrutture adeguate - che spesso non consentono di liberare le migliori energie di questa città. Condividiamo questo impegnativo cammino con il nostro cappellano e siamo incoraggiati dal nostro Arcivescovo, Cardinal Angelo Bagnasco. Ci rivolgiamo a Lei, Santità, per chiedere una parola di vicinanza. Una parola che ci conforti e ci incoraggi di fronte agli ostacoli in cui ogni giorno noi imprenditori ci imbattiamo.

Papa Francesco

Buongiorno a tutti!

E’ la prima volta che vengo a Genova, e essere così vicino al porto mi ricorda da dove è uscito il mio papà… Questo mi dà una grande emozione. E grazie dell’accoglienza vostra. Il signor Ferdinando Garré: io conoscevo le domande, e per alcune ho scritto idee per rispondere; e tengo anche la penna in mano per riprendere qualcosa che mi venga in mente al momento, per rispondere. Ma a queste domande sul mondo del lavoro ho voluto pensare bene per rispondere bene, perché oggi il lavoro è a rischio. E’ un mondo dove il lavoro non si considera con la dignità che ha e che dà. Per questo risponderò con le cose che ho pensato e alcune che dirò al momento.

Faccio una premessa. La premessa è: il mondo del lavoro è una priorità umana. E pertanto, è una priorità cristiana, una priorità nostra, e anche una priorità del Papa. Perché viene da quel primo comando che Dio ha dato ad Adamo: “Va’, fa’ crescere la terra, lavora la terra, dominala”. C’è sempre stata un’amicizia tra la Chiesa e il lavoro, a partire da Gesù lavoratore. Dove c’è un lavoratore, lì c’è l’interesse e lo sguardo d’amore del Signore e della Chiesa. Penso che questo sia chiaro. E’ molto bella questa domanda che proviene da un imprenditore, da un ingegnere; dal suo modo di parlare dell’azienda emergono le tipiche virtù dell’imprenditore. E siccome questa domanda la fa un imprenditore, parleremo di loro. La creatività, l’amore per la propria impresa, la passione e l’orgoglio per l’opera delle mani e dell’intelligenza sua e dei lavoratori. L’imprenditore è una figura fondamentale di ogni buona economia: non c’è buona economia senza buon imprenditore. Non c’è buona economia senza buoni imprenditori, senza la vostra capacità di creare, creare lavoro, creare prodotti. Nelle Sue parole si sente anche la stima per la città – e si capisce questo – per la sua economia, per la qualità delle persone dei lavoratori, e anche per l’ambiente, il mare… E’ importante riconoscere le virtù dei lavoratori e delle lavoratrici. Il loro bisogno – dei lavoratori e delle lavoratrici – è il bisogno di fare il lavoro bene perché il lavoro va fatto bene. A volte si pensa che un lavoratore lavori bene solo perché è pagato: questa è una grave disistima dei lavoratori e del lavoro, perché nega la dignità del lavoro, che inizia proprio nel lavorare bene per dignità, per onore. Il vero imprenditore – io cercherò di fare il profilo del buon imprenditore – il vero imprenditore conosce i suoi lavoratori, perché lavora accanto a loro, lavora con loro. Non dimentichiamo che l’imprenditore dev’essere prima di tutto un lavoratore. Se lui non ha questa esperienza della dignità del lavoro, non sarà un buon imprenditore. Condivide le fatiche dei lavoratori e condivide le gioie del lavoro, di risolvere insieme problemi, di creare qualcosa insieme. Se e quando deve licenziare qualcuno è sempre una scelta dolorosa e non lo farebbe, se potesse. Nessun buon imprenditore ama licenziare la sua gente – no, chi pensa di risolvere il problema della sua impresa licenziando la gente, non è un buon imprenditore, è un commerciante, oggi vende la sua gente, domani vende la propria dignità –, ci soffre sempre, e qualche volta da questa sofferenza nascono nuove idee per evitare il licenziamento. Questo è il buon imprenditore. Io ricordo, quasi un anno fa, un po’ di meno, alla Messa a Santa Marta alle 7 del mattino, all’uscita io saluto la gente che è lì, e si è avvicinato un uomo. Piangeva. Disse: “Sono venuto a chiedere una grazia: io sono al limite e devo fare una dichiarazione di fallimento. Questo significherebbe licenziare una sessantina di lavoratori, e non voglio, perché sento che licenzio me stesso”. E quell’uomo piangeva. Quello è un bravo imprenditore. Lottava e pregava per la sua gente, perché era “sua”: “E’ la mia famiglia”. Sono attaccati…

