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venerdì 19 gennaio 2018

VIAGGIO APOSTOLICO DI PAPA FRANCESCO IN CILE E PERÙ 15-22 GENNAIO 2018 / 6 - Santa Messa nell’Aeroporto di Maquehue "La violenza finisce per rendere falsa la causa più giusta. Per questo diciamo 'no alla violenza che distrugge'. Cerchiamo, invece, e non stanchiamoci di cercare il dialogo per l’unità. Per questo diciamo con forza: Signore, rendici artigiani della tua unità." - Incontro con i giovani

VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
IN CILE E PERÙ

15-22 GENNAIO 2018


Mercoledì 17 gennaio 2018
8.00Partenza in aereo dall’Aeroporto di Santiago per Temuco
10.30Santa Messa nell’Aeroporto di Maquehue
12.45Pranzo con alcuni abitanti dell’Araucanía nella Casa “Madre de la Santa Cruz”
15.30Partenza in aereo dall’Aeroporto di Temuco per Santiago
17.00Arrivo all’Aeroporto di Santiago
17.30Incontro con i giovani nel Santuario di Maipú
18.30Trasferimento in auto chiusa alla Pontificia Università Cattolica del Cile
19.00Visita alla Pontificia Università Cattolica del Cile

L'aereo con a bordo papa Francesco è atterrato a Temuco, capitale della regione dell'Araucanìa, 700 chilometri a sud di Santiago del Cile. Terra di indios, l'Araucanìa ospita da sempre una folta comunità di mapuche, abitanti originari in rotta con il governo per l'esproprio delle terre sulle quali vivono. Qui ai primi del Novecento hanno vissuto due premi Nobel: Gabriela Mistral e Pablo Neruda. La città fu fondata dall'esercito cileno nel 1881 come forte contro gli indios.

Il Papa si è poi trasferito dall'aeroporto di Maquehue per celebrare la Messa con circa 400mila fedeli e incontrare alcune rappresentanze delle popolazioni originarie dell'Araucanìa.

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SANTA MESSA PER IL PROGRESSO DEI POPOLI

Aeroporto di Maquehue (Temuco)







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OMELIA DEL SANTO PADRE


«Mari, Mari» (buongiorno)

«Küme tünngün ta niemün» «La pace sia con voi» (Lc 24,36).

Ringrazio Dio per avermi permesso di visitare questa bella parte del nostro continente, l’Araucanía: terra benedetta dal Creatore con la fertilità dei immensi campi verdi, foreste colme di imponenti araucarie – il quinto elogio fatto da Gabriela Mistral a questa terra cilena –, i suoi maestosi vulcani innevati, i suoi laghi e fiumi pieni di vita. Questo paesaggio ci eleva a Dio ed è facile vedere la sua mano in ogni creatura. Molte generazioni di uomini e donne hanno amato e amano questo suolo con gelosa gratitudine. E voglio soffermarmi e salutare in modo speciale i membri del popolo Mapuche, così come gli altri popoli indigeni che vivono in queste terre australi: Rapanui (Isola di Pasqua), Aymara, Quechua e Atacama, e molti altri.

Questa terra, se la guardiamo con gli occhi dei turisti, ci lascerà estasiati, però dopo continueremo la nostra strada come prima, ricordandoci dei bei paesaggi che abbiamo visto; se invece ci avviciniamo al suolo lo sentiremo cantare: «Arauco ha un dolore che non posso tacere, sono ingiustizie di secoli che tutti vedono commettere».

In questo contesto di ringraziamento per questa terra e per la sua gente, ma anche di sofferenza e di dolore, celebriamo l’Eucaristia. E lo facciamo in questo aerodromo di Maqueue, nel quale si sono verificate gravi violazioni di diritti umani. Offriamo questa celebrazione per tutti coloro che hanno sofferto e sono morti e per quelli che, ogni giorno, portano sulle spalle il peso di tante ingiustizie. E ricordando queste cose, rimaniamo un istante in silenzio, pensando a tanto dolore e a tanta ingiustizia. Il sacrificio di Gesù sulla croce è carico di tutto il peccato e il dolore dei nostri popoli, un dolore da riscattare.

Nel Vangelo che abbiamo ascoltato, Gesù prega il Padre che «tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). In un’ora cruciale della sua vita si ferma a chiedere l’unità. Il suo cuore sa che una delle peggiori minacce che colpisce e colpirà il suo popolo e tutta l’umanità sarà la divisione e lo scontro, la sopraffazione degli uni sugli altri. Quante lacrime versate! Oggi vogliamo fare nostra questa preghiera di Gesù, vogliamo entrare con Lui in questo orto di dolore, anche con i nostri dolori, per chiedere al Padre con Gesù: che anche noi siamo una cosa sola. Non permettere che ci vinca lo scontro o la divisione.

