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sabato 31 marzo 2018

Maria, donna del Sabato Santo di Don Tonino Bello

Maria, donna del Sabato Santo
di Don Tonino Bello

Ci sono, a volte, degli attimi così densi di mistero, che si ha 1’impressione di averli già sperimentati in altre stagioni della vita. E ci sono degli attimi così gonfi di presentimenti, che vengono vissuti come anticipazioni di beatitudini future.

Nel giorno del Sabato santo, di questi attimi, ce n’è più di qualcuno. E come se cadessero all’improvviso gli argini che comprimono il presente. L’anima, allora, si dilata negli spazi retrostanti delle memorie. Oppure, allungandosi in avanti, giunge a lambire le sponde dell’ eterno rubandone i segreti, in rapidi acconti di felicità.
...

C’è un tempo in cui la gente starà sempre a scambiarsi strette di mano e sorrisi, così come fa oggi? Verranno giorni sottratti all’usura delle lacrime? Esistono spazi di gratuità, dove non smetteremo più gli abiti di festa? Ci sono davvero delle stagioni in cui la vita sarà sempre così?

Fascino struggente del Sabato santo, che ti mette nell’anima brividi di solidarietà perfino con le cose e ti fa chiedere se non abbiano anch’esse un futuro di speranza!

Che cosa faranno gli alberi stanotte, quando suoneranno a stormo le campane? Le piante del giardino spanderanno insieme, come turiboli d’argento, la gloria delle loro resine? E gli animali del bosco ululeranno i loro concerti mentre in chiesa si canta l’Exultet? Come reagirà il mare, che brontola sotto la scogliera, all’annuncio della Risurrezione? L’angelo in bianche vesti farà fremere le porte anche dei postriboli? Oltre i cancelli del cimitero, sussulteranno sotto il plenilunio le tombe dei miei morti? E le montagne, non viste da nessuno, danzeranno di gioia attorno alle convalli?

Una risposta capace di spiegare il tumulto di queste domande io ce l’avrei. Se nel Sabato santo il presente sembra oscillare su passato e futuro, è perché protagonista assoluta, sia pur silenziosa, di questa giornata è Maria.

Dopo la sepoltura di Gesù, a custodire la fede sulla terra non è rimasta che lei. Il vento del Golgota ha spento tutte le lampade, ma ha lasciato accesa la sua lucerna. Solo la sua. Per tutta la durata del sabato, quindi, Maria resta l’unico punto di luce in cui si concentrano gli incendi del passato e i roghi del futuro. Quel giorno essa va errando per le strade della terra, con la lucerna tra le mani. Quando la solleva su un versante, fa emergere dalla notte dei tempi memorie di santità; quando la solleva sull’altro, anticipa dai domicili dell’eterno riverberi di imminenti trasfigurazioni.

Santa Maria, donna del Sabato santo, estuario dolcissimo nel quale almeno per un giorno si è raccolta la fede di tutta la Chiesa, tu sei l'ultimo punto di contatto col cielo che ha preservato la terra dal tragico blackout della grazia. Guidaci per mano alle soglie della luce, di cui la Pasqua è la sorgente suprema.
...

Santa Maria, donna del Sabato santo, aiutaci a capire che, in fondo, tutta la vita, sospesa com'è tra le brume del venerdì e le attese della domenica di Risurrezione, si rassomiglia tanto a quel giorno. È il giorno della speranza, in cui si fa il bucato dei lini intrisi di lacrime e di sangue, e li si asciuga al sole di primavera perché diventino tovaglie di altare.

Ripetici, insomma, che non c'è croce che non abbia le sue deposizioni. Non c'è amarezza umana che non si stemperi in sorriso. Non c'è peccato che non trovi redenzione. Non c'è sepolcro la cui pietra non sia provvisoria sulla sua imboccatura. Anche le gramaglie più nere trascolorano negli abiti della gioia. Le rapsodie più tragiche accennano ai primi passi di danza. E gli ultimi accordi delle cantilene funebri contengono già i motivi festosi dell'alleluia pasquale.

Santa Maria, donna del Sabato santo, raccontaci come, sul crepuscolo di quel giorno, ti sei preparata all'incontro col tuo figlio Risorto.
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Ascolta dalla voce di Don Tonino


CROCE: COLLOCAZIONE PROVVISORIA di Don Tonino Bello

CROCE: COLLOCAZIONE PROVVISORIA 

di Don Tonino Bello


Nel Duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta. Il parroco, in attesa di sistemarlo definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino con la scritta: collocazione provvisoria.
La scritta, che in un primo momento avevo scambiato come intitolazione dell’opera, mi è parsa provvidenzialmente ispirata, al punto che ho pregato il parroco di non rimuovere per nessuna ragione il crocifisso di lì, da quella parete nuda, da quella posizione precaria, con quel cartoncino ingiallito.

Collocazione provvisoria. Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce. La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo.

Coraggio, allora, tu che soffri inchiodato su una carrozzella. 
Animo, tu che provi i morsi della solitudine.
Abbi fiducia, tu che bevi al calice amaro dell’abbandono. 
Non imprecare, sorella, che ti vedi distruggere giorno dopo giorno da un male che non perdona. Asciugati le lacrime, fratello, che sei stato pugnalato alle spalle da coloro che ritenevi tuoi amici.
Non tirare i remi in barca, tu che sei stanco di lottare e hai accumulato delusioni a non finire.
Coraggio. 
La tua croce, anche se durasse tutta la vita, è sempre “collocazione provvisoria”. Il Calvario, dove essa è piantata, non è zona residenziale. E il terreno di questa collina, dove si consuma la tua sofferenza, non si venderà mai come suolo edificatorio.
Anche il Vangelo ci invita a considerare la provvisorietà della croce.
C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato al momento della morte di Cristo. “Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra”. Forse è la frase più scura di tutta la Bibbia. Per me è una delle più luminose. Proprio per quelle riduzioni di orario che stringono, come due paletti invalicabili, il tempo in cui è concesso al buio di infierire sulla terra.
Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane. Ecco le saracinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra. Ecco le barriere entro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo.

Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio. Solo allora è consentita la sosta sul Golgota. Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio. Dopo tre ore, ci sarà la rimozione forzata di tutte le croci. Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio.

Coraggio, fratello che soffri. Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio. Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.


Settimana Santa: sabato. Con Maria in attesa della Risurrezione

Settimana Santa: sabato. 

Con Maria in attesa della Risurrezione

Nel giorno del silenzio e della meditazione, in cui non si celebra il sacrificio eucaristico, lo sguardo va alla fede e al coraggio della Madre dolorosa. E Paul Claudel.


“La Crocifissione” del pittore tedesco Matthias Grünewald costituisce uno dei pannelli centrali dell’Altare di Isenheim conservato nel Musée d’Unterlinden a Colmar. È datato tra il 1512 e il 1516. Maria è raffigurata con il velo e una veste bianca.

