sabato 30 aprile 2016

JESUS, aprile 2016 - La bisaccia del mendicante di ENZO BIANCHI - Ho trovato l’amato!


JESUS, aprile 2016

La bisaccia del mendicante
Rubrica di ENZO BIANCHI


Ho trovato l’amato!

Stiamo vivendo i giorni della Pasqua di Gesù e cantiamo la nostra fede nell’amore che ha vinto la morte. L’amore, appunto, cioè “Dio” che “è amore” (1Gv 4,8.16), ma anche l’amore degli umani, uomini e donne, che lo vivono magari con contraddizioni, con cadute, ma cercano di viverlo come l’unica cosa che può dare senso alla loro vita.

Nei vangeli, testi così sobri sui sentimenti, sui rapporti d’affetto tra Gesù e i suoi discepoli e le sue discepole, qualcosa di tale amore traspare tuttavia nei racconti riguardanti la resurrezione di Gesù stesso, quando i discepoli e le discepole hanno rincontrato colui che avevano seguito nella vita, ma che avevano abbandonato o seguito da lontano nella sua passione e nella sua morte ignominiosa sulla croce. Da sempre i lettori dei vangeli hanno notato paralleli e richiami tra i racconti pasquali e il Cantico dei cantici, il canto dell’amore tra un amante e un’amata, canto che è un fuoco, una fiamma d’amore (cf. Ct 8,6). Mettendomi in questa scia vorrei dunque, se ne sono capace, scrivere con libertà dell’amore tra Gesù e i suoi nell’alba di Pasqua.

Tutti i vangeli testimoniano che la sera del venerdì il corpo morto di Gesù è deposto dalla croce e che le donne discepole partecipano al suo seppellimento piangendo, manifestando tutto il loro dolore per la perdita di colui che tanto avevano amato. Poi sostano, osservano quella tomba chiusa per sempre con una grande pietra e fanno fatica a distaccarsi dal corpo di Gesù; solo il comandamento del sabato, giorno che iniziava con il tramonto, le spinge a tornare nella casa che le ospitava a Gerusalemme. Sì, “è cessata la voce gioiosa e la voce felice, la voce dello sposo e della sposa” (cf. Ger 25,10)…

Ma queste donne vegliano e, tornate dalla tomba, preparano oli mescolati a profumi (cf. Lc 23,56) e restano in attesa: quel sabato così vuoto, così muto, deve passare presto! In quel giorno di solitudine, in cui non vi è nulla da fare, le donne “ricordano”, soprattutto ricordano i giorni trascorsi insieme a Gesù, in quella vita comune vissuta in Galilea e poi in Giudea, in modo itinerante. Sono ore di pianto e di memoria.

Appena giunge il mattino del primo giorno della settimana, quando ancora è buio, eccole andare alla tomba di Gesù. Perché? “Per vedere la tomba” (Mt 28,1)? “Per andare a ungere” (Mc 16,1; cf. Lc 24,1) il corpo di Gesù, affinché si conservi il più possibile? Di fatto sono ancora attirate da Gesù, e nulla le trattiene: devono stare vicino a lui… Ma ecco la sorpresa indicibile: la tomba è vuota! Le donne vedono l’impensabile, ciò che non attendevano, guardano con attenzione, cadono nell’aporia, provano timore… Tremanti, sconcertate, deluse dalla sua assenza, cercano Gesù: dov’è andato l’amato del loro cuore (cf. Ct 3,1-2)? Chi l’ha portato via (cf. Gv 20,2.13)? Il loro sguardo è pronto solo a vedere Gesù morto, quel Gesù cha hanno visto, contemplato, ascoltato e amato. Per chi ama, non trovare l’amato/amante è una situazione nella quale non ci si ritrova più, un’incertezza disperante…

Qualcuna delle donne guarda a terra (cf. Lc 24,5), qualcun’altra fissa quell’antro vuoto (cf. Mc 16,4). Maria di Magdala pensa di essere nel Santo dei santi, dove due angeli vegliavano sul luogo della presenza di Dio (cf. Gv 20,11-12); le altre donne vedono un messaggero che interpreta quel vuoto: “Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui” (Mc 16,6; cf. Mt 28,5-6). Ma all’amore non bastano né messaggeri né angeli, come protestava san Bernardo: “Non accetto più i sogni e le visioni, … non apprezzo neppure le apparizioni degli angeli … Voglio che sia lui a ‘baciarmi con il bacio della sua bocca’ (Ct 1,1)!” (Discorsi sul Cantico dei cantici 2,2).

L’amante però tarda, mentre cresce l’impazienza e, insieme all’impazienza, l’amore di chi è amato. Finché giunge l’ora dell’incontro. “Maria!”, Gesù dice alla Maddalena, e lei gli risponde: “Mio maestro!” (Gv 20,16). Maria sente il suo amato che la chiama (cf. Ct 5,2), le altre donne vedono Gesù che viene loro incontro dicendo: “Shalom!”, gli prendono i piedi e restano inginocchiate a baciarglieli (cf. Mt 28,9). Maria Maddalena, che in quel mattino si era detta: “Cercherò l’amato del mio cuore finché non l’avrò trovato” (cf. Ct 3,1-2), stringendolo a sé (cf. Ct 3,4) sente la sua voce dirle: “Noli me tangere, non mi trattenere (Gv 20,17), ma anche tu insieme alle altre corri e va’ a dire ai miei fratelli che ‘Io sono’ (Egó eimi)”. Allora Maria canta nel proprio cuore: “‘Ho trovato l’amato del mio cuore e l’ho stretto fortemente’ (Ct 3,4), ma lui subito se n’è andato dicendomi: ‘Noli me tangere’”. Forse anche a Gesù è rincresciuto dire: “Noli me tangere”…


«Il Signore sempre ci aspetta» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
29 aprile 2016
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 



Papa Francesco:
Il cristiano cammina nella luce, no alla doppia vita
I consigli di san Giovanni alla “Chiesa adolescente” del primo secolo sono validissimi anche per noi oggi e Francesco li ha riproposti, rilanciando proprio i contenuti della prima lettera dell’apostolo: non avere una doppia vita e non cedere alla menzogna, consapevoli che pur essendo peccatori abbiamo un Padre che ci perdona. Ecco la riflessione proposta dal Papa venerdì mattina, 29 aprile, nella messa celebrata a Santa Marta.

«La liturgia di oggi — ha fatto subito notare — ci parla di mitezza, di umiltà; ci parla di ristoro di Dio, quando noi siamo stanchi, oppressi; ci parla di dolcezza». Ed è proprio «quello che Gesù dice nel Vangelo, quando loda il Padre: “Signore, tu hai nascosto queste cose ai dotti e le hai rivelate ai piccoli”». Il Signore, ha aggiunto il Papa citando il passo evangelico di Matteo (11, 25-30), «ci parla di piccolezza, di quella piccolezza che piace a Dio».