Una malattia dell’economia è la progressiva trasformazione degli imprenditori in speculatori. L’imprenditore non va assolutamente confuso con lo speculatore: sono due tipi diversi. L’imprenditore non deve confondersi con lo speculatore: lo speculatore è una figura simile a quella che Gesù nel Vangelo chiama “mercenario”, per contrapporlo al Buon Pastore. Lo speculatore non ama la sua azienda, non ama i lavoratori, ma vede azienda e lavoratori solo come mezzi per fare profitto. Usa, usa azienda e lavoratori per fare profitto. Licenziare, chiudere, spostare l’azienda non gli crea alcun problema, perché lo speculatore usa, strumentalizza, “mangia” persone e mezzi per i suoi obiettivi di profitto. Quando l’economia è abitata invece da buoni imprenditori, le imprese sono amiche della gente e anche dei poveri. Quando passa nelle mani degli speculatori, tutto si rovina. Con lo speculatore, l’economia perde volto e perde i volti. E’ un’economia senza volti. Un’economia astratta. Dietro le decisioni dello speculatore non ci sono persone e quindi non si vedono le persone da licenziare e da tagliare. Quando l’economia perde contatto con i volti delle persone concrete, essa stessa diventa un’economia senza volto e quindi un’economia spietata. Bisogna temere gli speculatori, non gli imprenditori; no, non temere gli imprenditori perché ce ne sono tanti bravi! No. Temere gli speculatori. Ma paradossalmente, qualche volte il sistema politico sembra incoraggiare chi specula sul lavoro e non chi investe e crede nel lavoro. Perché? Perché crea burocrazia e controlli partendo dall’ipotesi che gli attori dell’economia siano speculatori, e così chi non lo è rimane svantaggiato e chi lo è riesce a trovare i mezzi per eludere i controlli e raggiungere i suoi obiettivi. Si sa che regolamenti e leggi pensati per i disonesti finiscono per penalizzare gli onesti. E oggi ci sono tanti veri imprenditori, imprenditori onesti che amano i loro lavoratori, che amano l’impresa, che lavorano accanto a loro per portare avanti l’impresa, e questi sono i più svantaggiati da queste politiche che favoriscono gli speculatori. Ma gli imprenditori onesti e virtuosi vanno avanti, alla fine, nonostante tutto. Mi piace citare a questo proposito una bella frase di Luigi Einaudi, economista e presidente della Repubblica Italiana. Scriveva: “Migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. E’ la vocazione naturale che li spinge, non soltanto la sete di guadagno. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritirare spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente ottenere con gli altri impegni”. Hanno quella mistica dell’amore…

La ringrazio per quello che Lei ha detto, perché Lei è un rappresentante di questi imprenditori. State attenti voi, imprenditori, e anche voi, lavoratori: state attenti agli speculatori. E anche alle le regole e alle leggi che alla fine favoriscono gli speculatori e non i veri imprenditori. E alla fine lasciano la gente senza lavoro. Grazie.


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2) Micaela, rappresentante sindacale

Oggi di industria si parla nuovamente grazie alla quarta rivoluzione industriale o industria 4.0. Bene: il mondo del lavoro è pronto ad accettare nuove sfide produttive che portino benessere. La nostra preoccupazione è che questa nuova frontiera tecnologica e la ripresa economica e produttiva che prima o poi verrà, non portino con sé nuova occupazione di qualità, ma anzi contribuiscano nell'incrementare precarietà e disagio sociale. Oggi la vera rivoluzione invece sarebbe proprio quella di trasformare la parola "lavoro" in una forma concreta di riscatto sociale.

Papa Francesco:

Mi viene in mente di rispondere, all’inizio, con un gioco di parole… Tu hai finito con la parola “riscatto sociale”, e mi viene il “ricatto sociale”. Quello che dico adesso è una cosa reale, che è accaduta in Italia circa un anno fa. C’era una coda di gente disoccupata per trovare un lavoro, un lavoro interessante, di ufficio. La ragazza che me lo ha raccontato – una ragazza istruita, parlava alcune lingue, che era importante per quel posto – e le hanno detto: “Sì, può andare…; saranno 10-11 ore al giorno…” – “Sì, sì!” – ha detto lei subito, perché aveva bisogno di lavoro – “E si incomincia con – credo che abbiano detto, non voglio sbagliare, ma non di più – 800 euro al mese”. E lei ha detto: “Ma… 800 soltanto? 11 ore?”. E il signore – lo speculatore, non era imprenditore, l’impiegato dello speculatore – le ha detto: “Signorina, guardi dietro di Lei la coda: se non le piace, se ne vada”. Questo non è riscatto ma ricatto!