Sabato Santo è il giorno del silenzio, della preghiera, del raccoglimento. E dell’attesa, in preparazione alla grande Veglia in cui si celebra la Risurrezione di Cristo. È aliturgico, cioè privo di celebrazioni del sacrificio eucaristico prima della gioia della Domenica di Pasqua. Ma rappresenta anche, per eccellenza, il giorno di Maria. Si ricorda il suo legame indissolubile con il Figlio, il suo dolore di Madre che però non ne offusca la fede incrollabile, non ne fiacca la speranza. La Vergine del Sabato Santo rimane salda nell’ora del dubbio, non fugge di fronte al buio, sa e testimonia che Dio non tradisce le sue promesse. Per dirla con san Paolo nella Lettera ai Romani, mostra che «la speranza non delude» (Rm 5,5).

Da Jacopone da Todi a Paul Claudel
L’immagine di Maria ai piedi della croce, il suo dolore di Madre davanti alla devastante sofferenza del Figlio ha ispirato poeti e artisti. Basti pensare allo Stabat Mater attribuito al beato Jacopone da Todi. Il drammaturgo e diplomatico francese Paul Claudel (1868-1955) noto soprattutto per “L’annuncio a Maria”, nella sua ispirata e poetica “Via Crucis” racconta così il dolore di Maria davanti alla Passione del Signore: «(....) Ella accetta. Accetta, ancora una volta. Il grido strozzato in gola, l’urlo è contenuto nel cuore forte e torchiato. Ella non dice parola e guarda Gesù: la Madre guarda il Figlio, la Chiesa il Redentore. La sua anima si slancia a lui con violenza, come il grido di un soldato morente. Sta ritta davanti a Dio e gli dà a leggere la sua anima, aperta come un libro. Non c’è nulla nel suo cuore che si rifiuti o s’arrenda. Neppure una fibra, nel suo cuore trafitto, che non accetti e consenta. Come Dio stesso che è là, ella è presente. Ella accetta e guarda il Figlio che ha concepito nelle sue viscere. Non dice nulla e adora il Santo dei Santi (....)».



"I segni della passione sul viso rigato di sangue" di Enzo Bianchi

"I segni della passione sul viso rigato di sangue" 
di Enzo Bianchi


Giuseppe Sanmartino, Cristo velato, 1573,
Cappella San Severo, Napoli
Se c'è un dato storico innegabile riguardo alla Sindone è che in essa generazioni di cristiani vi hanno ravvisato una icona venerabile e capace di raccontare il santo volto di Gesù nella sua passione e morte. In quel sudario è dato di cogliere un legame inscindibile con la vicenda umana di Gesù di Nazareth ma anche con la fede in lui come Figlio di Dio, cioè con il suo essere, secondo l'antichissima definizione del Credo, «Vero Dio e vero uomo».

Del resto, gli evangelisti hanno prestato particolare attenzione al volto di Gesù nel raccontare la sua passione. Come sempre, Gesù cercava che il suo volto fosse espressione di tutta la sua vita di Figlio, e per questo Luca annota che «nel compiersi dei giorni della sua assunzione, Gesù indurì il suo volto per andare a Gerusalemme» (Lc 9,51). La sua è una decisione senza possibile ritorno e pentimento, un cammino verso una meta precisa, «l'esodo che si doveva compiere a Gerusalemme» (Le 9,31). Quel volto orientato, duro, era così visibilmente eloquente che i samaritani, comprendendo che Gesù andava a Gerusalemme, non vollero accoglierlo (cf. Lc 9,53).
Il volto di Gesù era indurito in vista della passione che lo attendeva. Ed ecco che nella passione il suo volto cade a terra (cf. Mt 26,39) quando egli è prostrato e, dalla preghiera ardente, passa a un venir meno, a non reggersi più in piedi. Inizia con la sfigurazione del suo volto e di tutta la sua persona.

Gli evangelisti sono molto precisi: tristezza, spavento, angoscia sono l'inizio della sua passione del Getsemani, l'inizio del suo incamminarsi verso la morte, vera agonia nella quale «il sudore del suo volto diventò gocce di sangue che scendevano fino a terra» (Lc 22,44): un volto sempre più difficile da sopportare, da vedere. E dopo la cattura e l'interrogatorio da parte del sommo sacerdote, conclusosi con il verdetto: "È reo di morte!" (Mt 26,66), il suo volto è coperto da un velo, schiaffeggiato, sputacchiato, percosso, per poter essere deriso: se Gesù è un profeta, saprà dire chi lo ha percosso, saprà indovinare chi gli ha sputato sul volto. Così Gesù, con il volto coperto e torturato, non ha più volto: è aprosopos, senza volto, come gli schiavi, è res, cosa, nelle mani dei violenti e dei suoi nemici.

Chi lo vedeva restava senza parole: incredibile ciò che vedeva, un evento mai raccontato, mai udito... Un uomo senza volto né bellezza, un volto che non attira i nostri sguardi, che non seduce ma anzi chiede che davanti a esso, così sfigurato, ci si copra la faccia; disprezzato, percosso, umiliato, non apre la bocca, come agnello afono che va verso l'uccisione. Quell'uomo Gesù nella sua passione è la realizzazione, l'incarnazione dell'anonimo Servo del Signore tratteggiato dal profeta Isaia.
"Ecce homo!" (Gv19,5), dirà Pilato presentandolo alla folla, dunque dichiarando oggettivamente - al di là di ogni sua comprensione - che Gesù è l'uomo per eccellenza, l'uomo di cui Dio si compiace perché vive l'amore simultaneamente all'inimicizia e alla violenza patite, vive la non-violenza e il silenzio simultaneamente alla bestemmia e al grido che lo portano alla morte. È l'uomo povero, senza volto, dunque schiavo, l'uomo vittima nella storia di ogni potere. «Ecce Deus!», potrebbe dire chi legge con fede la profezia di Isaia compiutasi nella passione di Gesù. Ecco il Dio che si è svuotato, «annientato», per usare il linguaggio paolino dell'inno inserito nella Lettera ai Filippesi.

Ecco Dio nell'uomo senza volto: il non volto dei non volti, un affamato, un assetato, un malato, un perseguitato, un prigioniero, uno straniero che sta davanti a noi, e noi dobbiamo decidere il rapporto con lui; e decidendo il rapporto con lui, vittima, lo decidiamo con Cristo stesso: «Avevo fame, ... avevo sete, ero malato, ... ero in carcere » (cf. Mt 25,81-46).
Questo sfiguramento è il polo contrario della trasfigurazione: là bellezza qui bruttezza, là splendore qui umiliazione, là gloria qui svuotamento.
Gesù è ormai diventato preghiera, e il suo volto insanguinato, incoronato di spine, sputacchiato, tumefatto dai colpi, ora sulla croce è pronto a emettere l'ultimo sospiro, a entrare nella morte. Volto che sarà ancora velato nella tomba dal sudario, dal lenzuolo, dalle bende, in attesa che il volto di Dio si illumini e lo faccia rialzare dalla morte...

