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martedì 29 agosto 2017

LA SINODALITÀ SIA UNA PRATICA ABITUALE DELLA CHIESA Intervista al teologo Giuseppe Ruggieri (parte seconda)

LA SINODALITÀ
SIA UNA PRATICA ABITUALE 
DELLA CHIESA

Intervista al teologo Giuseppe Ruggieri
a cura di Giampiero Forcesi 

Il testo della presente intervista (parte seconda) viene pubblicato anche dalle riviste: Dialoghi (Lugano/CH), Esodo (Mestre/VE), Il gallo (Genova), il tetto(Napoli), Koinonia (Pistoia), l’altrapagina (Città di Castello/PG), Matrimonio(Padova), Nota-m (Milano), Oreundici (Roma), Tempi di fraternità (Torino).
Le riviste, che aderiscono alla Rete dei Viandanti, con questa iniziativa vogliono dare visibilità ad un progetto comunicativo unitario, che intende, tra l’altro, promuovere una riflessione sui temi che papa Francesco indica per la riforma della Chiesa, a partire proprio dalla questione della sinodalità. (V)

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Nel tuo libro “Chiesa sinodale” la questione dei rapporti tra chiesa universale e chiese locali occupa un posto centrale.
E scrivi che uno dei limiti del Vaticano II è stato di non aver esplicitato la dinamica dell’ordinazione episcopale e, di conseguenza, di non aver valorizzato la chiesa locale.
Un esempio delle conseguenze negative di questa carenza, chealcune decisioni romane hanno acuito nel post-concilio, è stata la progressiva messa in sordina dell’esperienza ecclesiale dell’America latina. 
Guardando alla tradizione della chiesa antica, scrivi che la localitàdella chiesa non è un fatto casuale o un’esigenza amministrativa ma è un fatto di grazia. Puoi esplicitare questa tua riflessione e le sue implicazioni?

Questo pensiero, che la località di ogni chiesa sia un fatto di grazia, non è originariamente mio, ma del compianto padre Jean-Marie Tlllard ed è stato molto sottolineato da un allievo del Congar, il padre Hervé Legrand. Nel Vaticano II, con la preoccupazione di riscoprire la collegialità e l’autorità dei vescovi non derivata dal papa ma dal sacramento della consacrazione episcopale come tale, mancò l’approfondimento del rapporto “costitutivo” tra ogni vescovo e la sua chiesa.

Nella chiesa antica invece il rapporto era fondamentale: lo stesso cambio di sede episcopale era considerato un fatto anomalo, e non si potevano dare ordinazioni cosiddette “absolutae”, sciolte cioè dal legame dell’ordinato con una chiesa locale (canone 6 del concilio di Calcedonia). È in forza di questo legame che un vescovo partecipa alla “sollecitudine per tutte le chiese”. E la consacrazione episcopale era un fatto che coinvolgeva anzitutto il presbiterio, poi il popolo che doveva confermare la decisione, e quindi i vescovi vicini che dovevano consacrare l’eletto, giacché il vescovo rappresentava l’anello di unità con tutta la chiesa. Ogni chiesa locale portava per ciò stesso dentro la chiesa tutta la sua storia, le sue scelte, i suoi doni, ma anche le sue debolezze.

Ma l’apporto di grazia di ogni chiesa non appartiene soltanto al passato. Penso soprattutto al più grande fatto di rinnovamento della chiesa dopo il Vaticano secondo, cioè la maturazione dell’atteggiamento nei confronti dei poveri in America Latina, che ha dato origine alle varie forme di teologia della liberazione. Quella teologia nella sua ispirazione fondamentale non era un insieme di concezioni partorite dalla mente dei teologi, ma espressione di una rinnovata coscienza evangelica da parte di quelle chiese, in primo luogo dei loro vescovi (come non pensare a dom Helder Camera o a dom Pedro Casaldaliga o a Oscar Romero?). Tutto ciò è grazia, cioè esistenza umana concreta vivificata dallo Spirito di Gesù di Nazaret, crocifisso e risorto. Giacché la grazia di Dio non è astratta, ma concreta e raggiunge uomini e donne in carne e ossa, con tutti i loro condizionamenti storici. La comunione ecclesiale è quindi vitalmente incontro, correzione reciproca, non soltanto nel rapporto tra i singoli, ma nei rapporti tra gruppi, istituzioni, chiese.