Anche nella prima lettera di Giovanni apostolo (1,5-2,2), ha spiegato, «quello che attira l’attenzione è lo stesso stile: ci fa pensare a un nonno che consiglia i suoi giovani nipoti». Difatti Giovanni «si rivolge a una “Chiesa adolescente”, ma anche a una Chiesa che, per rimanere in fedeltà, deve rimanere piccola come un bambino, aperta, umile».

Particolarmente significative, ha suggerito il Papa, sono le prime parole della lettera di Giovanni: «Figlioli miei». In quell’espressione c’è «proprio la saggezza di un nonno che parla e ha una eredità». E «qual è il consiglio che dà? Non siate bugiardi! Non dite o non fate capire che Dio è un bugiardo». Ma «come dà questo consiglio? Con un paio di parole che si oppongono fra di loro: luce e tenebra; peccato e grazia». È evidente che, ha affermato il Pontefice, «se noi diciamo di essere in comunione con Dio, che è luce, e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi». Per questo Giovanni «semplicemente dice: rimanete nella luce; siate aperti con la verità del Vangelo; non andate su strade oscure, su strade tenebrose, perché lì non c’è la verità, lì si nasconde quell’altra cosa, non siate bugiardi!».

«Sempre la luce», insomma. Perciò «se tu dici che sei in comunione con il Signore, cammina nella luce: la doppia vita, no! Quella no!». Un no deciso, dunque, a «quella menzogna che noi siamo tanto abituati a vedere, a caderci dentro pure noi: dire una cosa e farne un’altra». È una tentazione che ricorre sempre. Ma «la menzogna noi sappiamo da dove viene: nella Bibbia, Gesù il diavolo lo chiama il “padre della menzogna”, il bugiardo».

Proprio «per questo, con tanta dolcezza, con tanta mitezza, questo nonno dice alla “Chiesa adolescente”: non essere bugiarda! Tu sei in comunione con Dio, cammina alla luce; fa opere di luce, non dire una cosa per farne un’altra, non la doppia vita e tutto questo». Quello di Giovanni è «un consiglio semplice, ma che ci aiuta perché ci porta a pensare a noi stessi». A questo proposito, Francesco ha anche suggerito alcune domande dirette per un esame di coscienza personale: «Io sempre cammino alla luce? Sempre sotto la luce di Dio? Sono trasparente o sono delle volte oscuro e delle volte luminoso?».

«Se noi diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi» ha messo in guardia il Papa. Perché «tutti siamo peccatori, tutti abbiamo peccati». Così «se diciamo di non avere peccato, facciamo di Dio un bugiardo». E «la sua parola non è in noi, perché tutti siamo peccatori». Giovanni, nella sua lettera, è chiaro e spiega: «Non abbiate paura, figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate, ma se qualcuno ha peccato, se qualcuno pecca, non si scoraggi. Abbiamo un Paràclito, una parola, un avvocato, un difensore presso il Padre: è Gesù Cristo, il Giusto. Lui ci giustifica, lui ci dà la grazia».

Ascoltando questi consigli di Giovanni, ha detto Francesco, «uno sente la voglia di dire a questo nonno: “Ma non è tanto una brutta cosa avere peccati?”». No, ha proseguito il Papa, «il peccato è brutto! Ma se tu hai peccato, guarda che ti aspettano per perdonarti! Sempre! Perché lui — il Signore — è più grande dei nostri peccati».

«Questa — ha spiegato il Pontefice — è la vita cristiana, questo è il consiglio che questo nonno dà ai suoi nipotini, a questa Chiesa del primo secolo che è già una bella esperienza di Gesù: sempre alla luce, senza bugie, senza nascondere, senza ipocrisie. È il cammino della luce».

Riguardo al peccato, Francesco ha ripetuto che se è vero che «tutti siamo siamo deboli e tutti abbiamo peccato», resta forte l’invito a non aver paura perché Dio «è più grande dei nostri peccati, più buono». E «lui ci aspetta con quell’atteggiamento che abbiamo recitato nel salmo: “Misericordioso e pietoso è il Signore. Lento all’ira e grande nell’amore. Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono, perché Egli sa bene di che siamo plasmati. Ricorda che noi siamo polvere”» (Salmo 102).

È, in fondo, «l’esperienza tanto bella di cercare il Signore, incontrare il Signore». Fino a riconoscere di essere scivolati, di aver peccato. Per sentirsi dire dal Padre: «Stai tranquillo, io ti perdono, ti abbraccio». E «questa è la misericordia di Dio, è la grandezza di Dio: è più grande dei nostri peccati, più dolce, perché lui sa che noi siamo polvere, siamo niente, la forza viene soltanto da lui». E «così il Signore sempre ci aspetta».

Concludendo l’omelia, Francesco ha invitato a tenere in mente la lettura liturgica del giorno, Giovanni che come un nonno ci consiglia e ci chiama «figlioli miei». E, seguendo quei consigli, «camminiamo nella luce perché Dio è luce: non andare con un piede nella luce e l’altro nelle tenebre; non essere bugiardi». L’importante è essere consapevoli che «tutti abbiamo peccato» e «nessuno può dire: questo è un peccatore, questa è una peccatrice» mentre «io, grazie a Dio, sono giusto. No!». Perché, ha detto ancora il Pontefice, «soltanto uno è giusto, quello che ha pagato per noi». E «se qualcuno pecca, lui ci aspetta, ci perdona perché è misericordioso e sa bene di che siamo plasmati e ricorda che noi siamo polvere». Proprio «la gioia che ci dà questa lettura — ha auspicato il Papa — ci porti avanti nella semplicità e nella trasparenza della vita cristiana, soprattutto quando ci rivolgiamo al Signore. Con la verità».
(fonte: L'Osservatore Romano)

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venerdì 29 aprile 2016

“La Chiesa non è una élite di sacerdoti... e lo Spirito Santo non è solo ‘proprietà’ della gerarchia ecclesiale” - Papa Francesco, Lettera del Santo Padre al Presidente della Pontificia Commissione per l'America Latina

“La Chiesa non è una élite di sacerdoti...
 e lo Spirito Santo non è solo ‘proprietà’
 della gerarchia ecclesiale”
 Papa Francesco,  

Lettera  al Presidente della Pontificia 
Commissione per l'America Latina
Eminenza il Cardinale 
Marc Armand Ouellet, P.S.S.


Eminenza,

Al termine dell’incontro della Commissione per l’America Latina e i Caraibi ho avuto l’opportunità d’incontrare tutti i partecipanti dell’assemblea, nella quale si sono scambiati idee e impressioni sulla partecipazione pubblica del laicato alla vita dei nostri popoli.