Adesso dirò quello che avevo scritto, ma l’ultima parola tua mi ha ispirato questo ricordo. Il lavoro in nero. Un’altra persona mi ha raccontato che ha lavoro, ma da settembre a giugno: viene licenziata a giugno, e ripresa a ottobre, settembre. E così si gioca… Il lavoro in nero.

Ho accolto la proposta di fare questo incontro oggi, in un luogo di lavoro e di lavoratori, perché anche questi sono luoghi del popolo di Dio. I dialoghi nei luoghi del lavoro non sono meno importanti dei dialoghi che facciamo dentro le parrocchie o nelle solenni sale convegni, perché i luoghi della Chiesa sono i luoghi della vita e quindi anche le piazze e le fabbriche. Perché qualcuno può dire: “Ma questo prete, che cosa viene a dirci? Vada in parrocchia!”. No, il mondo del lavoro è il mondo del popolo di Dio: siamo tutti Chiesa, tutti popolo di Dio. Molti degli incontri tra Dio e gli uomini, di cui ci parlano la Bibbia e i Vangeli, sono avvenuti mentre le persone lavoravano: Mosè sente la voce di Dio che lo chiama e gli rivela il suo nome mentre pascolava il gregge del suocero; i primi discepoli di Gesù erano pescatori e vengono chiamati da Lui mentre lavoravano in riva al lago. E’ molto vero quello che Lei dice: la mancanza di lavoro è molto più del venire meno di una sorgente di reddito per poter vivere. Il lavoro è anche questo, ma è molto, molto di più. Lavorando noi diventiamo più persona, la nostra umanità fiorisce, i giovani diventano adulti soltanto lavorando. La Dottrina sociale della Chiesa ha sempre visto il lavoro umano come partecipazione alla creazione che continua ogni giorno, anche grazie alle mani, alla mente e al cuore dei lavoratori. Sulla terra ci sono poche gioie più grandi di quelle che sperimentano lavorando, come ci sono pochi dolori più grandi dei dolori del lavoro, quando il lavoro sfrutta, schiaccia, umilia, uccide. Il lavoro può fare molto male perché può fare molto bene. Il lavoro è amico dell’uomo e l’uomo è amico del lavoro, e per questo non è facile riconoscerlo come nemico, perché si presenta come una persona di casa, anche quando ci colpisce e ci ferisce. Gli uomini e le donne si nutrono del lavoro: con il lavoro sono “unti di dignità”. Per questa ragione, attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale. Questo è il nocciolo del problema. Perché quando non si lavora, o si lavora male, si lavora poco o si lavora troppo, è la democrazia che entra in crisi, è tutto il patto sociale. E’ anche questo il senso dell’articolo 1 della Costituzione italiana, che è molto bello: “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”. In base a questo possiamo dire che togliere il lavoro alla gente o sfruttare la gente con lavoro indegno o malpagato o come sia, è anticostituzionale. Se non fosse fondata sul lavoro, la Repubblica italiana non sarebbe una democrazia, perché il posto di lavoro lo occupano e lo hanno sempre occupato privilegi, caste, rendite. Bisogna allora guardare senza paura, ma con responsabilità, alle trasformazioni tecnologiche dell’economia e della vita e non rassegnarsi all’ideologia che sta prendendo piede ovunque, che immagina un mondo dove solo metà o forse due terzi dei lavoratori lavoreranno, e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale. Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è il “reddito per tutti”, ma il “lavoro per tutti”! Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti. Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso – pensiamo alla rivoluzione industriale, c’è stato un cambio; anche qui ci sarà una rivoluzione – sarà diverso dal lavoro di ieri, ma dovrà essere lavoro, non pensione, non pensionati: lavoro. Si va in pensione all’età giusta, è un atto di giustizia; ma è contro la dignità delle persone mandarle in pensione a 35 o 40 anni, dare un assegno dello Stato, e arràngiati. “Ma, ho per mangiare?”. Sì. “Ho per mandare avanti la mia famiglia, con questo assegno?” Sì. “Ho dignità?” No! Perché? Perché non ho lavoro. Il lavoro di oggi sarà diverso. Senza lavoro, si può sopravvivere; ma per vivere, occorre il lavoro. La scelta è fra il sopravvivere e il vivere. E ci vuole il lavoro per tutti. Per i giovani… Voi sapete la percentuale di giovani dai 25 anni in giù, disoccupati, che ci sono in Italia? Io non lo dirò: cercate le statistiche. E questo è un’ipoteca sul futuro. Perché questi giovani crescono senza dignità, perché non sono “unti” dal lavoro che è quello che dà la dignità. Ma il nocciolo della domanda è questo: un assegno statale, mensile che ti faccia portare avanti una famiglia non risolve il problema. Il problema va risolto con il lavoro per tutti. Credo di avere risposto più o meno…


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3) Un lavoratore che fa un cammino di formazione promosso dai Cappellani

Non raramente negli ambienti di lavoro prevalgono la competizione, la carriera, gli aspetti economici mentre il lavoro è un'occasione privilegiata di testimonianza e di annuncio del Vangelo, vissuto adottando atteggiamenti di fratellanza, collaborazione e solidarietà. Chiediamo a Vostra Santità consigli per meglio camminare verso questi ideali.