Così il volto umano di Gesù, quel volto ricevuto da sua madre Maria e dalla potenza dello Spirito santo, quel volto contemplato fin dalla nascita a Betlemme, ora conosce anche la morte, la fine. Un volto che nessun uomo vedrà più dopo quel giorno, il 7 aprile dell'anno 30, giorno di morte e sepoltura di Gesù; volto consegnato alla terra, come avviene per ogni uomo. Ma nell'alba del terzo giorno ecco il Risorto presentarsi ancora con un volto, ma non più il volto fisico che prima tutti i testimoni avevano conosciuto. Ora è un volto di gloria, un volto spirituale, con tratti diversi, e i discepoli faticano a riconoscerlo: volto di un viandante a Emmaus (cf. Lc 24,13-35), volto di un giardiniere per la Maddalena (cf. Gv 20,11-18), volto di un pescatore sul lago di Tiberiade (cf. Gv 21,1-14). Il volto glorificato è plurale, esprime vari volti pur essendo il volto di Gesù di Nazareth e di nessun altro: come nella trasfigurazione anche nella resurrezione il suo volto «diventò altro» (Lc 9,29).

E così quel volto è tornato a essere invocato e desiderato come volto dell'amato, del Signore vivente. Non ci sono tracce del volto di Gesù di Nazareth, nessun ritratto, ma in questo desiderio di vederlo sono apparsi segni di quel volto: nel velo di una donna che, incontrando Gesù sulla via della croce e volendo asciugare il suo viso, vide su quel velo l'impronta del volto di Gesù: vera icona-Veronica, vera immagine ed effigie di Gesù; nei dipinti di ogni epoca che hanno cercato la vera imago da offrire ai cristiani per la contemplazione; e, in modo unico e umanamente enigmatico, nella Sindone, autentica testimonianza della fede di chi ogni giorno ripete: Il tuo volto, Signore, io cerco. Non nascondermi il tuo volto!».


Papa Francesco alla Via Crucis: Signore donaci vergogna, pentimento e speranza - Preghiera conclusiva (Testo e video)

Papa Francesco alla Via Crucis al Colosseo: 

Signore 
donaci vergogna, 
pentimento 
e speranza 
Preghiera conclusiva
 (Testo e video)

Venerdì Santo, 30 marzo 2018

Signore Gesù, il nostro sguardo è rivolto a te, pieno di vergogna, di pentimento e di speranza.

Dinanzi al tuo supremo amore ci pervada la vergogna per averti lasciato solo a soffrire per i nostri peccati:la vergogna per essere scappati dinanzi alla prova pur avendoti detto migliaia di volte: 
“anche se tutti ti lasciano, io non ti lascerò mai”;

la vergogna di aver scelto Barabba e non te, il potere e non te, l’apparenza e non te, il dio denaro e non te, la mondanità e non l’eternità;

la vergogna per averti tentato con la bocca e con il cuore, ogni volta che ci siamo trovati davanti a una prova, dicendoti: “se tu sei il messia, salvati e noi crederemo!”;

la vergogna perché tante persone, e perfino alcuni tuoi ministri, si sono lasciati ingannare dall’ambizione e dalla vana gloria perdendo la loro degnità e il loro primo amore;

la vergogna perché le nostre generazioni stanno lasciando ai giovani un mondo fratturato dalle divisioni e dalle guerre; un mondo divorato dall’egoismo ove i giovani, i piccoli, i malati, gli anziani sono emarginati;

la vergogna di aver perso la vergogna;

Signore Gesù, dacci sempre la grazia della santa vergogna!

Il nostro sguardo è pieno anche di un pentimento che dinanzi al tuo silenzio eloquente supplica la tua misericordia:

il pentimento che germoglia dalla certezza che solo tu puoi salvarci dal male, solo tu puoi guarirci dalla nostra lebbra di odio, di egoismo, di superbia, di avidità, di vendetta, di cupidigia, di idolatria, solo tu puoi riabbracciarci ridonandoci la dignità filiale e gioire per il nostro rientro a casa, alla vita;

il pentimento che sboccia dal sentire la nostra piccolezza, il nostro nulla, la nostra vanità e che si lascia accarezzare dal tuo invito soave e potente alla conversione;

il pentimento di Davide che dall’abisso della sua miseria ritrova in te la sua unica forza;

il pentimento che nasce dalla nostra vergogna, che nasce dalla certezza che il nostro cuore resterà sempre inquieto finché non trovi te e in te la sua unica fonte di pienezza e di quiete;

il pentimento di Pietro che incontrando il tuo sguardo pianse amaramente per averti negato dinanzi agli uomini.

Signore Gesù, dacci sempre la grazia del santo pentimento!


Dinanzi alla tua suprema maestà si accende, nella tenebrosità della nostra disperazione, la scintilla della speranza perché sappiamo che la tua unica misura di amarci è quella di amarci senza misura;

la speranza perché il tuo messaggio continua a ispirare, ancora oggi, tante persone e popoli a che solo il bene può sconfiggere il male e la cattiveria, solo il perdono può abbattere il rancore e la vendetta, solo l’abbraccio fraterno può disperdere l’ostilità e la paura dell’altro;

la speranza perché il tuo sacrificio continua, ancora oggi, a emanare il profumo dell’amore divino che accarezza i cuori di tanti giovani che continuano a consacrarti le loro vite divenendo esempi vivi di carità e di gratuità in questo nostro mondo divorato dalla logica del profitto e del facile guadagno;

la speranza perché tanti missionari e missionarie continuano, ancora oggi, a sfidare l’addormentata coscienza dell’umanità rischiando la vita per servire te nei poveri, negli scartati, negli immigrati, negli invisibili, negli sfruttati, negli affamati e nei carcerati;

la speranza perché la tua Chiesa, santa e fatta da peccatori, continua, ancora oggi, nonostante tutti i tentativi di screditarla, a essere una luce che illumina, incoraggia, solleva e testimonia il tuo amore illimitato per l’umanità, un modello di altruismo, un’arca di salvezza e una fonte di certezza e di verità;

la speranza perché dalla tua croce, frutto dell’avidità e codardia di tanti dottori della Legge e ipocriti, è scaturita la Risurrezione trasformando le tenebre della tomba nel fulgore dell’alba della Domenica senza tramonto, insegnandoci che il tuo amore è la nostra speranza.

Signore Gesù, dacci sempre la grazia della santa speranza!

Aiutaci, Figlio dell’uomo, a spogliarci dall’arroganza del ladrone posto alla tua sinistra e dei miopi e dei corrotti, che hanno visto in te un’opportunità da sfruttare, un condannato da criticare, uno sconfitto da deridere, un’altra occasione per addossare sugli altri, e perfino su Dio, le proprie colpe.

Ti chiediamo invece, Figlio di Dio, di immedesimarci col buon ladrone che ti ha guardato con occhi pieni di vergogna, di pentimento e di speranza; che, con gli occhi della fede, ha visto nella tua apparente sconfitta la divina vittoria e così si è inginocchiato dinanzi alla tua misericordia e con onestà ha derubato il paradiso! Amen!

