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mercoledì 6 settembre 2017

IL DONO DELL'OSPITALITÁ - XXV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa - Monastero di Bose, 6-9 settembre 2017 in collaborazione con le Chiese ortodosse

XXV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa
IL DONO DELL'OSPITALITÁ
Monastero di Bose, 6-9 settembre 2017
in collaborazione con le Chiese ortodosse


Da venticinque anni. Dal 6 al 9 settembre si tiene presso il monastero di Bose l’annuale convegno internazionale di spiritualità ortodossa. L’appuntamento, giunto alla venticinquesima edizione e realizzato in collaborazione con le Chiese ortodosse, è dedicato al «dono dell’accoglienza». Un tema che — in un tempo in cui decine di migliaia di uomini, donne e bambini sono quotidianamente costretti a migrare fuggendo da guerre e persecuzioni — interpella non solo le responsabilità dei governanti. Anche perché prima di essere la risposta a un’emergenza umanitaria, l’ospitalità è un dono per chi la offre e per chi la riceve. Infatti, per la tradizione cristiana riconoscersi stranieri e pellegrini è il primo passo della scoperta di quella regione interiore che i padri monastici chiamavano “stranierità”, dove affonda le sue radici anche la filoxenía, l’amore verso lo straniero. In questo senso, il convegno si propone di esplorare vie di riconciliazione tra fedi e culture. 
Oltre all’intervento del fondatore di Bose, Enzo Bianchi, la sessione inaugurale prevede quelli del patriarca ecumenico di Costantinopoli e del patriarca greco-ortodosso di Alessandria e di tutta l’Africa, dei quali anticipiamo ampi stralci.


Un’occasione d’incontro fraterno
di Enzo Bianchi

Il desiderio di offrire un tempo di dialogo e comunione, un luogo in cui ciascuna tradizione cristiana possa definirsi in ciò che ha di più caro e testimoniare la propria fede, è all’origine dei Convegni ecumenici internazionali di spiritualità ortodossa, che la Comunità monastica di Bose organizza dal 1993, in collaborazione con le Chiese ortodosse.

Un “convegno” delimita lo spazio di un con-venire: letteralmente, un venire assieme in un luogo di ascolto reciproco e di amicizia, un ambito di simpatia necessario per superare i pregiudizi e intraprendere un cammino serio di conoscenza e accoglienza della ricerca spirituale dell’altro. Questa ricerca condivisa ha permesso di conoscere meglio e di approfondire la tradizione spirituale delle Chiese ortodosse nella multiforme unità delle loro diverse tradizioni, senza trascurare il contributo delle Chiese orientali. 

Quattro elementi hanno da sempre caratterizzato lo spirito di questi convegni: il desiderio di conoscere la spiritualità, la storia di santità e la testimonianza, spesso fino al martirio, della Chiesa sorella; l’incontro fraterno tra monaci d’oriente e d’occidente e la dimensione ecclesiale, con il coinvolgimento diretto dei rappresentanti delle Chiese; l’approfondimento scientifico, documentato nella pubblicazione annuale degli Atti; l’apertura dialogante alle ricerche e alle attese dell’umanità contemporanea.

Credo tuttavia che la dimensione fondamentale di questi convegni sia la condivisione della preghiera comune monastica, che fa discernere il Signore presente in mezzo ai suoi discepoli, con la sua misericordia e il suo amore: è il Signore che apre lo spazio dell’incontro tra i fratelli, l’ascolto gli uni degli altri, lo scambio reciproco dei suoi doni. Sin dall’inizio, per la nostra comunità, questa iniziativa ha voluto essere la risposta a un servizio che ci è stato chiesto e che speriamo di compiere umilmente alla Chiesa: senza pretese, senza presumere di svolgere azione diplomatica. Il nostro compito monastico è solo prestare un luogo di confronto, di ascolto e di preghiera.


Insieme verso l’unità
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Nell’amicizia sincera, leale, umana si cercano vie di riconciliazione, di umiltà e di discernimento: come diceva l’indimenticabile Patriarca Athenagoras, “quando ci si incontra nell’amore, si applica la vera teologia!”. L’arcivescovo Alexis di Düsseldorf diceva che gli incontri tra cristiani sono come un lume acceso in un enorme spazio: sembra illuminare e riscaldare solo una piccola porzione e tuttavia, per quanto grande, esteso sia quello spazio, le tenebre non sono più assolute!

Molti sono stati i volti e le presenze amiche che ci hanno aiutato e ci accompagnano in questo itinerario spirituale. 
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Un anziano suddiacono del Patriarca Tichon di Mosca (1865-1925) scriveva che, quando si discute con qualcuno e questi resiste e rifiuta le nostre idee, ci si deve sempre elevare con longanimità al di sopra dei suoi argomenti, in modo che il nostro interlocutore possa ascoltare ciò che noi diciamo e gridare: “Come è magnifico!” e così aprirsi a ciò che noi desideriamo comprenda. È ciò che dobbiamo imparare a fare oggi. L’ecumenismo non è una sorta di compromesso, scriveva il metropolita Anthony Bloom, un modo di riunire Chiese differenti e di avvicinare credenti. L’ecumenismo è un’obbedienza puntuale al comandamento del Signore che ha pregato per l’unità dei credenti in lui (cfr. Giovanni 17,21): è un’attitudine dello spirito che riconosce che Cristo è il Signore dell’ecumene, e confessa una verità che abbraccia questo universo, lo esalta, lo conduce a una grandezza, un’espansione e una bellezza che non conosceva. Sì, l’unità dei cristiani è opera dello Spirito, essa deve mostrare il fine della creazione: la trasfigurazione dell’umanità e di tutte le cose!