Vorrei riportare quanto è stato condiviso in quell’incontro e proseguire qui la riflessione vissuta in quei giorni, affinché lo spirito di discernimento e di riflessione “non cada nel vuoto”; affinché ci aiuti e continui a spronare a servire meglio il Santo Popolo fedele di Dio.

È proprio da questa immagine che mi piacerebbe partire per la nostra riflessione sull’attività pubblica dei laici nel nostro contesto latinoamericano. Evocare il Santo Popolo fedele di Dio è evocare l’orizzonte al quale siamo invitati a guardare e dal quale riflettere. È al Santo Popolo fedele di Dio che come pastori siamo continuamente invitati a guardare, proteggere, accompagnare, sostenere e servire. Un padre non concepisce se stesso senza i suoi figli. Può essere un ottimo lavoratore, professionista, marito, amico, ma ciò che lo fa padre ha un volto: sono i suoi figli. Lo stesso succede a noi, siamo pastori. Un pastore non si concepisce senza un gregge, che è chiamato a servire.
Il pastore è pastore di un popolo, e il popolo lo si serve dal di dentro. Molte volte si va avanti aprendo la strada, altre si torna sui propri passi perché nessuno rimanga indietro, e non poche volte si sta nel mezzo per sentire bene il palpitare della gente.

Guardare al Santo Popolo fedele di Dio e sentirci parte integrale dello stesso ci posiziona nella vita, e pertanto nei temi che trattiamo, in maniera diversa. Questo ci aiuta a non cadere in riflessioni che possono, di per sé, esser molto buone, ma che finiscono con l’omologare la vita della nostra gente o con il teorizzare a tal punto che la speculazione finisce coll’uccidere l’azione. Guardare continuamente al Popolo di Dio ci salva da certi nominalismi dichiarazionisti (slogan) che sono belle frasi ma che non riescono a sostenere la vita delle nostre comunità. Per esempio, ricordo ora la famosa frase: “è l’ora dei laici” ma sembra che l’orologio si sia fermato.

Guardare al Popolo di Dio è ricordare che tutti facciamo il nostro ingresso nella Chiesa come laici. Il primo sacramento, quello che sugella per sempre la nostra identità, e di cui dovremmo essere sempre orgogliosi, è il battesimo. Attraverso di esso e con l’unzione dello Spirito Santo, (i fedeli) “vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo” (Lumen gentium, n. 10). La nostra prima e fondamentale consacrazione affonda le sue radici nel nostro battesimo. Nessuno è stato battezzato prete né vescovo. Ci hanno battezzati laici ed è il segno indelebile che nessuno potrà mai cancellare. Ci fa bene ricordare che la Chiesa non è una élite dei sacerdoti, dei consacrati, dei vescovi, ma che tutti formano il Santo Popolo fedele di Dio. Dimenticarci di ciò comporta vari rischi e deformazioni nella nostra stessa esperienza, sia personale sia comunitaria, del ministero che la Chiesa ci ha affidato. Siamo, come sottolinea bene il concilio Vaticano II, il Popolo di Dio, la cui identità è “la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio” (Lumen gentium, n. 9). Il Santo Popolo fedele di Dio è unto con la grazia dello Spirito Santo, e perciò, al momento di riflettere, pensare, valutare, discernere, dobbiamo essere molto attenti a questa unzione.

Devo al contempo aggiungere un altro elemento che considero frutto di un modo sbagliato di vivere l’ecclesiologia proposta dal Vaticano II. Non possiamo riflettere sul tema del laicato ignorando una delle deformazioni più grandi che l’America Latina deve affrontare – e a cui vi chiedo di rivolgere un’attenzione particolare –, il clericalismo. Questo atteggiamento non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente. Il clericalismo porta a una omologazione del laicato; trattandolo come “mandatario” limita le diverse iniziative e sforzi e, oserei dire, le audacie necessarie per poter portare la Buona Novella del Vangelo a tutti gli ambiti dell’attività sociale e soprattutto politica. Il clericalismo, lungi dal dare impulso ai diversi contributi e proposte, va spegnendo poco a poco il fuoco profetico di cui l’intera Chiesa è chiamata a rendere testimonianza nel cuore dei suoi popoli. Il clericalismo dimentica che la visibilità e la sacramentalità della Chiesa appartengono a tutto il popolo di Dio (cfr. Lumen gentium, nn. 9-14), e non solo a pochi eletti e illuminati.

C’è un fenomeno molto interessante che si è prodotto nella nostra America Latina e che desidero citare qui: credo che sia uno dei pochi spazi in cui il Popolo di Dio è stato libero dall’influenza del clericalismo: mi riferisco alla pastorale popolare. È stato uno dei pochi spazi in cui il popolo (includendo i suoi pastori) e lo Spirito Santo si sono potuti incontrare senza il clericalismo che cerca di controllare e di frenare l’unzione di Dio sui suoi. Sappiamo che la pastorale popolare, come ha ben scritto Paolo VI nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, “ha certamente i suoi limiti. È frequentemente aperta alla penetrazione di molte deformazioni della religione”, ma prosegue, “se è ben orientata, soprattutto mediante una pedagogia di evangelizzazione, è ricca di valori. Essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all'eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione. A motivo di questi aspetti, Noi la chiamiamo volentieri ‘pietà popolare’, cioè religione del popolo, piuttosto che religiosità… Ben orientata, questa religiosità popolare può essere sempre più, per le nostre masse popolari, un vero incontro con Dio in Gesù Cristo” (n. 48). Papa Paolo VI usa un’espressione che ritengo fondamentale, la fede del nostro popolo, i suoi orientamenti, ricerche, desideri, aneliti, quando si riescono ad ascoltare e a orientare, finiscono col manifestarci una genuina presenza dello Spirito. Confidiamo nel nostro Popolo, nella sua memoria e nel suo “olfatto”, confidiamo che lo Spirito Santo agisce in e con esso, e che questo Spirito non è solo “proprietà” della gerarchia ecclesiale.

Ho preso questo esempio della pastorale popolare come chiave ermeneutica che ci può aiutare a capire meglio l’azione che si genera quando il Santo Popolo fedele di Dio prega e agisce. Un’azione che non resta legata alla sfera intima della persona ma che, al contrario, si trasforma in cultura; “una cultura popolare evangelizzata contiene valori di fede e di solidarietà che possono provocare lo sviluppo di una società più giusta e credente, e possiede una sapienza peculiare che bisogna saper riconoscere con uno sguardo colmo di gratitudine” (Evangelii gaudium, n. 68).

Allora, da qui possiamo domandarci: che cosa significa il fatto che i laici stiano lavorando nella vita pubblica?