Il capitolo del libro intitolato “Per una chiesa della fraternità e della sororità” riprende il testo che hai presentato a Firenze nella prima tappa di quel percorso a cui era stato dato il nome “Il vangelo che abbiamo ricevuto”.
Nello spiegare il senso di quella proposta avevi scritto: “Non ci appelliamo a una chiesa alternativa ma esprimiamo la volontà che la libertà di parola, il confronto sine ira, la comunione e lo scambio non si spengano”; e avevi tracciato la via di una chiesa che, da un lato, “si oppone all’autoritarismo clericale” e, dall’altro, in positivo, “esige la responsabilità di tutti, nella varietà di ministeri e carismi, attraverso il criterio principe del consenso dei fedeli”.
“Il motivo ultimo” che vi aveva spinto a promuovere quell’iniziativa, dicevi, era “la sofferenza di non vedere al centro dell’attenzione della chiesa il Vangelo del Regno annunciato da Gesù ai poveri e ai peccatori, mentre cresce a dismisura la predicazione della Legge”.
Il vostro appello era a una chiesa non della condanna ma della misericordia.
L’iniziativa si è interrotta, tu racconti, perché, con la sua venuta nel marzo del 2013, le istanze da cui avevate preso le mosse erano finalmente testimoniate da papa Francesco, e in primis proprio l’annuncio della misericordia, in questo sulle orme di papa Roncalli.
Nel libro non lo hai fatto, ma vuoi qui abbozzare – proprio a partire dall’istanza di una chiesa sinodale – una prima lettura dell’impatto di Francesco sulla chiesa, in particolare quella italiana?

L’iniziativa a cui ti riferisci nasceva, come hai detto, da una sofferenza. Per coloro che, come me, avevano vissuto la primavera del concilio dal di dentro, era molto forte la sensazione dell’“inverno” (l’espressione era del padre Karl Rahner) che era progressivamente sopravvenuto nella chiesa. All’atmosfera di apertura degli anni conciliari, determinata dall’affermazione del primato di quella che papa Giovanni XXIII chiamava la “sostanza viva” del vangelo, quella che nutre il cuore di ogni uomo e di ogni donna che credono, era subentrata per vari motivi, non ultimi quelli culturali legati alla stagione postsessantottina, la paura, la difesa della “dottrina”, la ripresa delle condanne, la delegittimazione delle scelte di intere conferenze episcopali (soprattutto quelle latino americane).

Non vorrei apparire un pessimista: non mancavano infatti segni che mantenevano la speranza, come la richiesta di perdono per tutta la chiesa da parte di Giovanni Paolo II, gesti profetici come l’incontro di Assisi fra i rappresentanti delle chiese e delle religioni nel 1986, ecc. L’iniziativa del “vangelo che abbiamo ricevuto” voleva, in quel clima, mantenere la speranza nella forza del vangelo come tale. L’elezione di Bergoglio a vescovo di Roma ha cambiato l’atmosfera. La sua esortazione “Evangelii gaudium”, senza molte citazioni della lettera del concilio Vaticano II, ha ridato spazio a molte delle correnti calde dell’evento conciliare: la centralità del vangelo rispetto alle dottrine, il primato della misericordia, l’attenzione privilegiata ai poveri, e via dicendo.