Il dono dell’ospitalità

Quest’anno, la XXV edizione (Bose, 6-9 settembre 2017) è dedicata al “Dono dell’ospitalità”. Essere “ospiti”, nell’accezione della parola italiana, significa al tempo stesso essere uomini e donne capaci di accoglienza ma anche, a nostra volta, riconoscerci stranieri ospitati in questa terra, come fa notare papa Francesco nella sua lettera personale in occasione del convegno.

C’è una dimensione spirituale dell’ospitalità che occorre ritrovare, come invitano a fare il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartholomeos, che a Bose terrà la prolusione (“Accogliere l’umanità in una terra abitabile”), e il Patriarca di Alessandria e di tutta l’Africa Theodoros II, che nel suo intervento chiede di “discernere la benedizione dello straniero”: riconoscere nell’altro che ci visita un dono e un appello è il primo passo per una cultura cristiana dell’accoglienza. Su questa capacità di fare spazio all’altro, al diverso, saremo giudicati nel giorno del giudizio, come ci rivela il Signore: “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35).

In un tempo in cui decine di migliaia di uomini, donne, bambini, sono costretti a lasciare la casa e la loro terra da guerre, persecuzioni, carestie, il convegno vorrebbe ridestare la nostra coscienza, accrescere la nostra capacità di “accogliere, proteggere, promuovere e integrare”, come ha chiesto pressantemente papa Francesco nel suo messaggio per la prossima giornata mondiale del migrante e del rifugiato.

In quella regione interiore che i padri monastici chiamavano “stranierità” affonda le sue radici anche la filoxenía, l’amore verso lo straniero. Prima di essere la risposta a un’emergenza umanitaria, l’ospitalità è un dono per chi la offre e per chi la riceve. Nell’accoglienza dell’altro ne va del nostro essere fratelli e sorelle in umanità.

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Intervento di Bartolomeos
Ospiti in questo mondo

Il tema che il comitato scientifico ha proposto per la venticinquesima sessione interpella non solo le Chiese di Dio, non solo i credenti nel Cristo risorto, ma tutti gli uomini di buona volontà, in quanto viviamo un periodo storico, in cui parlare di ospitalità può diventare scomodo, ancor di più se vogliamo intendere la ospitalità come un dono. 
La nostra riflessione parte dalla consapevolezza della esistenza di una relazione d’amore che esiste tra il creato e il suo Creatore, in quanto opera dell’amore divino.
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Assistiamo in questo percorso a una teofania creativa, che nulla ha a che fare con qualche forma di panteismo. Questa teofania prepara la terra abitabile, come il fidanzato prepara la casa per la sua fidanzata, patto eterno d’amore.
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San Gregorio Palamas affermava che i cristiani rispondono con la lode e lo stupore quando contemplano i capolavori della creazione visibile di Dio. Cristo ha restaurato l’ospitalità di Dio nell’uomo, gli ha donato la libertà pasquale mediante la morte e risurrezione. Ha redento il cuore degli uomini restaurandolo come “tenda-tempio” della ospitalità di Dio: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito santo, che è in voi? Lo avete ricevuto da Dio e voi non appartenete a voi stessi». (1 Corinzi, 6, 19). E nella pratica della sua fede, il credente ospita lo straniero come Dio lo ospita nel mondo, creandolo, e nella sua misericordia, salvandolo. Misericordioso è colui che ospita nel suo cuore il misero, mette il suo cuore vicino a quello del misero, colui che permette all’altro di rigenerarsi, di sentirsi a casa sua, di riposarsi e di fare l’esperienza che c’è qualcuno che condivide insieme la propria storia. L’ospitalità è quindi condivisione, un protendersi verso l’altro, un prendersi cura degli altri. È la parabola del samaritano che si prende cura, che dedica il suo tempo. Non assorbe l’altro, non lo eguaglia a sé, ma lo rispetta in tutta la sua radicale differenza. È ospitalità che si fa accoglienza. Non esistono più stranieri ma ospiti, perché ospitare il forestiero e lo straniero, significa ospitare Cristo stesso. «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo» (Ebrei, 13, 2).
Nella Lettera a Diogneto si dice che i cristiani «vivono nella loro patria, ma come forestieri». Il monachesimo ricorda che quaggiù non c’è una dimora permanente, ma come dice san Paolo: «La nostra cittadinanza è nei cieli». (Filippesi, 3, 20). Ma esso è anche spazio di libertà e di franchezza e perciò di incontro e di riconoscimento reciproco tra diversi. È anche follia in Cristo e un fuggire la fama, i riconoscimenti. Massimo di Kavsokalyva, sul santo Monte dell’Athos, si spostava costantemente bruciando la capanna in cui precedentemente dimorava, per evitare notorietà e fama. Ma è anche interiorizzazione dell’armonia cosmica, teofanica della creazione, trasfigurante nella sua ospitalità. È questa trasfigurazione che fa una persona, pura di cuore, capace di percepire il legame con la creazione. San Serafino di Sarov, nutriva l’orso nelle foreste del nord, san Francesco parlava con tutte le creature, san Gerasimo del Giordano viveva con un leone.
Come la vera natura di Dio è l’Amore, anche l’umanità è originariamente destinata al compito di amare. La terra abitabile è Maria, l’umanità ospitata è il Dio teantropo, eros divino fino alla follia. Follia per i non credenti, vanto per i cristiani.