Oggigiorno molte nostre città sono diventate veri luoghi di sopravvivenza. Luoghi in cui sembra essersi insediata la cultura dello scarto, che lascia poco spazio alla speranza. Lì troviamo i nostri fratelli, immersi in queste lotte, con le loro famiglie, che cercano non solo di sopravvivere, ma che, tra contraddizioni e ingiustizie, cercano il Signore e desiderano rendergli testimonianza. 
Che cosa significa per noi pastori il fatto che i laici stiano lavorando nella vita pubblica?
Significa cercare il modo per poter incoraggiare, accompagnare e stimolare tutti i tentativi e gli sforzi che oggi già si fanno per mantenere viva la speranza e la fede in un mondo pieno di contraddizioni, specialmente per i più poveri, specialmente con i più poveri. 
Significa, come pastori, impegnarci in mezzo al nostro popolo e, con il nostro popolo, sostenere la fede e la sua speranza. Aprendo porte, lavorando con lui, sognando con lui, riflettendo e soprattutto pregando con lui. “Abbiamo bisogno di riconoscere la città” – e pertanto tutti gli spazi dove si svolge la vita della nostra gente - “a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze… Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero” (Evangelii gaudium, n. 71). 
Non è ma il pastore a dover dire al laico quello che deve fare e dire, lui lo sa tanto e meglio di noi. Non è il pastore a dover stabilire quello che i fedeli devono dire nei diversi ambiti. Come pastori, uniti al nostro popolo, ci fa bene domandarci come stiamo stimolando e promuovendo la carità e la fraternità, il desiderio del bene, della verità e della giustizia. Come facciamo a far sì che la corruzione non si annidi nei nostri cuori.
Molte volte siamo caduti nella tentazione di pensare che il laico impegnato sia colui che lavora nelle opere della Chiesa e/o nelle cose della parrocchia o della diocesi, e abbiamo riflettuto poco su come accompagnare un battezzato nella sua vita pubblica e quotidiana; su come, nella sua attività quotidiana, con le responsabilità che ha, s’impegna come cristiano nella vita pubblica. Senza rendercene conto, abbiamo generato una élite laicale credendo che sono laici impegnati solo quelli che lavorano in cose “dei preti”, e abbiamo dimenticato, trascurandolo, il credente che molte volte brucia la sua speranza nella lotta quotidiana per vivere la fede. Sono queste le situazioni che il clericalismo non può vedere, perché è più preoccupato a dominare spazi che a generare processi. Dobbiamo pertanto riconoscere che il laico per la sua realtà, per la sua identità, perché immerso nel cuore della vita sociale, pubblica e politica, perché partecipe di forme culturali che si generano costantemente, ha bisogno di nuove forme di organizzazione e di celebrazione della fede. I ritmi attuali sono tanto diversi (non dico migliori o peggiori) di quelli che si vivevano trent’anni fa! “Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane” (Evangelii gaudium, n. 73). È illogico, e persino impossibile, pensare che noi come pastori dovremmo avere il monopolio delle soluzioni per le molteplici sfide che la vita contemporanea ci presenta. Al contrario, dobbiamo stare dalla parte della nostra gente, accompagnandola nelle sue ricerche e stimolando quell’immaginazione capace di rispondere alla problematica attuale. E questo discernendo con la nostra gente e mai per la nostra gente o senza la nostra gente. Come direbbe sant’Ignazio, “secondo le necessità di luoghi, tempi e persone”. Ossia non uniformando. Non si possono dare direttive generali per organizzare il popolo di Dio all’interno della sua vita pubblica. L’inculturazione è un processo che noi pastori siamo chiamati a stimolare, incoraggiando la gente a vivere la propria fede dove sta e con chi sta. L’inculturazione è imparare a scoprire come una determinata porzione del popolo di oggi, nel qui e ora della storia, vive, celebra e annuncia la propria fede. Con un’identità particolare e in base ai problemi che deve affrontare, come pure con tutti i motivi che ha per rallegrarsi. L’inculturazione è un lavoro artigianale e non una fabbrica per la produzione in serie di processi che si dedicherebbero a “fabbricare mondi o spazi cristiani”.

Nel nostro popolo ci viene chiesto di custodire due memorie. La memoria di Gesù Cristo e la memoria dei nostri antenati. La fede, l’abbiamo ricevuta, è stato un dono che ci è giunto in molti casi dalle mani delle nostre madri, delle nostre nonne. Loro sono state la memoria viva di Gesù Cristo all’interno delle nostre case. È stato nel silenzio della vita familiare che la maggior parte di noi ha imparato a pregare, ad amare, a vivere la fede. È stato all’interno di una vita familiare, che ha poi assunto la forma di parrocchia, di scuola e di comunità, che la fede è giunta alla nostra vita e si è fatta carne. È stata questa fede semplice ad accompagnarci molte volte nelle diverse vicissitudini del cammino. Perdere la memoria è sradicarci dal luogo da cui veniamo e quindi non sapere neanche dove andiamo. Questo è fondamentale, quando sradichiamo un laico dalla sua fede, da quella delle sue origini; quando lo sradichiamo dal Santo Popolo fedele di Dio, lo sradichiamo dalla sua identità battesimale e così lo priviamo della grazia dello Spirito Santo. Lo stesso succede a noi quando ci sradichiamo come pastori dal nostro popolo, ci perdiamo. 
Il nostro ruolo, la nostra gioia, la gioia del pastore, sta proprio nell’aiutare e nello stimolare, come hanno fatto molti prima di noi, madri, nonne e padri, i veri protagonisti della storia.
Non per una nostra concessione di buona volontà, ma per diritto e statuto proprio. I laici sono parte del Santo Popolo fedele di Dio e pertanto sono i protagonisti della Chiesa e del mondo; noi siamo chiamati a servirli, non a servirci di loro.

Nel mio recente viaggio in terra messicana ho avuto l’opportunità di stare da solo con la Madre, lasciandomi guardare da lei. In quello spazio di preghiera, le ho potuto presentare anche il mio cuore di figlio. In quel momento c’eravate anche voi con le vostre comunità. In quel momento di preghiera, ho chiesto a Maria di non smettere di sostenere, come ha fatto con la prima comunità, la fede del nostro popolo. Che la Vergine Santa interceda per voi, vi custodisca e vi accompagni sempre!

Dal Vaticano, 19 marzo 2016


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Servizio TG2000

L’ACQUA RICONSEGNATA AI PRIVATI di p. Alex Zanotelli - Appello




L’ACQUA RICONSEGNATA 
AI PRIVATI

di p. Alex Zanotelli



Quello che è avvenuto il 21 aprile alla camera dei deputati è un insulto alla democrazia. I rappresentanti del popolo italiano hanno rinnegato quello che 26 milioni di italiani avevano deciso con il referendum del 12-13 giugno 2011 e cioè che l’acqua deve uscire dal mercato e che non si può fare profitto su questo bene.