Papa Francesco:

I valori del lavoro stanno cambiando molto velocemente, e molti di questi nuovi valori della grande impresa e della grande finanza non sono valori in linea con la dimensione umana, e pertanto con l’umanesimo cristiano. L’accento sulla competizione all’interno dell’impresa, oltre ad essere un errore antropologico e cristiano, è anche un errore economico, perché dimentica che l’impresa è prima di tutto cooperazione, mutua assistenza, reciprocità. Quando un’impresa crea scientificamente un sistema di incentivi individuali che mettono i lavoratori in competizione fra loro, magari nel breve periodo può ottenere qualche vantaggio, ma finisce presto per minare quel tessuto di fiducia che è l’anima di ogni organizzazione. E così, quando arriva una crisi, l’azienda si sfilaccia e implode, perché non c’è più nessuna corda che la tiene. Bisogna dire con forza che questa cultura competitiva tra i lavoratori dentro l’impresa è un errore, e quindi una visione che va cambiata se vogliamo il bene dell’impresa, dei lavoratori e dell’economia. Un altro valore che in realtà è un disvalore è la tanto osannata “meritocrazia”. La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il “merito”; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte. La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono: il talento non è un dono secondo questa interpretazione: è un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi. Così, se due bambini alla nascita nascono diversi per talenti o opportunità sociali ed economiche, il mondo economico leggerà i diversi talenti come merito, e li remunererà diversamente. E così, quando quei due bambini andranno in pensione, la diseguaglianza tra di loro si sarà moltiplicata. Una seconda conseguenza della cosiddetta “meritocrazia” è il cambiamento della cultura della povertà. Il povero è considerato un demeritevole e quindi un colpevole. E se la povertà è colpa del povero, i ricchi sono esonerati dal fare qualcosa. Questa è la vecchia logica degli amici di Giobbe, che volevano convincerlo che fosse colpevole della sua sventura. Ma questa non è la logica del Vangelo, non è la logica della vita: la meritocrazia nel Vangelo la troviamo invece nella figura del fratello maggiore nella parabola del figliol prodigo. Lui disprezza il fratello minore e pensa che deve rimanere un fallito perché se lo è meritato; invece il padre pensa che nessun figlio si merita le ghiande dei porci.


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4) Vittoria, disoccupata

Noi disoccupati sentiamo le Istituzioni non solo lontane ma matrigne, intente più ad un assistenzialismo passivo che a darsi da fare per creare le condizioni che favoriscano il lavoro. Ci conforta il calore umano con cui la Chiesa ci è vicina e l'accoglienza che ognuno trova presso la casa dei Cappellani. Santità, dove possiamo trovare la forza per crederci sempre e non mollare mai nonostante tutto questo?

Papa Francesco:

E’ proprio così! Chi perde il lavoro e non riesce a trovare un altro buon lavoro, sente che perde la dignità, come perde la dignità chi è costretto per necessità ad accettare lavori cattivi e sbagliati. Non tutti i lavori sono buoni: ci sono ancora troppi lavori cattivi e senza dignità, nel traffico illegale di armi, nella pornografia, nei giochi di azzardo e in tutte quelle imprese che non rispettano i diritti dei lavoratori o della natura. Come è cattivo il lavoro di chi è pagato molto perché non abbia orari, limiti, confini tra lavoro e vita perché il lavoro diventi tutta la vita. Un paradosso della nostra società è la compresenza di una crescente quota di persone che vorrebbero lavorare e non riescono, e altri che lavorano troppo, che vorrebbero lavorare di meno ma non ci riescono perché sono stati “comprati” dalle imprese. Il lavoro, invece, diventa “fratello lavoro” quando accanto ad esso c’è il tempo del non-lavoro, il tempo della festa. Gli schiavi non hanno tempo libero: senza il tempo della festa, il lavoro torna ad essere schiavistico, anche se superpagato; e per poter fare festa dobbiamo lavorare. Nelle famiglie dove ci sono disoccupati, non è mai veramente domenica e le feste diventano a volte giorni di tristezza perché manca il lavoro del lunedì. Per celebrare la festa, è necessario poter celebrare il lavoro. L’uno scandisce il tempo e il ritmo dell’altra. Vanno insieme.