Questa unità, implorata da Gesù, è un dono che va chiesto con insistenza per il bene della nostra terra e dei suoi figli. E bisogna stare attenti a possibili tentazioni che possono apparire e “inquinare dalla radice” questo dono che Dio ci vuole fare e con cui ci invita ad essere autentici protagonisti della storia. Quali sono queste tentazioni? Una è quella dei falsi sinonimi.

1. I falsi sinonimi

Una delle principali tentazioni da affrontare è quella di confondere unità con uniformità. Gesù non chiede a suo Padre che tutti siano uguali, identici; perché l’unità non nasce né nascerà dal neutralizzare o mettere a tacere le differenze. L’unità non è un simulacro né di integrazione forzata né di emarginazione armonizzatrice. La ricchezza di una terra nasce proprio dal fatto che ogni componente sappia condividere la propria sapienza con le altre. Non è e non sarà un’uniformità asfissiante che nasce normalmente dal predominio e dalla forza del più forte, e nemmeno una separazione che non riconosca la bontà degli altri. L’unità domandata e offerta da Gesù riconosce ciò che ogni popolo, ogni cultura è invitata ad apportare a questa terra benedetta. L’unità è una diversità riconciliata perché non tollera che in suo nome si legittimino le ingiustizie personali o comunitarie. Abbiamo bisogno della ricchezza che ogni popolo può offrire, e dobbiamo lasciare da parte la logica di credere che ci siano culture superiori e culture inferiori. Un bel chamal (manto) richiede tessitori che conoscano l’arte di armonizzare i diversi materiali e colori; che sappiano dare tempo ad ogni cosa e ad ogni fase. Potrà essere imitato in modo industriale, ma tutti riconosceremo che è un indumento confezionato sinteticamente. L’arte dell’unità esige e richiede autentici artigiani che sappiano armonizzare le differenze nei “laboratori” dei villaggi, delle strade, delle piazze e dei vari paesaggi. Non è un’arte da scrivania l'unità, né fatta solo di documenti, è un’arte dell’ascolto e del riconoscimento. In questo è radicata la sua bellezza e anche la sua resistenza al passare del tempo e delle intemperie che dovrà affrontare.

L’unità di cui i nostri popoli hanno bisogno richiede che ci ascoltiamo, ma soprattutto che ci riconosciamo, il che non significa solo «ricevere informazioni sugli altri [...] ma raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro come un dono anche per noi». Questo ci introduce sulla via della solidarietà come modo di tessere l’unità, come modo di costruire la storia; quella solidarietà che ci porta a dire: abbiamo bisogno gli uni degli altri nelle nostre differenze affinché questa terra continui a essere bella. È l’unica arma che abbiamo contro la “deforestazione” della speranza. Ecco perché chiediamo: Signore, rendici artigiani di unità.

Un'altra tentazione può venire dalla considerazione di quali sono le armi dell'unità.

2. Le armi dell’unità

L’unità, se vuole essere costruita a partire dal riconoscimento e dalla solidarietà, non può accettare qualsiasi mezzo per questo scopo. Ci sono due forme di violenza che più che far avanzare i processi di unità e riconciliazione finiscono per minacciarli. In primo luogo, dobbiamo essere attenti all’elaborazione di accordi “belli” che non giungono mai a concretizzarsi. Belle parole, progetti conclusi sì – e necessari – ma che non diventando concreti finiscono per “cancellare con il gomito quello che si è scritto con la mano”. Anche questa è violenza. Perché? Perché frustra la speranza.

In secondo luogo, è imprescindibile sostenere che una cultura del mutuo riconoscimento non si può costruire sulla base della violenza e della distruzione che alla fine chiedono il prezzo di vite umane. Non si può chiedere il riconoscimento annientando l’altro, perché questo produce come unico risultato maggiore violenza e divisione. La violenza chiama violenza, la distruzione aumenta la frattura e la separazione. La violenza finisce per rendere falsa la causa più giusta. Per questo diciamo “no alla violenza che distrugge”, in nessuna delle sue due forme.

Questi atteggiamenti sono come lava di vulcano che tutto distrugge, tutto brucia, lasciando dietro di sé solo sterilità e desolazione. Cerchiamo, invece, e non stanchiamoci di cercare il dialogo per l’unità. Per questo diciamo con forza: Signore, rendici artigiani della tua unità.