I deputati invece hanno deciso che il servizio idrico deve rientrare nel mercato, dato che è un bene di “interesse economico”, da cui ricavarne profitto. Per arrivare a questa decisione (beffa delle beffe!), i rappresentanti del popolo hanno dovuto snaturare la legge d’iniziativa popolare (2007) che i Comitati dell’acqua erano finalmente riusciti a far discutere in parlamento. Legge che solo lo scorso anno (con enorme sforzo dei comitati) era approdata alla Commissione ambiente della camera, dove aveva subito gravi modifiche, grazie agli interventi di Renzi-Madia. Il testo approvato alla camera obbliga i comuni a consegnare l’acqua ai privati. Ben 243 deputati (Partito Democratico e Destra) lo hanno votato, mentre 129 (Movimento Cinque Stelle e Sinistra Italiana) hanno votato contro. A nulla è valsa la rumorosa protesta in aula dei pentastellati.

Ora il popolo italiano sa con chiarezza sia quali sono i partiti che vogliono privatizzare l’acqua, ma anche che il governo Renzi è tutto proteso a regalare l’acqua ai privati. «L’obiettivo del governo Renzi - afferma giustamente l’economista Riccardo Petrella - è il consolidamento di un sistema idrico europeo, basato su un gruppo di multiutilities su scala interregionale e internazionale, aperte alla concorrenza sui mercati europei e mondiali, di preferenza quotate in borsa , e attive in reti di partenariato pubblico-privato».

Sappiamo infatti che Renzi vuole affidare l’acqua a quattro multiutilities italiane: Iren, A2A, Hera e Acea. Infatti sta procedendo a passo spedito l’iter del decreto Madia (Testo unico sui servizi pubblici locali) che prevede l’obbligo di gestire i servizi a rete (acqua compresa) tramite società per azioni e reintroduce in tariffa “l’adeguatezza della rimunerazione del capitale investito”. (la dicitura che il referendum aveva abrogato!).

Tutto questo è di una gravità estrema, non solo perché si fa beffe della democrazia, ma soprattutto perché è un attentato alla vita. È infatti papa Francesco che parla dell’acqua come «diritto alla Vita» (un termine usato in campo cattolico per l’aborto e l’eutanasia). L’acqua è Vita, è la Madre di tutta la Vita sul pianeta. Privatizzarla equivale a vendere la propria madre! Ed è una bestemmia!

Per cui mi appello a tutti, credenti e non, ma soprattutto alle comunità cristiane perché ci mobilitiamo facendo pressione sul senato dove ora la legge sull’acqua è passata perché lo sgorbio fatto dai deputati venga modificato.

Inoltre mi appello:

Al Presidente della repubblica, perché ricordi ufficialmente al parlamento di rispettare il referendum;

alla Corte costituzionale, perché intervenga a far rispettare il voto del popolo italiano;

alla Conferenza episcopale italiana, perché si pronunci sulla scia dell’enciclica Laudato Si’, sulla gestione pubblica dell’acqua;

ai parroci e ai sacerdoti, perché nelle omelie e nelle catechesi, sensibilizzino i fedeli sull’acqua come «diritto essenziale, fondamentale, universale» (papa Francesco);

ai comuni e alle città, perché ritrovino la volontà politica di ripubblicizzare i servizi idrici come ha fatto Napoli.

Il problema della gestione dell’acqua è oggi fondamentale: è una questione di vita o di morte per noi, ma soprattutto per gli impoveriti del pianeta, per i quali, a causa del surriscaldamento del pianeta, l’acqua sarà sempre più scarsa. Se permetteremo alle multinazionali di mettere le mani sull’acqua, avremo milioni e milioni di morti di sete. Per questo la gestione dell’acqua deve essere pubblica, fuori dal mercato e senza profitto, come sta avvenendo a Napoli, unica grande città italiana ad aver obbedito al referendum.

Diamoci tutti da fare perché vinca la Madre, perché vinca la Vita: l’acqua.
(Fonte: Nigrizia)

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Servizio Canale 58


SPIRITUALITÀ - INCONTRI PER L’ESTATE – 2016 promossi dalla FRATERNITÀ CARMELITANA DI BARCELLONA POZZO DI GOTTO (ME)

SPIRITUALITÀ 
INCONTRI PER L’ESTATE – 2016

promossi dalla 
FRATERNITÀ CARMELITANA
DI BARCELLONA POZZO DI GOTTO (ME)





 LECTIO DIVINA  18-23 
LUGLIO 


IL LIBRO DEL LEVITICO
con p. Pino Stancari sj


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 SETTIMANA DI SPIRITUALITÀ  4-9 AGOSTO




IL SOGNO DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
I 70 anni della Repubblica 
ci interpellano come cristiani




Relazioni di:
Gregorio Battaglia

Alberto Neglia, Egidio Palumbo, Gabriella Del Signore,

Giuseppe Schillaci, Gregorio Battaglia, 

Maurilio Assenza, Maurizio Aliotta, Rosario Giuè
Maurilio Assenza e Alberto Neglia
Egidio Palumbo
Non abbiate prevenzioni rispetto alla Costituzione del ‘48, solo perché opera di una generazione ormai trascorsa. […] Non lasciatevi influenzare da seduttori fin troppo palesemente interessati, non a cambiare la Costituzione, ma a rifiutare ogni regola. […] Cercate di conoscerla, di comprendere in profondità i suoi princípi fondanti, e quindi di farvela amica e compagna di strada. Essa, con le revisioni possibili ed opportune, può garantirvi effettivamente tutti i diritti e tutte le libertà a cui potete ragionevolmente aspirare; vi sarà presidio sicuro, nel vostro futuro, contro ogni inganno e contro ogni asservimento, per qualunque cammino vogliate procedere, e qualunque meta vi prefissiate. E questo vale per voi non solo personalmente, ma può valere, allo stesso modo e con la stessa intensità, per tutto il nostro popolo.
(Giuseppe Dossetti,  I valori della Costituzione, Napoli 20 maggio 1995)

Guarda la locandina per i dettagli:

«Le sorprese dello Spirito» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
28 aprile 2016
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 



Papa Francesco:
Novità e resistenze

Dalla Pentecoste in poi il «protagonista della Chiesa» è lo Spirito Santo: è lui che «muove tutto», che aiuta «a essere forti nel martirio» ma anche a «vincere le resistenze» che possono emergere all’interno della stessa comunità cristiana. È la storia di un cammino — percorso dalla Chiesa dalle origini ai giorni nostri — quella che ha raccontato Papa Francesco nell’omelia tenuta durante la messa celebrata a Santa Marta giovedì 28 aprile. Una strada che, sin dalle prime discussioni fra gli apostoli, è stata segnata da alcuni atteggiamenti: «riunirsi», «ascoltarsi», «discutere», «pregare e decidere» con lo spirito Santo. È, ha sottolineato il Pontefice, la strada «della sinodalità», nella quale «si esprime la comunione della Chiesa» che è opera dello Spirito.