GUARDA IL VIDEO
Preghiera integrale

Guarda anche i post già pubblicati:
Via Crucis: Testi per il Venerdì Santo affidati a un gruppo di 15 giovani coordinato dal professore Andrea Monda

- "Ti vedo, Gesù": le voci dei giovani autori della Via Crucis al Colosseo

venerdì 30 marzo 2018

"Ti vedo, Gesù": le voci dei giovani autori della Via Crucis al Colosseo

"Ti vedo, Gesù":
le voci dei giovani autori della Via Crucis al Colosseo


Questa sera alle 21.15 rivivremo la Passione di Gesù con la Via Crucis del Colosseo aiutati dalle loro meditazioni. Sono quattro studentesse del liceo classico Pilo Albertelli di Roma, che porteranno anche la croce insieme agli altri 11 giovani autori, dai 16 ai 26 anni, coordinati dal loro prof. di religione, Andrea Monda. Greta, terza liceo: in Gesù senza vesti vedo i migranti che perdono tutto e poi vengono spogliati anche della dignità.


Questa sera dalle 21.15, Papa Francesco, i fedeli radunati al Colosseo, e milioni di telespettatori collegati in mondovisione rivivranno la Passione di Cristo aiutati dalle loro meditazioni sulle 14 stazioni della via Crucis. Sono quindici giovani studenti tra i 16 ai 26 anni, scelti e coordinati dal loro professore di religione, Andrea Monda, giornalista e scrittore. A due a due porteranno anche la croce in sette stazioni, mentre nella dodicesima i cruciferi saranno Monda, la moglie Elvira e il figlio Dante, autore della meditazione della stessa stazione. Siamo entrati nel liceo classico Pilo Albertelli di Roma, dove insegna il professor Monda e studia o ha studiato la maggior parte degli autori, e abbiamo parlato con quattro di loro, quattro ragazze di terza liceo che si preparano alla maturità.

Cecilia Nardini, che ha scritto la meditazione della sesta stazione, “Veronica asciuga il volto di Gesù”, e che porterà la croce nella quinta, ci dice che la donna sul Golgota non fa caso al volto sformato di Cristo ma lo aiuta, mentre nel mondo d’oggi le apparenze sono quelle che ci fanno giudicare una persona. Sofia Russo, la compagna che ha meditato sull’incontro di Gesù con le donne, dell’ottava stazione, e che sarà crucifera nella sesta insieme a Francesco Porceddu, autore della settima, racconta che non le piace la poca chiarezza che c’è anche tra “noi ragazzi, mentre mi colpisce come Gesù ammonisce le donne non per giudicare, ma per riportarle sulla retta via”.


Abbiamo poi parlato con Greta Giglio, che ha riflettuto sulla decima stazione e su Gesù che viene spogliato delle vesti prima della crocifissione, e porterà la croce nell'ottava. In Gesù privato di tutto, anche delle vesti, ci dice, vedo le persone che vengono qui da noi, “spesso private della loro casa e di tutti i loro beni, e quando arrivano qui, anche della dignità”. Infine a Greta Sandri, che ha meditato su Gesù inchiodato alla Croce, undicesima stazione, e vedremo crucifera nella nona, abbiamo chiesto cosa avrebbe fatto se veramente fosse stata a Gerusalemme quel giorno. “Condizionata dalla folla – confida – penso che anch’io lo avrei condannato, per poi pentirmene. Non avrei forse trovato la forza di vedere subito la verità”.


Alla fine abbiamo parlato anche con Andrea Monda, che ha coordinato il lavoro dei 15 autori, dodici ragazze e tre ragazzi. “Sono soli in un mondo che li bombarda di messaggi e immagini – ci dice – e hanno bisogno di adulti credibili, che sappiano ascoltarli ma permettano anche a loro di esprimersi”.

(fonte: Vatican News)

Giovedì Santo - Papa Francesco Messa in Coena Domini al Regina Coeli: "Gesù viene a servirci... rischia su ognuno di noi... non ci abbandona mai; non si stanca mai di perdonarci. Ci ama tanto... Una pena che non sia aperta alla speranza non è cristiana, non è umana!"

 Giovedì Santo 

Dopo la Messa del Crisma in Vaticano, papa Francesco ha celebrato con i detenuti dello storico carcere romano di Regina Coeli la Messa in Coena Domini del Giovedì Santo.

La visita di Papa Francesco a Regina Coeli ha avuto un carattere strettamente privato. Non c’è stata diretta televisiva e la Radio Vaticana si è limitata a trasmettere in diretta la lettura del Vangelo di Giovanni e l’omelia del Pontefice e le sue parole finali, nonché le accorate e commosse parole di ringraziamento della direttrice Silvana Sergi e il «grazie, grazie, grazie» di un detenuto, Alessandro. 



SANTA MESSA IN COENA DOMINI
Casa Circondariale “Regina Coeli” in Roma
Giovedì Santo, 29 marzo 2018






 OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO


Gesù finisce il suo discorso dicendo: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Lavare i piedi. I piedi, in quel tempo, erano lavati dagli schiavi: era un compito da schiavo. La gente percorreva la strada, non c’era l’asfalto, non c’erano i sampietrini; in quel tempo c’era la polvere della strada e la gente si sporcava i piedi. E all’entrata della casa c’erano gli schiavi che lavavano i piedi. Era un lavoro da schiavi. Ma era un servizio: un servizio fatto da schiavi. E Gesù volle fare questo servizio, per darci un esempio di come noi dobbiamo servirci gli uni gli altri.

Una volta, quando erano in cammino, due dei discepoli che volevano fare carriera, avevano chiesto a Gesù di occupare dei posti importanti, uno alla sua destra e l’altro alla sinistra (cfr Mc 10,35-45). E Gesù li ha guardati con amore – Gesù guardava sempre con amore – e ha detto: “Voi non sapete ciò che domandate” (v. 38). I capi delle Nazioni – dice Gesù – comandano, si fanno servire, e loro stanno bene (cfr v.42). Pensiamo a quell’epoca dei re, degli imperatori tanto crudeli, che si facevano servire dagli schiavi … Ma fra voi – dice Gesù – non deve essere lo stesso: chi comanda deve servire. Il capo vostro deve essere il vostro servitore (cfr. v.43). Gesù capovolge l’abitudine storica, culturale di quell’epoca – anche questa di oggi – colui che comanda, per essere un bravo capo, sia dove sia, deve servire. Io penso tante volte – non a questo tempo perché ognuno ancora è vivo e ha l’opportunità di cambiare vita e non possiamo giudicare, ma pensiamo alla storia – se tanti re, imperatori, capi di Stato avessero capito questo insegnamento di Gesù e invece di comandare, di essere crudeli, di uccidere la gente avessero fatto questo, quante guerre non sarebbero state fatte! Il servizio: davvero c’è gente che non facilita questo atteggiamento, gente superba, gente odiosa, gente che forse ci augura del male; ma noi siamo chiamati a servirli di più. E anche c’è gente che soffre, che è scartata dalla società, almeno per un periodo, e Gesù va lì a dir loro: Tu sei importante per me. Gesù viene a servirci, e il segnale che Gesù ci serve oggi qui, al carcere di Regina Coeli, è che ha voluto scegliere 12 di voi, come i 12 apostoli, per lavare i piedi. Gesù rischia su ognuno di noi. Sappiate questo: Gesù si chiama Gesù, non si chiama Ponzio Pilato. Gesù non sa lavarsi le mani: soltanto sa rischiare! Guardate questa immagine tanto bella: Gesù chinato tra le spine, rischiando di ferirsi per prendere la pecorella smarrita.