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Intervento di Theodoros II
Con le porte aperte

L’uomo africano è lo straniero della nostra epoca. È lui l’uomo descritto da nostro Signore Gesù Cristo. La Chiesa di Alessandria porta sulle proprie spalle il peso della storia alessandrina, della megalopoli cosmopolita e l’universalità che ha sempre caratterizzato fin dai tempi antichi il suo pensiero, al di là e al di sopra delle nazioni e delle razze. Secondo la tradizione alessandrina ogni straniero ha diritto — notate la parola “diritto” — di ricevere alloggio, cibo e protezione, come persona sacra, come uguale a tutti, come un’immagine di Dio. La Chiesa conserva questa eredità ellenistica associandola inscindibilmente con la tradizione cristiana bizantina dell’amore, del sacrificio volontario per l’altro. La sua presenza nell’intero continente africano si mantiene lontana dalle intolleranze, dagli sciovinismi e dalle propagande. Persegue come proprio obiettivo fondamentale l’unità di tutti nella multiformità e nella pluralità, coltivando il rispetto per la persona umana, armonizzando le contrapposizioni tra le società e i popoli «nel vincolo della pace» (Efesini, 4, 3), e avendo come regola fondamentale l’amore di Cristo, «che è il vincolo della perfezione» (Colossesi, 3, 14).
Oggi l’Europa è in preda al terrore e alle vertigini davanti all’ondata dei profughi e al fenomeno dell’immigrazione, ma la Chiesa di Alessandria vive questo evento ogni giorno nello sconfinato continente africano, dove conflitti bellici, guerre civili e disastri naturali di scala biblica producono continuamente ondate di profughi ridotti alla miseria. Quanto sono attuali le parole di Gregorio di Nissa, che esprime la condizione odierna di molte persone in molte regioni della terra, e in particolare in Africa, luogo della nostra giurisdizione, quando dice in modo significativo: «Il tempo presente ci ha procurato una grande quantità di ignudi e di senzatetto. Alle porte di ognuno vi è una folla di deportati. Non mancano stranieri e profughi; ovunque si vede la mano tesa a chiedere. Per costoro la casa è all’aperto, loro riparo sono i portici, i biVII e gli angoli più riposti delle piazze».
Questa situazione di necessità assoluta è vissuta da decine di migliaia di africani nostri fratelli in Rwanda, in Sierra Leone, in Burundi, in Congo, in Sud Sudan e in molte altre regioni. Senza dimora e perseguitati, profughi nel loro stesso paese. Vedendo queste anime di Dio e le migliaia di bambini che ti guardano con i loro grandi occhi pieni di lacrime e di paura, prendiamo atto della necessità che la Chiesa dia il suo contributo nel fronteggiare e fornire soluzioni ai problemi sociali. E questo è naturale, perché lo scopo della Chiesa non è restare alla periferia della vita, ma accostarsi all’uomo in tutti gli aspetti e le manifestazioni della sua vita. Solo così lo serve, secondo l’esempio di Cristo, il quale non è «venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per le moltitudini» (cfr. Matteo, 20, 28; Marco, 10, 45).
Un altro fatto degno di essere sottolineato è che i monasteri sono sempre stati porti di rifugio al riparo dei venti e baluardi di giustizia sociale per i viandanti, i forestieri e gli uomini senza dimora. Centinaia di persone trovavano conforto e ospitalità sotto i tetti dei monasteri. Questa pratica continua fino ai nostri giorni nella Chiesa di Alessandria...

Lo straniero, dunque, deve essere accolto come immagine di Cristo, dal momento che lo stesso Cristo è diventato straniero ed è venuto sulla terra. Solo in questo modo, solo allora l’ospitalità degli stranieri può diventare benefica, poiché l’ospitalità è prima di tutto amore. La Chiesa di Alessandria, da parte sua, cerca di applicare questo comandamento nei suoi sforzi missionari nel tribolato continente africano. Ogni africano, come immagine di Dio, a prescindere dalla sua appartenenza razziale o religiosa, deve poter trovare chi si prende cura di lui in molti modi a ogni livello missionario e in ogni infrastruttura della Chiesa, fino agli estremi confini dell’Africa.

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