«Il protagonista della Chiesa, del lavoro della Chiesa, della crescita della Chiesa» è lo Spirito. Come ha ricordato il Papa, è questo un dato che emerge chiaramente dalle Scritture. È lui, infatti, «che dal primo momento ha dato la forza agli apostoli, uno a uno, di proclamare il Vangelo, il nome di Gesù». Lo Spirito «disse a Filippo: “Vai per quella strada, dove era il proselito etiope e senti...”»; ugualmente inviò Pietro a Cesarea e a Paolo «disse: “Vieni in Macedonia”, in un sogno». Proprio lì, dove Paolo e Sila vennero incarcerati, fu sempre lo Spirito a muovere il cuore del carceriere il quale, di fronte a eventi straordinari — negli Atti degli apostoli si legge: «D’improvviso venne un terremoto così forte che furono scosse le fondamenta della prigione; subito si aprirono tutte le porte e caddero le catene di tutti» (16, 26) — chiese il battesimo.

Ha concluso il Pontefice: «È lo Spirito che fa tutto, lo Spirito che porta la Chiesa avanti». Ma, ha aggiunto, la porta avanti «anche nel confrontarsi con i suoi problemi». Così, «quando scoppia la persecuzione, dopo il martirio di Stefano, per esempio, è lo Spirito che dà la forza ai credenti per rimanere nella fede». Ed è ancora lui «che fa fuggire i credenti da Gerusalemme, dopo il martirio di Stefano» e li spinge a «portare la fede in Gesù in altri posti».

Anche nel brano proposto dalla liturgia del giorno, tratto dagli Atti degli apostoli (15, 7-21), si incontra l’azione dello Spirito «che porta avanti la Chiesa; e la porta avanti in momenti di pace, gioiosi, di conversione, ma anche nei momenti difficili di persecuzione e anche di resistenze e di accanimento dei dottori della legge». Nel brano in questione, infatti, si legge della «resistenza di quelli che credevano che Gesù fosse venuto soltanto per il popolo eletto». Essi, udendo che lo Spirito Santo era venuto «sui pagani, sui greci, su quelli che non appartenevano al popolo di Israele», si ribellavano dicendo: «Ma no, questo non si può fare». Pur animati da «buona volontà», facevano «resistenza». Così come quando loro stessi introducevano altre eccezioni: «Ma, sì, è vero, lo Spirito Santo o è venuto su di loro, ma devono percorrere la strada secondo la legge, per arrivare alla grazia, cioè la circoncisione e tutti i riti di appartenenza al popolo d’Israele».

Era una situazione di «grande confusione», innescata da quelle che il Papa ha definito «le sorprese dello Spirito». Cioè «lo Spirito metteva i cuori su una strada nuova» e gli apostoli «si sono trovati in situazioni che mai avrebbero creduto, situazioni nuove». Il problema era: «come gestire queste nuove situazioni?». Non a caso il brano degli Atti comincia specificando: «In quei giorni, poiché era sorta una grande discussione...». Ed era, ha sottolineato Francesco, una discussione «calorosa» perché gli apostoli da una parte «avevano la forza dello Spirito — il protagonista — che spingeva ad andare avanti, avanti, avanti»; ma allo stesso tempo lo Spirito «li portava a certe novità, certe cose che mai erano state fatte», anzi, «neppure le avevano immaginate». Come, ad esempio, il fatto che i pagani potessero ricevere lo Spirito Santo. Perciò si chiedevano: «E cosa facciamo?». Insomma, ha spiegato il Pontefice usando un’espressione comune, «avevano la patata bollente nelle mani, e non sapevano che fare».

Negli Atti si legge quindi di come per questo motivo si tenne una riunione nella quale ognuno raccontò «la propria esperienza — Paolo, Barnaba, Pietro stesso» — e di come alla fine gli apostoli «si sono messi d’accordo». Ma, ha sottolineato il Papa, prima della soluzione finale si nota «una cosa bella: “Tutta l’assemblea tacque e stettero ad ascoltare Barnaba e Paolo, che riferivano quali grandi segni e prodigi Dio aveva compiuto tra le nazioni, in mezzo a loro». Dal racconto emerge, cioè, un aspetto fondamentale: l’«ascoltare, non avere paura di ascoltare». È importante perché, ha detto Francesco, «quando uno ha paura di ascoltare, non ha lo Spirito nel suo cuore». E soprattutto è importante «ascoltare con umiltà».

Solo «dopo avere ascoltato», infatti, gli apostoli «hanno deciso di inviare alle comunità greche, cioè ai cristiani che sono venuti dal paganesimo», alcuni discepoli «per tranquillizzarli e dirgli: “Sta bene, andate così”». Quindi «si sono messi d’accordo, hanno inviato questi fratelli e hanno deciso di scrivere una lettera». E anche in quella lettera, ha ribadito il Pontefice, «il protagonista è lo Spirito Santo». Tant’è che vi si legge: «È parso allo Spirito Santo e a noi...» e in altre traduzioni: «Lo Spirito Santo e noi abbiamo deciso...». È chiaro, cioè, che gli apostoli «con lo Spirito guidano la Chiesa».

La lettura del giorno è senz’altro indicativa di quale sia «la strada della Chiesa davanti alle persecuzioni» e anche davanti alle «sorprese dello Spirito, perché lo Spirito sempre ci sorprende». Come si affrontano i problemi? «Con la riunione, l’ascolto, la discussione, la preghiera e la decisione finale. E lì è lo Spirito». Uno stile, una strada seguiti dalle origini «fino a oggi», ogni volta che «lo Spirito ci sorprende» con qualcosa di cui si dice: «mai si è fatto così»; oppure: «si deve fare così».

«Pensate — ha aggiunto il Papa ricorrendo a un esempio “più vicino a noi” — al Vaticano II, alle resistenze che ha avuto il concilio Vaticano II». Anche oggi, ha detto, ci sono «resistenze che continuano in una forma o in un’altra, e lo Spirito che va avanti». Ma «la strada della Chiesa è questa: riunirsi, unirsi insieme, ascoltarsi, discutere, pregare e decidere. E questa è la cosiddetta sinodalità della Chiesa, nella quale si esprime la comunione della Chiesa».