Oggi io, che sono peccatore come voi, ma rappresento Gesù, sono ambasciatore di Gesù. Oggi, quando io mi inchino davanti a ognuno di voi, pensate: “Gesù ha rischiato in quest’uomo, un peccatore, per venire da me e dirmi che mi ama”. Questo è il servizio, questo è Gesù: non ci abbandona mai; non si stanca mai di perdonarci. Ci ama tanto. Guardate come rischia, Gesù!

E così, con questi sentimenti, andiamo avanti con questa cerimonia che è simbolica. Prima di darci il suo corpo e il suo sangue, Gesù rischia per ognuno di noi, e rischia nel servizio perché ci ama tanto.


Al gesto dello scambio della pace, il Santo Padre ha pronunciato queste parole:

E adesso, tutti noi – sono sicuro che tutti noi – abbiamo la voglia di essere in pace con tutti. Ma nel nostro cuore ci sono tante volte sentimenti contrastanti. È facile essere in pace con coloro a cui vogliamo bene e con quanti ci fanno del bene; ma non è facile essere in pace con quelli che ci hanno fatto torto, che non ci vogliono bene, con i quali siamo in inimicizia. In silenzio, un attimo, ognuno pensi a coloro che ci vogliono bene e a cui noi vogliamo bene, e anche ognuno di noi pensi a coloro che non ci vogliono bene e anche a coloro a cui noi non vogliamo e anche – anzi – a coloro su cui noi vorremmo vendicarci. E chiediamo al Signore, in silenzio, la grazia di dare a tutti, buoni e cattivi, il dono della pace


Parole del Santo Padre in risposta al saluto della direttrice del penitenziario e di un detenuto, al termine della Visita alla casa circondariale di Regina Coeli.

Tu hai parlato di uno sguardo nuovo: rinnovare lo sguardo … Questo fa bene, perché alla mia età, per esempio, vengono le cateratte, e non si vede bene la realtà: l’anno prossimo dovremo fare l’intervento. Ma così succede con l’anima: il lavoro della vita, la stanchezza, gli sbagli, le delusioni oscurano lo sguardo, lo sguardo dell’anima. E per questo, quello che tu hai detto è vero: approfittare delle opportunità per rinnovare lo sguardo. E come ho detto in piazza S. Pietro [Udienza generale di ieri] in tanti paesini, ma anche nella mia terra, quando si sentono le campane della Resurrezione del Signore, le mamme, le nonne portano i bambini a lavarsi gli occhi perché abbiano lo sguardo della speranza del Cristo risorto. Non stancatevi mai di rinnovare lo sguardo. Di fare quell’intervento di cateratte all’anima, quotidiano. Ma sempre rinnovare lo sguardo. E’ un bello sforzo.

Tutti voi conoscete la bottiglia di vino a metà: se io guardo la metà vuota, è brutta la vita, è brutta, ma se guardo la metà piena, ancora ho da bere. Lo sguardo che apre alla speranza, parola che tu hai detto e anche lei [la direttrice] ha detto; e lei l’ha ripetuta parecchie volte. Non si può concepire una casa circondariale come questa senza speranza. Qui, gli ospiti sono per imparare o fare crescere il “seminare speranza”: non c’è alcuna pena giusta – giusta! – senza che sia aperta alla speranza. Una pena che non sia aperta alla speranza non è cristiana, non è umana!

Ci sono le difficoltà nella vita, le cose brutte, la tristezza – uno pensa ai suoi, pensa alla mamma, al papà, alla moglie, al marito, ai figli … è brutta, quella tristezza. Ma non lasciarsi andare giù: no, no. Io sono qui, ma per reinserirmi, rinnovato o rinnovata. E questa è la speranza. Seminare speranza. Sempre, sempre. Il vostro lavoro è questo: aiutare a seminare la speranza di reinserimento, e questo ci farà bene a tutti. Sempre. Ogni pena dev’essere aperta all’orizzonte della speranza. Per questo, non è né umana né cristiana la pena di morte. Ogni pena dev’essere aperta alla speranza, al reinserimento, anche per dare l’esperienza vissuta per il bene delle altre persone.

Acqua di resurrezione, sguardo nuovo, speranza: questo vi auguro. So che voi ospiti avete lavorato tanto per preparare questa visita, anche imbiancare le pareti: vi ringrazio. È per me un segnale di benevolenza e di accoglienza, e vi ringrazio tanto. Vi sono vicino, prego per voi, e voi pregate per me e non dimenticatevi: l’acqua che fa lo sguardo nuovo, e la speranza.

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La Settimana Santa: venerdì. Sant'Agostino, la croce e la fuga dalla Risurrezione


La Settimana Santa: venerdì. 

Sant'Agostino, la croce e la fuga dalla Risurrezione

Venerdì Santo richiama il buio, la sofferenza, la morte. È il giorno dello sguardo fisso sulla croce, da contemplare pensando alla Pasqua. L’insegnamento di sant’Agostino, la pittura di Paolo Uccello


La Crocifissione è un dipinto a tempera su tavola di Paolo Uccello, conservato nel Museo Thyssen-Bornemisza a Madrid. La datazione è controversa, ma generalmente la si comprende tra il 1457 e il 1458.


Il Venerdì Santo è il giorno della croce, della passione e morte di Cristo, del suo estremo dono d’amore per la salvezza di ogni uomo. È il giorno del silenzio e della contemplazione, del digiuno e della preghiera. Non si celebra l’Eucaristia ma la Passione del Signore che, di consueto, si articola in tre momenti: Liturgia della Parola, adorazione della Croce, Comunione eucaristica con le ostie consacrate la sera prima durante la Messa in Coena Domini. Contemplando le terribile sofferenze patite da Gesù il cuore si riempie di commozione e gratitudine ma con lo sguardo e il cuore già proiettati sulla Pasqua. La croce infatti ha senso solo perché via alla Risurrezione. «Chi scappa dalla croce, scappa dalla risurrezione» ha sintetizzato mercoledì scorso il Papa.