Condivido anche che il consumo è un idolo del nostro tempo. E’ il consumo il centro della nostra società, e quindi il piacere che il consumo promette. Grandi negozi, aperti 24 ore ogni giorno, tutti i giorni, nuovi “templi” che promettono la salvezza, la vita eterna; culti di puro consumo e quindi di puro piacere. E’ anche questa la radice della crisi del lavoro nella nostra società: il lavoro è fatica, sudore. La Bibbia lo sapeva molto bene e ce lo ricorda. Ma una società edonista, che vede e vuole solo il consumo, non capisce il valore della fatica e del sudore e quindi non capisce il lavoro. Tutte le idolatrie sono esperienze di puro consumo: gli idoli non lavorano. Il lavoro è travaglio: sono doglie per poter generare poi gioia per quello che si è generato insieme. Senza ritrovare una cultura che stima la fatica e il sudore, non ritroveremo un nuovo rapporto col lavoro e continueremo a sognare il consumo di puro piacere. Il lavoro è il centro di ogni patto sociale: non è un mezzo per poter consumare, no. E’ il centro di ogni patto sociale. Tra il lavoro e il consumo ci sono tante cose, tutte importanti e belle, che si chiamano dignità, rispetto, onore, libertà, diritti, diritti di tutti, delle donne, dei bambini, delle bambine, degli anziani… Se svendiamo il lavoro al consumo, con il lavoro presto svenderemo anche tutte queste sue parole sorelle: dignità, rispetto, onore, libertà. Non dobbiamo permetterlo, e dobbiamo continuare a chiedere il lavoro, a generarlo, a stimarlo, ad amarlo. Anche a pregarlo: molte delle preghiere più belle dei nostri genitori e nonni erano preghiere del lavoro, imparate e recitate prima, dopo e durante il lavoro. Il lavoro è amico della preghiera; il lavoro è presente tutti i giorni nell’Eucaristia, i cui doni sono frutto della terra e del lavoro dell’uomo. Un mondo che non conosce più i valori e il valore del lavoro, non capisce più neanche l’Eucaristia, la preghiera vera e umile delle lavoratrici e dei lavoratori. I campi, il mare, le fabbriche sono sempre stati “altari” dai quali si sono alzate preghiere belle e pure, che Dio ha colto e raccolto. Preghiere dette e recitate da chi sapeva e voleva pregare ma anche preghiere dette con le mani, con il sudore, con la fatica del lavoro da chi non sapeva pregare con la bocca. Dio ha accolto anche queste e continua ad accoglierle anche oggi.


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Per questo, vorrei terminare questo dialogo con una preghiera: è una preghiera antica, il “Vieni, Santo Spirito”, che è anche una preghiera del lavoro e per il lavoro.

“Vieni, Santo Spirito, 
manda a noi un raggio di luce.
Vieni, padre dei poveri,
Padre dei lavoratori e delle lavoratrici.
Vieni, datore dei doni,
vieni, luce dei cuori.
Consolatore perfetto,
ospite dolce dell’anima,
dolcissimo sollievo.
Nella fatica, riposo,
nella calura, riparo,
nel pianto, conforto.
Lava ciò che è sporco, 
bagna ciò che arido, 
sana ciò che sanguina;
piega ciò che è rigido,
scalda ciò che è gelido, 
drizza ciò che è sviato.
Dona virtù e premio,
dona morte santa,
dona gioia eterna.
Amen”.

Grazie!

E adesso, chiedo al Signore che benedica tutti voi, benedica tutti i lavoratori, gli imprenditori, i disoccupati. Ognuno di noi pensi agli imprenditori che fanno di tutto per dare lavoro; pensi ai disoccupati, pensi ai lavoratori e alle lavoratrici. E scenda questa benedizione su tutti noi e su di loro.

[Benedizione]

Grazie tante!