E ancora una volta, ha spiegato Francesco, incontriamo il «protagonista» di sempre. Infatti, «chi fa la comunione? È lo Spirito!»; e «cosa ci chiede il Signore? Docilità allo Spirito», ossia «non avere paura, quando vediamo che è lo Spirito che ci chiama». A volte, anzi, è lo Spirito stesso che «ci ferma» e ci indica la strada giusta. Sicuramente lo Spirito «non ci lascia soli» e «ci dà il coraggio, ci dà la pazienza, ci fa andare sicuri sulla strada di Gesù, ci aiuta a vincere le resistenze e a essere forti nel martirio». Questo Spirito, ha concluso il Papa, «è il dono del Padre, che Gesù ha inviato».

Di qui l’invito finale del Pontefice: «Chiediamo al Signore la grazia di capire come va avanti la Chiesa, di capire come dal primo momento ha affrontato le sorprese dello Spirito» e chiediamo, anche, per ognuno di noi, «la grazia della docilità allo Spirito».
(fonte: L'Osservatore Romano)

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giovedì 28 aprile 2016

«Non esiste vero culto se esso non si traduce in servizio al prossimo» Papa Francesco Udienza Generale 27/04/2016 (Foto, testo e video)

 27 aprile 2016 

“La pace si fa con il sorriso”. Recita così uno degli striscioni issati dai 25mila fedeli accorsi oggi in piazza San Pietro per l’udienza del mercoledì, nonostante il tempo plumbeo e ventoso che incombe su Roma. E il sorriso è il biglietto da visita con cui Papa Francesco ha fatto il suo ingresso all’interno del colonnato del Bernini, poco prima delle 9.30. A bordo della jeep bianca scoperta, ha salutato prima di tutti, come di consueto, i bambini che i solerti uomini della sicurezza vaticana gli hanno porto durante il percorso. Più volte, con i fedeli che si sono affacciati dalle transenne, il Papa ha fatto lo “scambio dello zucchetto”, salutato da un tripudio di bandiere, tra cui anche quelle cinesi e quelle bianco e azzurre dell’Argentina. Tra i piccoli fedeli che Francesco ha baciato e accarezzato, anche un loro coetaneo più grandicello, vestito con il saio bianco della comunione. 



 


Appena sceso dalla “papamobile” per compiere come al solito l’ultimo tratto a piedi, fino al palco al centro del sagrato, il Papa ha salutato una bambina gravemente disabile sdraiata sulla carrozzella e accompagnata dai volontari e dai suoi genitori. Francesco le ha imposto le mani e l’ha benedetta con il segno della Croce sulla fronte.

Guarda il video del saluto ai fedeli


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi riflettiamo sulla parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,25-37). Un dottore della Legge mette alla prova Gesù con questa domanda: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?» (v. 25). Gesù gli chiede di dare lui stesso la risposta, e quello la dà perfettamente: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso» (v. 27). Gesù allora conclude: «Fa’ questo e vivrai» (v. 28).

Allora quell’uomo pone un’altra domanda, che diventa molto preziosa per noi: «Chi è mio prossimo?» (v. 29), e sottintende: “i miei parenti? I miei connazionali? Quelli della mia religione?...”. Insomma, vuole una regola chiara che gli permetta di classificare gli altri in “prossimo” e “non-prossimo”, in quelli che possono diventare prossimi e in quelli che non possono diventare prossimi.

E Gesù risponde con una parabola, che mette in scena un sacerdote, un levita e un samaritano. I primi due sono figure legate al culto del tempio; il terzo è un ebreo scismatico, considerato come uno straniero, pagano e impuro, cioè il samaritano. Sulla strada da Gerusalemme a Gerico il sacerdote e il levita si imbattono in un uomo moribondo, che i briganti hanno assalito, derubato e abbandonato. La Legge del Signore in situazioni simili prevedeva l’obbligo di soccorrerlo, ma entrambi passano oltre senza fermarsi. Erano di fretta… Il sacerdote, forse, ha guardato l’orologio e ha detto: “Ma, arrivo tardi alla Messa… Devo dire Messa”. E l’altro ha detto: “Ma, non so se la Legge me lo permette, perché c’è il sangue lì e io sarò impuro…”. Vanno per un’altra strada e non si avvicinano. E qui la parabola ci offre un primo insegnamento: non è automatico che chi frequenta la casa di Dio e conosce la sua misericordia sappia amare il prossimo. Non è automatico! Tu puoi conoscere tutta la Bibbia, tu puoi conoscere tutte le rubriche liturgiche, tu puoi conoscere tutta la teologia, ma dal conoscere non è automatico l’amare: l’amare ha un’altra strada, occorre l’ intelligenza, ma anche qualcosa di più… Il sacerdote e il levita vedono, ma ignorano; guardano, ma non provvedono. Eppure non esiste vero culto se esso non si traduce in servizio al prossimo. Non dimentichiamolo mai: di fronte alla sofferenza di così tanta gente sfinita dalla fame, dalla violenza e dalle ingiustizie, non possiamo rimanere spettatori. Ignorare la sofferenza dell’uomo, cosa significa? Significa ignorare Dio! Se io non mi avvicino a quell’uomo, a quella donna, a quel bambino, a quell’anziano o a quell’anziana che soffre, non mi avvicino a Dio.
Ma veniamo al centro della parabola: il samaritano, cioè proprio quello disprezzato, quello sul quale nessuno avrebbe scommesso nulla, e che comunque aveva anche lui i suoi impegni e le sue cose da fare, quando vide l’uomo ferito, non passò oltre come gli altri due, che erano legati al Tempio, ma «ne ebbe compassione» (v. 33). Così dice il Vangelo: “Ne ebbe compassione”, cioè il cuore, le viscere, si sono commosse! Ecco la differenza. Gli altri due “videro”, ma i loro cuori rimasero chiusi, freddi. Invece il cuore del samaritano era sintonizzato con il cuore stesso di Dio. Infatti, la “compassione” è una caratteristica essenziale della misericordia di Dio. Dio ha compassione di noi. Cosa vuol dire? Patisce con noi, le nostre sofferenze Lui le sente. Compassione significa “compartire con”. Il verbo indica che le viscere si muovono e fremono alla vista del male dell’uomo. E nei gesti e nelle azioni del buon samaritano riconosciamo l’agire misericordioso di Dio in tutta la storia della salvezza. E’ la stessa compassione con cui il Signore viene incontro a ciascuno di noi: Lui non ci ignora, conosce i nostri dolori, sa quanto abbiamo bisogno di aiuto e di consolazione. Ci viene vicino e non ci abbandona mai. Ognuno di noi, farsi la domanda e rispondere nel cuore: “Io ci credo? Io credo che il Signore ha compassione di me, così come sono, peccatore, con tanti problemi e tanti cose?”. Pensare a quello e la risposta è: “Sì!”. Ma ognuno deve guardare nel cuore se ha la fede in questa compassione di Dio, di Dio buono che si avvicina, ci guarisce, ci accarezza. E se noi lo rifiutiamo, Lui aspetta: è paziente ed è sempre accanto a noi.