Una verità da incidere nel cuore

Naturalmente la Passione del Signore ha interpellato santi e mistici di ogni tempo. Uniti, concordi nel ribadire che non esiste fede autentica senza croce. Scrive sant’Agostino: «Come vorrei, o miei fratelli, incidervi nel cuore questa verità! Se volete vivere un cristianesimo autentico, aderite profondamente al Cristo in ciò che egli si è fatto per noi, onde poter giungere a lui in ciò che è e che è sempre stato. È per questo che ci ha raggiunti, per farsi uomo per noi fino alla croce. Si è fatto uomo per noi, per poter così portare i deboli attraverso il mare di questo secolo e farli giungere in patria, dove non ci sarà più bisogno di nave, perché non ci sarà più alcun mare da attraversare. È meglio, quindi, non vedere con la mente ciò che egli è, e restare uniti alla croce di Cristo, piuttosto che vedere la divinità del Verbo e disprezzare la croce di Cristo. Meglio però di ogni cosa è riuscire, se possibile, a vedere dove si deve andare e tenersi stretti a colui che porta chi avanza».



La Pasqua politicamente scorretta della Veronica, avventuriera dell’amore più difficile


La Pasqua politicamente scorretta della Veronica,
avventuriera dell’amore più difficile
di Antonio Sanfrancesco

La scena si svolge a Gerusalemme nella tarda mattinata di un venerdì di primavera. C’è un condannato, il Figlio del carpentiere di Nazareth, che avanza scortato da quattro soldati armati di lance sotto la guida dell’exactor mortis, il centurione romano incaricato dell’esecuzione della condanna a morte. Un corteo vociante e rumoroso si affolla dietro quell’Uomo lungo la strada gerosolimitana che porta ancora oggi il nome di Via Dolorosa. Molti sono solo curiosi – arrivati magari apposta o capitati lì per caso – che non vogliono perdersi lo spettacolo che tra poche ore avrà il suo culmine su uno sperone roccioso della periferia della Città chiamato “Golgota”, in aramaico “cranio”, ribattezzato “Calvario” dai Romani.

Tra questa folla di curiosi, Luca inserisce anche un gruppo di «donne che si battevano il petto e facevano lamenti su Gesù» le quali, loro malgrado, incorrono in un severo richiamo: «Ma Gesù, voltatosi verso di loro, disse “Figlie di Gerusalemme, non piangete su di me, ma piangete su voi stesse e sui vostri figli! (…) Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e i seni che non hanno allattato! Perché, se si tratta così il legno verde, che avverrà del legno secco?”» (Lc, 23,27). Sono lamentatrici di professione, le prefiche ancora attive nell’Italia meridionale degli anni Cinquanta, che “si battevano il petto e facevano lamenti” in occasione dei riti funebri. Forse erano pie donne che assistevano per dovere d’ufficio i condannati a morte. Ecco che da questo corteo affollato e caotico, a un certo punto, si fa avanti una donna, Veronica, che la tradizione della Via Crucis colloca alla sesta stazione. I Vangeli canonici non ne fanno menzione. Veronica, sulla quale fioriranno innumerevoli leggende, compie un gesto tipicamente e profondamente femminile, un gesto di tenerezza che è immedesimazione con l’amato come solo le donne, certe donne, sanno fare.

Si fa avanti, probabilmente staccandosi dal resto del gruppo al quale forse nemmeno apparteneva, e con il suo velo avvolge il volto di Gesù piagato e sfigurato dal dolore e dalle sevizie. Lo asciuga, desiderando in qualche modo di imprimerlo nella propria carne. Veronica non prova paura o vergogna. O forse, il suo coraggio le supera entrambe e compie quel gesto di misericordia davanti a tutti, quando non era certo politicamente corretto mostrarsi compassionevole nei confronti del condannato. Non fino a quel punto, almeno. Non poteva essere, quello di Veronica, un gesto burocratico perché accanto a Gesù c’erano già tantissime donne a inscenare un compianto di routine. Né buone, né cattive, in fondo, ma solo esecutrici di un compito loro assegnato. Veronica no, vede e dopo aver visto prova compassione. Pochi istanti, un incontro fugace. S’avvicina a quel volto martoriato e asciuga «la comune polvere, la polvere di tutti, la polvere della sua faccia; incollata dal sudore» (Charles Péguy).

Non abbiamo bisogno di sapere se Veronica, storicamente, sia davvero esistita. Sarebbe acribia di quegli esegeti che non siamo.

Veronica esiste nel gesto docile e amorevole che fortunatamente non è mai venuto meno, in ogni epoca e sotto ogni cielo, compiuto da donne straordinariamente coraggiose come lei che vanno dove tutti scappano, che incontrano persone che tutti evitano e vorrebbero evitare con un coraggio che le rende sante senza che loro stesse lo sappiano e lo vogliano. Sono fiere corsare dell’amore più difficile, dell’amore che richiede spirito libero e capacità di immedesimarsi, di farsi avanti tra i risolini di scherno e le beffe di chi dice che certi posti di reietti e disperati sarebbe meglio non frequentarli e non avere nulla a che fare con questi brutti ceffi.

L’amore di Veronica è femminilmente impavido. È un amore che non ha paura del giudizio degli altri e scende in strada, si mescola alla vita più cruda e spietata, è nei lebbrosari africani, è nell’ospizio in Yemen dove le suore di Madre Teresa sono state trucidate dai terroristi mentre assistevano gli anziani, è sui marciapiedi e nei ghetti delle grandi città in cui i padri vendono figlie bambine alla violenza e alla prostituzione, è nelle carceri dove innumerevoli veroniche, ogni giorno, s’interessano ai colpevoli e ai carnefici a costo di rovinarsi la reputazione, s’impantana negli spazi fangosi dei campi rom, è nel campo di Idomeni dove vivono ammassati nella melma i rifugiati che l’Europa non vuole, è nei tavoli delle mense dove ogni giorno vengono sfamati tanti affamati, è negli orfanotrofi dei bimbi soli e abbandonati.

«Il picaresco coraggio di queste donne», ha scritto Claudio Magris, «è pervaso di una forte carnalità, di un senso concreto del vivere che talora manca agli uomini e li rende spesso più codardi; pure sul Golgota e presso il santo sepolcro sono state le donne a seguire Gesù, mentre altri sono scappati».

Nella Veronica, che probabilmente non era della cerchia dei discepoli di quel Predicatore ambulante condannato al supplizio infamante degli schiavi, si rispecchiano tutte quelle donne, ardimentose e impavide, religiose e laiche, che hanno incontrato Cristo nell’uomo e nelle ferite inferte agli uomini. Ogni giorno compiono quel gesto che fu di quella donna anonima lungo la Via Crucis: fare un passo avanti e mettersi faccia a faccia con l’abisso di dolore, assurdità e ingiustizia del mondo.

(fonte: Il Libraio)


giovedì 29 marzo 2018

Giovedì Santo - Papa Francesco Messa del Crisma: "Gesù ha voluto essere un “evangelizzatore”, un predicatore di strada, il «Messaggero di buone notizie»... (i sacerdoti devono essere) Preti vicini, che ci sono, che parlano con tutti… Preti di strada."

 Giovedì Santo 

Il Papa nella messa crismale presieduta oggi nella basilica di San Pietro, nel corso della quale i sacerdoti rinnovano le promesse fatte al momento della loro ordinazione e ha luogo la benedizione dell’olio degli infermi, dell’olio dei catecumeni e del crisma, nell'omelia, si rivolge, come di consueto, al clero della diocesi di Roma e delle altre diocesi del mondo per tracciare l’identikit del sacerdote.