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"La Chiesa esiste per annunciare il Vangelo, solo per quello! E anche, la gioia della Chiesa è annunciare il Vangelo." - Papa Francesco, Regina Coeli 28 maggio 2017 (testo e video)

REGINA COELI
Piazza San Pietro
Domenica, 28 maggio 2017



Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, in Italia e in altri Paesi, si celebra l’Ascensione di Gesù al cielo, avvenuta quaranta giorni dopo la Pasqua. La pagina evangelica (cfr Mt 28,16-20), quella che conclude il Vangelo di Matteo, ci presenta il momento del definitivo commiato del Risorto dai suoi discepoli. La scena è ambientata in Galilea, il luogo dove Gesù li aveva chiamati a seguirlo e a formare il primo nucleo della sua nuova comunità. Adesso quei discepoli sono passati attraverso il “fuoco” della passione e della risurrezione; alla vista del Signore risorto gli si prostrano davanti, alcuni però sono ancora dubbiosi. A questa comunità spaurita, Gesù lascia il compito immenso di evangelizzare il mondo; e concretizza questo incarico con l’ordine di insegnare e battezzare nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo (cfr v. 19).

L’Ascensione di Gesù al cielo costituisce perciò il termine della missione che il Figlio ha ricevuto dal Padre e l’avvio della prosecuzione di tale missione da parte della Chiesa. Da questo momento, dal momento dell’Ascensione, infatti, la presenza di Cristo nel mondo è mediata dai suoi discepoli, da quelli che credono in Lui e lo annunciano. Questa missione durerà fino alla fine della storia e godrà ogni giorno dell’assistenza del Signore risorto, il quale assicura: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (v. 20).

E la sua presenza porta fortezza nelle persecuzioni, conforto nelle tribolazioni, sostegno nelle situazioni di difficoltà che incontrano la missione e l’annuncio del Vangelo. L’Ascensione ci ricorda questa assistenza di Gesù e del suo Spirito che dà fiducia, dà sicurezza alla nostra testimonianza cristiana nel mondo. Ci svela perché esiste la Chiesa: la Chiesa esiste per annunciare il Vangelo, solo per quello! E anche, la gioia della Chiesa è annunciare il Vangelo. La Chiesa siamo tutti noi battezzati. Oggi siamo invitati a comprendere meglio che Dio ci ha dato la grande dignità e la responsabilità di annunciarlo al mondo, di renderlo accessibile all’umanità. Questa è la nostra dignità, questo è il più grande onore di ognuno di noi, di tutti i battezzati!

In questa festa dell’Ascensione, mentre rivolgiamo lo sguardo al cielo, dove Cristo è asceso e siede alla destra del Padre, rafforziamo i nostri passi sulla terra per proseguire con entusiasmo e coraggio il nostro cammino, la nostra missione di testimoniare e vivere il Vangelo in ogni ambiente. Siamo però ben consapevoli che questa non dipende prima di tutto dalle nostre forze, da capacità organizzative e risorse umane. Soltanto con la luce e la forza dello Spirito Santo noi possiamo adempiere efficacemente la nostra missione di far conoscere e sperimentare sempre più agli altri l’amore e la tenerezza di Gesù.

Chiediamo alla Vergine Maria di aiutarci a contemplare i beni celesti, che il Signore ci promette, e a diventare testimoni sempre più credibili della sua Risurrezione, della vera Vita.

Dopo il Regina Coeli:

Cari fratelli e sorelle,

desidero esprimere nuovamente la mia vicinanza al caro fratello il Papa Tawadros II e a tutta la Nazione egiziana, che due giorni fa ha subito un altro atto di feroce violenza. Le vittime, tra cui anche bambini, sono fedeli che si recavano a un santuario a pregare, e sono stati uccisi dopo che si erano rifiutati di rinnegare la loro fede cristiana. Il Signore accolga nella sua pace questi coraggiosi testimoni, questi martiri, e converta i cuori dei terroristi.

E preghiamo anche per le vittime dell’orribile attentato di lunedì scorso a Manchester, dove tante giovani vite sono state crudelmente spezzate. Sono vicino ai familiari e a quanti ne piangono la scomparsa.
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Si celebra oggi la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, sul tema “Non temere perché io sono con te” (Is 43,5). I mezzi di comunicazione sociale offrono la possibilità di condividere e diffondere all’istante le notizie in modo capillare; queste notizie possono essere belle o brutte, vere o false; preghiamo perché la comunicazione, in ogni sua forma, sia effettivamente costruttiva, al servizio della verità rifiutando i pregiudizi, e diffonda speranza e fiducia nel nostro tempo.

Saluto tutti voi, cari romani e pellegrini: le famiglie, i gruppi parrocchiali, le associazioni, le scuole.

In particolare, saluto i fedeli provenienti dal Colorado; i gruppi folcloristici bavaresi venuti per la grande parata nel centenario della festa della Patrona Bavariae; saluto i fedeli polacchi, con una benedizione anche per i partecipanti al pellegrinaggio al Santuario di Piekary.