Il samaritano si comporta con vera misericordia: fascia le ferite di quell’uomo, lo trasporta in un albergo, se ne prende cura personalmente e provvede alla sua assistenza. Tutto questo ci insegna che la compassione, l’amore, non è un sentimento vago, ma significa prendersi cura dell’altro fino a pagare di persona. Significa compromettersi compiendo tutti i passi necessari per “avvicinarsi” all’altro fino a immedesimarsi con lui: «amerai il tuo prossimo come te stesso». Ecco il Comandamento del Signore.

Conclusa la parabola, Gesù ribalta la domanda del dottore della Legge e gli chiede: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?» (v. 36). La risposta è finalmente inequivocabile: «Chi ha avuto compassione di lui» (v. 27). All’inizio della parabola per il sacerdote e il levita il prossimo era il moribondo; al termine il prossimo è il samaritano che si è fatto vicino. Gesù ribalta la prospettiva: non stare a classificare gli altri per vedere chi è prossimo e chi no. Tu puoi diventare prossimo di chiunque incontri nel bisogno, e lo sarai se nel tuo cuore hai compassione, cioè se hai quella capacità di patire con l’altro.

Questa parabola è uno stupendo regalo per tutti noi, e anche un impegno! A ciascuno di noi Gesù ripete ciò che disse al dottore della Legge: «Va’ e anche tu fa’ così» (v. 37). Siamo tutti chiamati a percorrere lo stesso cammino del buon samaritano, che è figura di Cristo: Gesù si è chinato su di noi, si è fatto nostro servo, e così ci ha salvati, perché anche noi possiamo amarci come Lui ci ha amato, allo stesso modo.
Guarda il video della catechesi

Saluti:

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Saluto i pellegrini di lingua italiana...

Saluto i giovani, specialmente i numerosi alunni delle scuole, gli ammalati e gli sposi novelli. A voi, cari giovani, auguro di essere sempre fedeli al vostro Battesimo, testimoniando la gioia che viene dall’incontro con Gesù. Esorto voi, cari ammalati, a guardare a Colui che ha vinto la morte e che ci aiuta ad accogliere le sofferenze come occasione di redenzione e di salvezza. Invito infine voi, cari sposi novelli, a pensare e vivere la quotidiana esperienza familiare con lo sguardo dell’amore che “tutto scusa e tutto sopporta” (1Cor 13,7).


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Papa Francesco a Lesbo / 3 (cronaca, foto testi e video)


Papa Francesco insieme a Sua Santità Bartolomeo, patriarca ecumenico di Costantinopoli; da Sua Beatitudine Ieronymos, arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia dopo aver salutato 150 minorenni ospiti del centro hanno attraversato il cortile dedicato alla registrazione dei profughi per raggiungere una grande tenda nella quale hanno salutato individualmente circa 250 richiedenti asilo e pronunciato tre brevi discorsi. Primo a prendere la parola l’arcivescovo Ieronymos, quindi il patriarca Bartolomeo, infine Papa Francesco.


 

Durante il suo primo discorso a Lesbo Papa Francesco si è rivolto ai profughi e ai rifugiati del campo di Moria dicendo loro:”Non perdete la speranza, non siete soli”.
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“Noi, Papa Francesco, Patriarca ecumenico Bartolomeo e Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia Ieronymos, ci siamo incontrati sull’isola greca di Lesbo per manifestare la nostra profonda preoccupazione per la tragica situazione dei numerosi rifugiati, migranti e individui in cerca di asilo, che sono giunti in Europa fuggendo da situazioni di conflitto e, in molti casi, da minacce quotidiane alla loro sopravvivenza”. Si apre così la Dichiarazione congiunta firmata oggi nel Mòria refugee camp da, nell’ordine, Ieronymos II, Francesco e Bartolomeo I.

I tre leadears spirituali si sono poi fermati a pranzo con i profughi e i rifugiati del campo di Moria.



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Subito dopo il pranzo con un minibus Francesco con Ieronymos e Bartolomeo si sono trasferiti al porto di Mytilene per incontrare la cittadinanza e la comunità cattolica e fare memoria delle vittime delle migrazioni. 
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Dopo avere recitato, rivolti verso la folla e dando le spalle al mare, ognuno una preghiera per i naufraghi scomparsi – da gennaio ad oggi più di 400 tra cui molti bambini – Papa Francesco, l’arcivescovo Ieronymos e il patriarca Bartolomeo hanno osservato un minuto di silenzio. Quindi, lasciata la postazione ornata da un piccolo albero di ulivo, simbolo di pace, i tre leader religiosi hanno raggiunto una sorta di piccolo palco di legno affacciato sul mare dal quale hanno lanciato nelle acque tre corone di fiori bianchi e gialli consegnati loro da tre bambini, in continuità con il gesto effettuato da Papa Francesco in mare aperto, durante la sua visita a Lampedusa nel luglio 2013.

Ancora un istante di raccoglimento preceduto dal segno della croce, e gli sguardi dei tre uomini di Chiesa a seguire per un po’ i fiori galleggianti sull’acqua. 


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Francesco, Ieronymos e Bartolomeo si sono quindi avviati verso il minibus per tornare in aeroporto, “scortati” da due ali di folla, tra cui molti genitori con bambini piccoli in braccio, dalla quale si è levato diverse volte il grido in italiano: “Papa Francesco!”
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Guarda la bella sintesi del viaggio nel film di TV2000

“Il Papa ha voluto fare un gesto di accoglienza nei confronti dei rifugiati accompagnando a Roma con il suo stesso aereo tre famiglie di rifugiati dalla Siria, 12 persone in tutto, di cui 6 minori. Si tratta di persone che erano già presenti nei campi di accoglienza di Lesvos prima dell’accordo fra Unione Europea e Turchia”. Lo ha dichiarato padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa della Santa Sede, poco prima della partenza dell’aereo papale dall’aeroporto di Mytilene alla volta di Roma. “L’iniziativa del Papa – ha spiegato Lombardi – è stata realizzata tramite una trattativa della Segreteria di Stato con le autorità competenti greche e italiane. Tutti i membri delle tre famiglie sono musulmani. Due famiglie vengono da Damasco, una da Deir Azzor (nella zona occupata dal Daesh). Le loro case sono state bombardate. L’accoglienza e il mantenimento delle tre famiglie saranno a carico del Vaticano. L’ospitalità iniziale sarà garantita dalla Comunità di Sant’Egidio”.



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