SANTA MESSA DEL CRISMA
Basilica Vaticana
Giovedì Santo, 29 marzo 2018







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OMELIA

Cari fratelli, sacerdoti della diocesi di Roma e delle altre diocesi del mondo!

Leggendo i testi della liturgia di oggi mi veniva alla mente, con insistenza, il passo del Deuteronomio che dice: «Infatti quale grande nazione ha gli dei così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (4,7). La vicinanza di Dio… la nostra vicinanza apostolica.

Nel testo del profeta Isaia contempliamo l’inviato di Dio già “unto e mandato”, in mezzo al suo popolo, vicino ai poveri, ai malati, ai prigionieri…; e lo Spirito che “è su di Lui”, che lo spinge e lo accompagna lungo il cammino.

Nel Salmo 88 vediamo come la compagnia di Dio, che fin dalla giovinezza ha guidato per mano il re Davide e gli ha prestato il suo braccio, adesso che è anziano prende il nome di fedeltà: la vicinanza mantenuta nel corso del tempo si chiama fedeltà.

L’Apocalisse ci fa avvicinare, fino a rendercelo visibile, all’«Erchomenos», al Signore in persona che sempre «viene», sempre. L’allusione al fatto che lo vedranno «anche quelli che lo trafissero» ci fa sentire che sono sempre visibili le piaghe del Signore risorto, che il Signore ci viene sempre incontro se noi vogliamo “farci prossimi” alla carne di tutti coloro che soffrono, specialmente dei bambini.

Nell’immagine centrale del Vangelo di oggi, contempliamo il Signore attraverso gli occhi dei suoi compaesani che erano «fissi su di Lui» (Lc 4,20). Gesù si alzò per leggere nella sinagoga di Nazaret. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia. Lo srotolò finché trovò il passo dell’inviato di Dio. Lesse ad alta voce: «Lo spirito del Signore è su di me […], mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato…» (61,1). E concluse stabilendo la vicinanza così provocatrice di quelle parole: «Oggi si è compiuta questa scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21).

Gesù trova il passo e legge con la competenza degli scribi. Egli avrebbe potuto perfettamente essere uno scriba o un dottore della legge, ma ha voluto essere un “evangelizzatore”, un predicatore di strada, il «Messaggero di buone notizie» per il suo popolo, il predicatore i cui piedi sono belli, come dice Isaia (cfr 52,7). Il predicatore è vicino.

Questa è la grande scelta di Dio: il Signore ha scelto di essere uno che sta vicino al suo popolo. Trent’anni di vita nascosta! Solo dopo comincerà a predicare. E’ la pedagogia dell’incarnazione, dell’inculturazione; non solo nelle culture lontane, anche nella propria parrocchia, nella nuova cultura dei giovani…

La vicinanza è più che il nome di una virtù particolare, è un atteggiamento che coinvolge tutta la persona, il suo modo di stabilire legami, di essere contemporaneamente in se stessa e attenta all’altro. Quando la gente dice di un sacerdote che “è vicino”, di solito fa risaltare due cose: la prima è che “c’è sempre” (contrario del “non c’è mai”: “Lo so, padre, che Lei è molto occupato” – dicono spesso). E l’altra cosa è che sa trovare una parola per ognuno. “Parla con tutti – dice la gente –: coi grandi, coi piccoli, coi poveri, con quelli che non credono… Preti vicini, che ci sono, che parlano con tutti… Preti di strada.

E uno che ha imparato bene da Gesù a essere predicatore di strada è stato Filippo. Dicono gli Atti che andava di luogo in luogo annunciando la Buona Notizia della Parola predicando in tutte le città, e che queste si riempivano di gioia (cfr 8,4-8). Filippo era uno di quelli che lo Spirito poteva “sequestrare” in qualsiasi momento e farli partire per evangelizzare, andando da un posto all’altro, uno capace anche di battezzare gente di buona fede, come il ministro della regina di Etiopia, e di farlo lì per lì, lungo la strada (cfr At8,5; 36-40).

La vicinanza, cari fratelli, è la chiave dell’evangelizzatore perché è un atteggiamento-chiave nel Vangelo (il Signore la usa per descrivere il Regno). Noi diamo per acquisito che la prossimità è la chiave della misericordia, perché la misericordia non sarebbe tale se non si ingegnasse sempre, come “buona samaritana”, per eliminare le distanze. Credo però che abbiamo bisogno di acquisire meglio il fatto che la vicinanza è anche la chiave della verità; non solo della misericordia, ma anche la chiave della verità. Si possono eliminare le distanze nella verità? Sì, si può. Infatti la verità non è solo la definizione che permette di nominare le situazioni e le cose tenendole a distanza con concetti e ragionamenti logici. Non è solo questo. La verità è anche fedeltà (emeth), quella che ti permette di nominare le persone col loro nome proprio, come le nomina il Signore, prima di classificarle o di definire “la loro situazione”. E qui, c’è questa abitudine – brutta, no? – della “cultura dell’aggettivo”: questo è così, questo è un tale, questo è un quale … No, questo è figlio di Dio. Poi, avrà le virtù o i difetti, ma la verità fedele della persona e non l’aggettivo fatto sostanza.

Bisogna stare attenti a non cadere nella tentazione di farsi idoli di alcune verità astratte. Sono idoli comodi, a portata di mano, che danno un certo prestigio e potere e sono difficili da riconoscere. Perché la “verità-idolo” si mimetizza, usa le parole evangeliche come un vestito, ma non permette che le si tocchi il cuore. E, ciò che è molto peggio, allontana la gente semplice dalla vicinanza risanatrice della Parola e dei Sacramenti di Gesù.

Su questo punto, rivolgiamoci a Maria, Madre dei sacerdoti. La possiamo invocare come “Madonna della Vicinanza”: «Come una vera madre, cammina con noi, combatte con noi, ed effonde incessantemente la vicinanza dell’amore di Dio» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 286), in modo tale che nessuno si senta escluso. La nostra Madre non solo è vicina per il suo mettersi al servizio con quella «premura» (ibid., 288) che è una forma di vicinanza, ma anche col suo modo di dire le cose. A Cana, la tempestività e il tono con cui dice ai servi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5), farà sì che quelle parole diventino il modello materno di ogni linguaggio ecclesiale. Ma, per dirle come lei, oltre a chiedere la grazia, bisogna saper stare lì dove si “cucinano” le cose importanti, quelle che contano per ogni cuore, ogni famiglia, ogni cultura. Solo in questa vicinanza – possiamo dire “di cucina” - si può discernere qual è il vino che manca e qual è quello di migliore qualità che il Signore vuole dare.

Vi suggerisco di meditare tre ambiti di vicinanza sacerdotale nei quali queste parole: “Fate tutto quello che Gesù vi dirà” devono risuonare – in mille modi diversi ma con un medesimo tono materno – nel cuore delle persone con cui parliamo: l’ambito dell’accompagnamento spirituale, quello della Confessione e quello della predicazione.