Saluto i Missionari Comboniani che festeggiano 150 anni di fondazione; il pellegrinaggio delle Suore Ospedaliere di Ascoli Piceno; i gruppi di Napoli, Scandicci, Thiesi, Nonantola, e gli alunni della scuola “Sacro Cuore del Verbo Incarnato” di Palermo.

Un pensiero speciale e un incoraggiamento va ai rappresentanti delle associazioni di volontariato che promuovono la donazione degli organi, “atto nobile e meritorio” (Catechismo, n. 2296). Saluto anche i lavoratori di Mediaset Roma, con l’auspicio che la loro situazione lavorativa possa risolversi, avendo come finalità il vero bene dell’azienda, non limitandosi al mero profitto ma rispettando i diritti di tutte le persone coinvolte: e il primo è il diritto al lavoro.

Voglio concludere con un grande saluto ai genovesi e un grande grazie per la loro calorosa accoglienza che mi hanno riservato ieri. Che il Signore li benedica abbondantemente e la Madonna della Guardia li custodisca.

E a tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

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Custodire il "Deserto" di Enzo Bianchi

Custodire il "Deserto" 
di Enzo Bianchi

Pubblicato nel numero di marzo/aprile della rivista "Vita e Pensiero" 
bimestrale di cultura e dibattito dell’Università Cattolica.





Quando l’editto di Costantino nel 313 d.C.consacrò la libertà di culto cristiano e l’adozione del cristianesimo come religione dell’impero, il variegato fermento di «radicalità» che abitava ampi settori del mondo cristiano si trovò a confrontarsi con uno sviluppo inatteso della Chiesa: il cristianesimo conobbe la sua prima autentica “crisi di crescita”. Venute meno le persecuzioni, veniva meno anche la «testimonianza» per eccellenza, quella martyria offerta da quanti erano pronti a versare il proprio sangue per affermare la fede nel Signore Gesù, morto e risorto.Si assisteva a un progressivo estendersi del numero dei fedeli e, di pari passo, a un affievolimento delle esigenze richieste ai catecumeni e ai neo-battezzati: così la vicenda della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme e le vite dei martiri della fede iniziarono a essere lette come testimonianze di una «età dell’oro» in cui il Vangelo era stato vissuto con purezza e integrità ormai smarrite. Alla forma per antonomasia della santità, il martirio di sangue, si affiancò allora quella dell’eremitismo, caratterizzata da una «separazione», una anacoresi, un ritiro in un luogo deserto.

L’area originaria di questo movimento ascetico abbracciava l’intero Egitto, la Palestina e la Siria: da qui,esperienze indipendenti e parallele di vita eremitica o cenobitica si estenderanno gradualmente alla Cappadocia e all’Occidente, cominciando dalle aree mediterranee di Gallia e Italia. Il deserto rimarrà in ogni caso elemento comune alle varie esperienze,carico com’è di reminiscenze bibliche, dai quarant’anni di Israele in attesa di entrare nella terra promessa, fino ai quaranta giorni di tentazioni vissuti da Gesù all’inizio del suo ministero pubblico: luogo di prova e tentazione, ma anche di fidanzamento tra Dio e il suo popolo, come canta il profeta Osea.

Ma cosa cercano i primi monaci e in particolare gli eremiti fuggendo nella solitudine del deserto? O, meglio,da cosa fuggono con questa anacoresi? Innanzitutto dall’ormai onnipresente potere dell’impero: nel deserto l’imperatore non cerca sudditi cui imporre tributi, né adoratori che lo venerino, né vi invia funzionari che lo rappresentino o coloni che ne bonifichino il terreno,tutt’al più si limita a reclutarvi qualche nomade per il suo esercito. In questo senso la fuga nel deserto è contemporanea e non successiva alla testimonianza del martirio di sangue: sono due vie per affermare con tutta la propria vita che si vuole servire solo il Signore e sovente la scelta per l’una o per l’altra è imposta dalle condizioni esterne.