Tutti noi che, in una certa misura, siamo gente tratta dalla terra (Gen 2,7), siamo chiamati al buon vivere (Küme Mongen), come ci ricorda la saggezza ancestrale del popolo Mapuche. Quanta strada da percorrere, quanta strada per imparare! Küme Monge, un anelito profondo che scaturisce non solo dai nostri cuori, ma risuona come un grido, come un canto in tutto il creato. Perciò, fratelli, per i figli di questa terra, per i figli dei loro figli, diciamo con Gesù al Padre: che anche noi siamo una cosa sola: Signore, rendici artigiani di unità.

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Dopo la messa davanti a rappresentanze di popolazioni indigene all'aerodromo di Maquehue, a Temuco, papa Francesco si è trasferito in auto alla Casa "Madre de la Santa Cruz", retta dalle suore della Santa Croce, dove ha pranzato con alcuni rappresentanti dei popoli dell'Araucania. 
Al pranzo, oltre al vescovo di Temuco, mons. Hector Eduardo Vargas Bastidas, sono ammessi 11 abitanti dell'Araucania, tra cui otto membri del popolo Mapuche.

Il menù è italiano: la lista delle portate, accompagnate da pane toscano, comprende ragù di champignon, carpaccio di polipo con bruschette e grana padano, chele di granchio con sala golf, ossobuco cremolato con risotto allo zafferano e verdure saltate, panna cotta.


INCONTRO CON I GIOVANI
Santuario Nazionale di Maipú 

“Essere protagonisti del Cile che i vostri cuori sognano”. È cominciato con questa consegna l’incontro del Papa con i giovani cileni, nel santuario di Maipú a Santiago, alle ore 17.30 locali (21.30 ora di Roma). “So che il cuore dei giovani cileni sogna e sogna in grande – ha proseguito il Papa dopo aver ascoltato la testimonianza di Ariel, uno dei giovani presenti – perché da queste terre sono nate esperienze che si sono allargate e moltiplicate attraverso diversi Paesi del nostro continente. Chi le ha promosse? Giovani come voi che hanno saputo vivere l’avventura della fede. Perché la fede provoca nei giovani sentimenti di avventura, che invita a viaggiare attraverso paesaggi incredibili, per niente facili, per niente tranquilli… ma a voi piacciono le avventure e le sfide. Anzi, vi annoiate quando non avete delle sfide che vi stimolano.

Questo si vede chiaramente, ad esempio, ogni volta che succede una catastrofe naturale: avete un’enorme capacità di mobilitarvi, che parla della generosità dei vostri cuori”. Prima di pronunciare il discorso, è stato portato al Papa il Simbolo dei giovani per il Sinodo. Poi i giovani hanno portato la Croce del Cile e hanno offerto al Papa un nastro, segno del sangue versato di Cristo, che Francesco ha collocato sulla Croce prima di iniziare a parlare.

Quando si rimane senza la "connessione" con la fede, "che dà vita ai nostri sogni, il cuore inizia a perdere forza, a restare anch'esso senza carica": "senza connessione, senza la connessione con Gesù, finiamo per annegare le nostre idee, i nostri sogni, la nostra fede e ci riempiamo di malumore". E a proposito di 'password' ha ricordato la figura di Sant'Alberto Hurtado, il santo gesuita impegnato nelle attività sociali a favore degli emarginati, di cui ieri ha visitato il santuario nella capitale cilena. "La password di Hurtado era molto semplice - se volete mi piacerebbe che la appuntaste sui vostri cellulari. Lui si domanda: 'Cosa farebbe Cristo al mio posto?'", ha spiegato. "A scuola, all'università, per strada, a casa, cogli amici, al lavoro; davanti a quelli che fanno i bulli: 'Cosa farebbe Cristo al mio posto?'. Quando andate a ballare, quando fate sport o andate allo stadio: 'Cosa farebbe Cristo al mio posto?'", ha detto il Papa.

"È la password, la carica per accendere il nostro cuore, accendere la fede e la scintilla nei nostri occhi", ha sottolineato. "Essere protagonisti è fare ciò che ha fatto Gesù - ha aggiunto -. Lì dove sei, con chiunque ti trovi e a qualsiasi ora: 'Cosa farebbe Gesù al mio posto?'. L'unico modo per non dimenticare una password è usarla. Tutti i giorni. Verrà il momento in cui la saprete a memoria; e verrà il giorno in cui, senza che ve ne rendiate conto, il vostro cuore batterà come quello di Gesù".





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VISITA ALLA PONTIFICIA UNIVERSITÀ CATTOLICA DEL CILE
Santiago







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