La vicinanza nel dialogo spirituale, la possiamo meditare contemplando l’incontro del Signore con la Samaritana. Il Signore le insegna a riconoscere prima di tutto come adorare, in Spirito e verità; poi, con delicatezza, la aiuta a dare un nome al suo peccato, senza offenderla; e infine il Signore si lascia contagiare dal suo spirito missionario e va con lei a evangelizzare nel suo villaggio. Modello di dialogo spirituale, questo del Signore, che sa far venire alla luce il peccato della Samaritana senza che getti ombra sulla sua preghiera di adoratrice né che ponga ostacoli alla sua vocazione missionaria.

La vicinanza nella Confessione la possiamo meditare contemplando il passo della donna adultera. Lì si vede chiaramente come la vicinanza è decisiva perché le verità di Gesù sempre avvicinano e si dicono (si possono dire sempre) a tu per tu. Guardare l’altro negli occhi – come il Signore quando si alza in piedi dopo essere stato in ginocchio vicino all’adultera che volevano lapidare e le dice: «Neanch’io ti condanno» (Gv 8,11) – non è andare contro la legge. E si può aggiungere: «D’ora in poi non peccare più» (ibid.) non con un tono che appartiene all’ambito giuridico della verità-definizione – il tono di chi deve determinare quali sono i condizionamenti della Misericordia divina – ma con un’espressione che si dice nell’ambito della verità-fedele, che permette al peccatore di guardare avanti e non indietro. Il tono giusto di questo «non peccare più» è quello del confessore che lo dice disposto a ripeterlo settanta volte sette.

Da ultimo, l’ambito della predicazione. Meditiamo su di esso pensando a coloro che sono lontani, e lo facciamo ascoltando la prima predica di Pietro, che si colloca nel contesto dell’avvenimento di Pentecoste. Pietro annuncia che la parola è «per tutti quelli che sono lontani» (At 2,39), e predica in modo tale che il kerygma “trafigge il loro cuore” e li porta a domandare: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). Domanda che, come dicevamo, dobbiamo fare e alla quale dobbiamo rispondere sempre in tono mariano, ecclesiale. L’omelia è la pietra di paragone «per valutare la vicinanza e la capacità di incontro di un Pastore con il suo popolo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 135). Nell’omelia si vede quanto vicini siamo stati a Dio nella preghiera e quanto vicini siamo alla nostra gente nella sua vita quotidiana.

La buona notizia si attua quando queste due vicinanze si alimentano e si curano a vicenda. Se ti senti lontano da Dio, ma per favore, avvicinati al suo popolo, che ti guarirà dalle ideologie che ti hanno intiepidito il fervore. I piccoli ti insegneranno a guardare Gesù in un modo diverso. Ai loro occhi, la Persona di Gesù è affascinante, il suo buon esempio dà autorità morale, i suoi insegnamenti servono per la vita. E se tu, ti senti lontano dalla gente, avvicinati al Signore, alla sua Parola: nel Vangelo Gesù ti insegnerà il suo modo di guardare la gente, quanto vale ai suoi occhi ognuno di coloro per i quali ha versato il suo sangue sulla croce. Nella vicinanza con Dio, la Parola si farà carne in te e diventerai un prete vicino ad ogni carne. Nella vicinanza con il popolo di Dio, la sua carne dolorosa diventerà parola nel tuo cuore e avrai di che parlare con Dio, diventerai un prete intercessore.

Il sacerdote vicino, che cammina in mezzo alla sua gente con vicinanza e tenerezza di buon pastore (e, nella sua pastorale, a volte sta davanti, a volte in mezzo e a volte indietro), la gente non solo lo apprezza molto, va oltre: sente per lui qualcosa di speciale, qualcosa che sente soltanto alla presenza di Gesù. Perciò non è una cosa in più questo riconoscere la nostra vicinanza. In essa ci giochiamo se Gesù sarà reso presente nella vita dell’umanità, oppure se rimarrà sul piano delle idee, chiuso in caratteri a stampatello, incarnato tutt’al più in qualche buona abitudine che poco alla volta diventa routine.

Cari fratelli sacerdoti, chiediamo a Maria, “Madonna della Vicinanza”, che ci avvicini tra di noi e, al momento di dire alla nostra gente di “fare tutto quello che Gesù dice”, ci unifichi il tono, perché nella diversità delle nostre opinioni si renda presente la sua vicinanza materna, quella che col suo “sì” ci ha avvicinato a Gesù per sempre.

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La Settimana Santa: giovedì. Don Tonino Bello e la Chiesa del grembiule

La Settimana Santa: giovedì.

Don Tonino Bello e la Chiesa del grembiule

La Messa “Nella Cena del Signore” ci ripropone il gesto umile della lavanda dei piedi, simbolo di una Chiesa che si fa servizio. Il commento di don Tonino Bello, la raffigurazione di Pietro Lorenzetti



L’umile servizio di Gesù ai discepoli ha sollecitato molti pittori. Nell’immagine il dipinto “Lavanda dei piedi” di Pietro Lorenzetti. Si tratta di un affresco che fa parte delle Storie della Passione di Cristo nel transetto sinistro della Basilica inferiore di San Francesco ad Assisi. Il ciclo è databile 1310-1319.

Nella Messa “in Coena Domini” del Giovedì Santo che apre il Triduo Pasquale, il Vangelo (Giovanni 13, 1-15) descrive Gesù nell’umile gesto di lavare i piedi ai suoi discepoli. «(...) Gesù sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: “Signore, tu lavi i piedi a me?”. Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». Gli disse Pietro: “Tu non mi laverai i piedi in eterno!”. Gli rispose Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me”. Gli disse Simon Pietro: “Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!” Soggiunse Gesù: “Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti” Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: “Non tutti siete puri”...».
Gli uni i piedi degli altri

Si tratta certamente di uno dei passi più noti del Vangelo. Nel segno di quella Chiesa del servizio, “del grembiule”, richiamata da tanti maestri dello spirito, e indicata come dovere d’amore da papa Francesco. Nello scritto “Gli uni i piedi degli altri” don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta cui il 20 aprile nel 25° della morte il Pontefice renderà omaggio, sottolinea: «(...) Brocca, catino e asciugatoio devono divenire arredi da risistemare al centro di ogni esperienza comunitaria. Con la speranza che non rimangano suppellettili semplicemente ornamentali. Che cosa significa tutto questo per noi? Che, ad esempio, un sacerdote difficilmente potrà essere portatore di annunci credibili se, nell’ambito del presbiterio, non è disposto a lavare i piedi di tutti gli altri, e a lasciarsi lavare i suoi da ognuno dei confratelli.... Non si tratta di essere mondi, cioè puri. Anche gli apostoli dell’ultima cena lo erano: “voi siete mondi” aveva detto Gesù. Il problema è essere servi. Perché gli uomini accettano il messaggio di Cristo, non tanto da chi ha sperimentato l’ascetica della purezza, quanto da chi ha vissuto le tribolazioni del servizio ....»).