Il deserto per sua natura predispone tutto affinché nella vita di chi lo abita non ci sia alcun Dio al di fuori del Signore, alcun’altra realtà oggetto di adorazione e di culto. Questo desiderio di servire un unico Signore si accompagna a un rifiuto della mentalità mondana, del modo di pensare, di agire, di giudicare proprio di chi serve a diversi padroni, di chi adegua i propri comportamenti non alla loro conformità al Vangelo, bensì al loro grado di opportunità e convenienza, al successo, al denaro o più semplicemente al quieto vivere che assicurano. Tuttavia l’eremitismo, proprio per la sua specificità anche all’interno del fenomeno monastico,sarà sempre letto e interpretato in modo ambivalente: da un lato, lo si considera la forma eccellente di vita monastica, adatta a pochi, d’altro lato, se ne scorgono i limiti nell’annessa impossibilità a servire i fratelli nel quotidiano e nel rischio di scambiare la volontà propria con quella del Signore. Proprio per questo la tradizione monastica d’Occidente come d’Oriente dalla Regola di Benedetto fino alla prassi contemporanea nel deserto egiziano ha sempre ritenuto possibile l’approdo alla vita eremitica solo dopo un tempo prolungato di vita comunitaria e l’assenso di un padre spirituale. Storicamente così è avvenuto molte volte, continua ad avvenire e sarebbe per certi versi auspicabile che sempre avvenisse. Ma anche l’inverso è attestato: quasi tutte le nuove forme di vita cenobitica – a cominciare da Benedetto stesso – hanno origine dal ritirarsi nel deserto dell’eremo di un uomo solo, che abbandona tutto e tutti e che soltanto in seguito viene raggiunto da alcuni discepoli per i quali accetta di fare da guida e di stendere una «regola» di vita.

Negli ultimi decenni è divenuto appariscente il fenomeno di uno sviluppo della vita eremitica in diverse Chiese locali. Cosa dire, dopo un attento ascolto di molti tra quanti hanno intrapreso questo cammino e un’osservazione del loro modo e stile di vivere l’eremitismo? Mi sento di dire che alcune sono autentiche vocazioni alla solitudine, emerse dopo un lungo tempo di vita comune, dove si è sperimentata la sottomissione reciproca e l’obbedienza a una guida spirituale. Ma diverse altre, in verità, appaiono o come fuga dal ministero, e quindi dal presbiterio della Chiesa locale, o come soluzione escogitata da chi, per la sua singolarità, non è capace di vita comunitaria e dà forma a una vita consacrata “fai da te”. Rincresce dirlo ma restano valide le severe parole di san Basilio che nella Regola diffusa analizza e denuncia tutti i rischi della vita eremitica. La vita monastica, infatti, è una vita “lunga”ed è molto difficile, senza essere osservati ed eventualmente corretti, mantenere la disciplina e lo stile. Ci si deve chiedere, ad esempio,quale solitudine sia quella di chi nel proprio eremo riceve ospiti a ogni ora e in ogni stagione, in una vita dove non è conservata neppure la regola più comune della clausura monastica che garantisce che nello spazio della vita ordinaria non abbiano accesso altri.

Oggi mi pare ci sia troppo entusiasmo, anche da parte di vescovi che hanno il compito di vigilare e compaginare i carismi nella Chiesa: un entusiasmo analogo a quello che una ventina di anni fa ha accompagnato le «nuove comunità», con il risultato di avere oggi sotto gli occhi situazioni quanto meno non esemplari nell’offrire una testimonianza cristiana.

I pericoli sono quindi ben presenti ed è perciò necessario vigilare affinché questa fuga non sia fuga disdegnosa dagli uomini, bensì fuga dalla mondanità, presa di distanza capace di offrire nuove prospettive nel contemplare le realtà quotidiane e quindi di rendere il monaco ancora più vicino al cuore dei propri fratelli.

Eremiti o anacoreti non dovrebbero ricercare lo «straordinario», l’eccentrico: del resto uscire dalla quotidianità della vita ordinaria per essere straordinari significherebbe portare con sé il modello mondano che si è abbandonato. Thomas Merton, che negli ultimi anni della sua vita passò dal monastero trappista all’eremo, amava ripetere che i monaci dei primi secoli intravedevano il deserto come possibilità per sfuggire al naufragio che minacciava la società e la Chiesa. Per questo, ritirandosi in disparte non intendevano mettere al sicuro solo se stessi: consapevoli della propria incapacità a fare del bene agli altri finché fossero rimasti a dibattersi tra i relitti, confidavano che, una volta riusciti a mettere piede sulla terra ferma, non solo sarebbero stati in grado, ma avrebbero avuto addirittura il dovere di trascinare dietro a sé il mondo intero verso la salvezza.

Davvero il «deserto» si rivela, ancora oggi, una categoria spirituale più che geografica o fisica: ritirarsi in disparte, non condividere il modo di pensare e di agire della maggioranza, accettare la prova e la privazione per saggiare cosa si ritiene davvero essenziale, fare silenzio per imparare l’ascolto, custodire la solitudine per saper leggere nel proprio cuore e in quello altrui, sono tutti elementi che alcuni individui – in ogni tempo e in ogni luogo – colgono come propria verità fino ad assumerli come totalità della propria condizione e come segno capace di offrire consapevolezza e senso della vita a quanti a loro si accostano