Benvenuto a chiunque è alla "ricerca di senso nel quotidiano"



mercoledì 31 gennaio 2018

Il “nuovo” Padre Nostro... perché cambia?

Il “nuovo” Padre Nostro... 
perché cambia?

Padre nostro... 
non c'indurre in tentazione...


"Questa è una traduzione… non buona. Anche i francesi hanno cambiato adesso il testo con una traduzione che dice: «Non lasciarmi cadere in tentazione», perché sono io a cadere in tentazione, ma non è Lui che mi butta in tentazione per poi vedere come sono caduto. No, un Padre non fa questo, un padre ti aiuta a rialzarti subito. Quello che ti induce alla tentazione è Satana. Questo è l’ufficio di Satana."



Il “nuovo” Padre Nostro: non solo una traduzione. E anche Don Camillo…


Entro la fine dell’anno la Chiesa in Italia potrebbe avere un “nuovo” Padre Nostro. Questo almeno stando a quanto è emerso dall’ultima riunione del Consiglio permanente della Cei, che ha deciso di convocare dal 12 al 14 novembre prossimi un’assemblea straordinaria dei vescovi per discutere ed approvare la terza edizione del Messale Romano, con la quale dovrebbe vedere la luce anche la nuova versione del Padre Nostro.

In verità nulla di nuovo, se si considera che la decisione della Cei di proporre una diversa traduzione della sesta petizione della preghiera più importante dei cristiani risale ai primi anni Duemila. L’edizione 2008 della Bibbia, infatti, al celebre passo di Mt 6,13 introduce già il “non abbandonarci alla tentazione” in luogo del “non ci indurre in tentazione” (dalla versione latina “et ne nos inducas in tentationem”). L’attuale applicazione al testo liturgico delle decisioni prese allora su quello evangelico non sarebbe, quindi, che una logica e coerente conseguenza, agevolata da un Pontefice – Francesco – che non ha fatto mistero del suo appoggio alla nuova versione, così come ad un certo libero decisionismo da parte delle conferenze episcopali.

Soltanto una questione di termini, dunque? Non proprio. Ad ammettere che la questione del Padre Nostro sia (anche) esegetica è lo stesso Catechismo della Chiesa cattolica, che al n. 2846 chiarisce che «tradurre con una sola parola il termine greco è difficile: significa “non permettere di entrare in”, “non lasciarci soccombere alla tentazione”». Che a muovere i vescovi, però, non siano soltanto considerazioni di carattere filologico è evidente. Non si spiegherebbe, altrimenti, la scarsa fortuna che ha finora accompagnato il pro multis di ratzingeriana – ed evangelica – memoria, filologicamente ineccepibile ma da anni lettera morta. Due pesi e due filologiche misure? È evidente che a motivare la decisione dei vescovi italiani in merito al Padre Nostro sia una combinazione di ragioni teologiche, esegetiche e catechetiche, come traspare anche da una recente puntualizzazione di Francesco, secondo il quale «pregare non è ripetere a pappagallo delle frasi».

I recenti sviluppi dell’affaire Padre Nostro hanno comunque tutta l’aria di un successo postumo per l’abate Jean Carmignac, fra i più noti e accesi avversari dell’indurre in tentazione. Ma per un problema che (forse) si risolve, un altro (e uno solo è un’ipotesi ottimistica) potrebbe venirsi a creare. Se, infatti, l’Ave Maria ha da sempre creato più di una difficoltà nei momenti di preghiera ecumenica, il Padre Nostro aveva offerto un importante terreno di incontro. Almeno finora, visto che buona parte del mondo riformato, luterani e anglicani in testa, si tiene cara la traduzione di Lutero e della Bibbia di re Giacomo: “führe uns nicht in Versuchung” e “and lead us not into temptation”, vale a dire proprio il vituperato “non ci indurre in tentazione”.

Come spiegare questa nuova difficoltà al pensiero mediatico dominante e anche ad una certa parte di Chiesa a pochi mesi dalle entusiastiche celebrazioni dei 500 anni dalla Riforma? Difficile dirlo. Dal canto suo, da buon vecchio tradizionalista, il Don Camillo di Guareschi in tempi non sospetti aveva avanzato una sua proposta: «Il Pater Noster non dovrebbe più dire “liberaci dal male” ma “liberaci dal benessere”». Probabilmente non un buon lezionario, ma di certo una buona lezione.

(fonte: Caffestoria articolo di Simone M. Varisto del 29/01/2018)

Padre Nostro, Tu non ci tenti
di Gianfranco Ravasi 

È stato uno stillicidio che mi ha accompagnato da anni. La domanda era sempre la stessa, anche da parte dei lettori di questa pagina: come si giustifica la sesta delle sette invocazioni di quell’oratio perfectissima di Gesù – come la definiva s. Tommaso d’Aquino – che è il Padre nostro, cioè «non ci indurre in tentazione»? I giornali hanno già riferito le considerazioni di papa Francesco sulla incongruità di questa resa a cui poi si è associata la Conferenza Episcopale Italiana, mentre altri vescovi di varie lingue avevano da tempo introdotto variazioni del tipo «non abbandonarci alla tentazione», «non farci entrare nella tentazione», «non lasciarci entrare in tentazione» e così via. 
È curioso notare che la «brutalità» della resa latina della Vulgata – ne nos inducas in tentationem – creava imbarazzo già nell’VIII secolo: due manoscritti latini dei Vangeli, il cosiddetto Codex Dublinensis e il Codex Rushworthianus, conservato a Oxford, la sostituiscono con un significativo Ne nos patiaris induci, «non tollerare che noi siamo indotti in tentazione» (sottinteso «da Satana»). Due altri codici di un’antica versione latina precedente alla Vulgata, il Bobbiensis (V sec.) e il Colbertinus (XII sec.) variano in questa stessa linea: «Non sopporterai che noi siamo indotti in tentazione». 
Cerchiamo, allora, di risalire all’originale greco che, comunque, ha certamente un sottofondo aramaico, la lingua usata da Gesù, in cui il verbo usato aveva probabilmente un valore permissivo, «non lasciarci/non farci entrare in tentazione». L’indurre italiano è, per altro, già eccessivo rispetto al greco di Matteo (6,13) eisenénkes (da eisphérô): esso letteralmente indica un «non portarci verso», diverso dall’«indurre» che è uno «spingere» qualcuno concretamente a compiere un’azione. Il senso genuino è, allora, quello di non essere esposti e abbandonati al rischio della tentazione. A questo punto, però, è necessario distinguere tra «tentazione-prova» e «tentazione-insidia», accezioni entrambe possibili nel greco peirasmós usato da Matteo. La prova può avere come soggetto Dio che vaglia la fedeltà e la purezza della fede dell’uomo: pensiamo ad Abramo, invitato a sacrificare Isacco, il figlio della promessa divina (Genesi 22), a Giobbe, a Israele duramente «corretto» da Dio nel deserto «come un uomo corregge il figlio» (Deuteronomio 8,5). È un’educazione alla fedeltà, alla donazione disinteressata, all’amore puro e senza doppi fini. Significativa al riguardo è una frase della Prima Lettera ai Corinzi di s. Paolo: «Nessuna tentazione, superiore alle forze umane, vi ha sorpresi; Dio infatti è degno di fede e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze ma, insieme con la tentazione, vi darà anche il modo di uscirne per poterla sostenere» (10,13). Diversa è la «tentazione-insidia» che mira alla ribellione dell’uomo nei confronti di Dio e della sua legge e che, a prima vista, dovrebbe avere come radice Satana o il mondo peccatore. Ebbene, se è facile comprendere l’applicazione nel caso della prova (si chiede a Dio di non provarci troppo aspramente e di non lasciarci soccombere in quel momento oscuro), è più complesso giustificare la seconda attribuzione a Dio. Sì, perché – strettamente parlando – nella Bibbia sembra che anche Dio possa «tentare» al male. Lo si legge, ad esempio, nel Secondo Libro di Samuele: «Dio incitò Davide a fare il male attraverso il censimento di Israele» (24,1). 
La domanda del Padre nostro potrebbe, perciò, avere anche questa sfumatura. Ma come spiegarla? La risposta è nella mentalità semitica: essa per evitare di introdurre il dualismo di fronte al bene e al male, cioè l’esistenza di due divinità, l’una buona e l’altra malvagia, cerca di porre tutto sotto il controllo dell'unico Dio, bene e male, grazia e tentazione. In Isaia il Signore non esita a dichiarare: «Sono io che formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e causo il male: io, il Signore, compio tutto questo!» (45,7). In realtà, si sa che il male morale dev’essere ricondotto o alla libertà umana o al tentatore per eccellenza, Satana. Non per nulla la frase sopra citata riguardante Davide nel racconto parallelo dei libri delle Cronache viene corretta e suona così: «Satana spinse Davide a censire gli Israeliti» (I,21,1). 
Pregando il Padre divino di «non indurci in tentazione» si voleva, allora, domandargli sia di non provarci con durezza, cioè di non esporci a prove troppo pesanti per la nostra realtà umana, sia di non lasciarci catturare dalle reti del male, di non permettere che entriamo nel cerchio magico e affascinante del peccato, di non esporci all’insidia diabolica. 
In questa invocazione sono, perciò, coinvolti temi capitali come la libertà e la grazia, la fedeltà e il peccato, il dolore e la speranza, il bene e il male. 
Importante è, a questo proposito, anche la settima e ultima domanda che è la versione positiva della precedente: «Liberaci dal male!». È interessante notare che nell’originale greco si può immaginare nel vocabolo poneroù sia la traduzione «dal male» sia «dal Maligno», cioè il diavolo, ed entrambi i significati sono accettabili e possono coesistere. Durante l’ultima cena Gesù offre a Pietro una rappresentazione suggestiva dell’aiuto divino a «liberarci dal male/Maligno»: «Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano. Ma io ho pregato per te, perché non venga meno la tua fede» (Luca 22,31-32). Annotava un noto teologo ortodosso francese, Olivier Clément (1921-2009): «Il Padre nostro non è concluso da una lode o da un ringraziamento, ma rimane sospeso in un pressante grido di miseria», mentre l’uomo si sente sul ciglio del baratro oscuro del dolore e del male. È per questo che alcuni codici antichi, seguiti dalla tradizione e dal culto protestante, hanno sentito il bisogno di aggiungere in finale al Padre nostro questa acclamazione: «Tuo è il Regno, la potenza e la gloria nei secoli!». Ma, con la finezza che le è solita e la sua sensibilità per il messaggio cristiano, nonostante la sua matrice ebraica, Simone Weil nella sua opera Attesa di Dio (1950) osservava acutamente che il percorso del Padre nostro è antitetico rispetto a quello che regge di solito ogni preghiera che va dal basso verso l’alto, dall’uomo e dalla sua miseria a Dio e alla sua luce. Qui, invece, si parte dal cielo e si scende fin nel groviglio oscuro del male.
(fonte: “Il Sole 24 Ore” del 28 gennaio 2018)

Guarda il video del colloquio integrale di don Marco Pozza 
con Papa Francesco sul Padre nostro