Non meraviglia quindi che il messaggio di papa Francesco incontri anche forti resistenze. Credo che il motivo principale di queste resistenze stia nella non accettazione da parte di alcuni della centralità del vangelo rispetto alla dottrina e alla disciplina ecclesiastica. Vedi, in questo senso, il tentativo dei cardinali Brandmüller, Burke, Caffarra e Meisner, di suscitare un procedimento di impeachment del papa in quanto non ortodosso, dopo l’esortazione postsinodale Amoris laetititia. Per altri invece, anche vescovi, il motivo è la difficile assimilazione di una mentalità alla quale non erano preparati. La diagnosi della situazione attuale resta tuttavia molto complessa. Papa Francesco, che ha espresso la sua convinzione sulla natura sinodale della chiesa, ha per altro verso una concezione alquanto “gesuitica” del suo ministero: ascoltare tutti, ma alla fine decidere da solo.

E in ogni caso non credo che sia possibile la cosiddetta riforma della curia. Nel Novecento le varie riforme della curia, compresa la sua cosiddetta internazionalizzazione, non hanno prodotto una effettiva riforma. In ultimo, infatti, la riforma della curia presuppone quella del papato. Fin quando il papa non rinuncerà ai “privilegi” accumulati nel secondo millennio nella chiesa latina, la curia continuerà ad avere un ruolo esagerato nella vita della chiesa, con grave pregiudizio delle chiese locali. La curia, non dimentichiamolo, è un organo del papa per l’esercizio del suo governo. Francesco ha fatto un gesto importante in questa direzione: la devoluzione ai tribunali diocesani delle cause di nullità matrimoniale. Ma questo è solo un piccolo passo, anche se fino adesso è, a mio avviso, accanto alla decisa affermazione e testimonianza personale della priorità del vangelo, il fatto più importante sulla via per la riforma istituzionale della chiesa latina.

La parte conclusiva del tuo libro la dedichi al pensare la fede nel tempo presente. Parli di una pratica della teologia che è anch’essa sinodale, risultato dell’azione dei diversi soggetti della comunità ecclesiale. E riprendi l’invito, che è stato di Giovanni XXIII e del Vaticano II, di leggere i “segni dei tempi”, osservando però che il concilio non ha offerto una spiegazione adeguata del loro significato, perché mancava, e forse ancora manca, una appropriata ermeneutica teologica, e cioè quella che chiami una “prospettiva messianica”. Si tratta, scrivi, di porre tutta la storia sotto la luce messianica.
Questo mi pare un punto cruciale: la chiesa sinodale che è al centro di tutto il libro ha la responsabilità di vivere e di comunicare “il vangelo che abbiamo ricevuto”, e dunque ha il bisogno di interpretare i segni dei tempi.
Ma, dunque, quale è la chiave interpretativa che tu indichi per leggere i segni di Dio nella storia che viviamo?

La chiave interpretativa dei segni dei tempi sta, a mio avviso, nella comprensione delle parole di Gesù stesso, laddove rimprovera i farisei di saper distinguere l’aspetto del cielo ma di non riuscire a discernere i segni dei tempi, con la conclusione che “una generazione malvagia e adultera richiede un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno del profeta Giona” (Cf. Mt 16, 1-4).

Il segno che è Gesù con la sua morte, accolta da Dio nella risurrezione, è il segno dei tempi per eccellenza, quello in cui irrompe il Regno di Dio. Nella prassi di Gesù, e nella prassi di coloro che lo seguono, emergono, anzi si “costituiscono”, nel senso letterale della parola, i segni dei tempi. Questi segni infatti non vanno identificati con un qualsiasi fenomeno umano, sia esso il più alto e spirituale possibile, ma “nascono” dalla partecipazione alla sofferenza della creazione. La domanda fondamentale e decisiva, rispondendo alla quale viene determinato ultimamente il criterio che comanda un’interpretazione dei segni dei tempi, deve essere allora così formulata: come possiamo costituire anche noi dei segni dei tempi, quelli nei quali si avvicina a noi il regno di Dio, a imitazione di colui che fu e resta il segno dei tempi per eccellenza, Gesù Messia?

La risposta mi sembra allora molto semplice, anche se poi è estremamente difficile tradurla in pratica: si costituisce una prassi messianica, si pone un segno dei tempi nei quali il Regno di Dio si avvicina all’uomo, quando, a imitazione del Messia Gesù, ci si carica del peso dell’altro che soffre (cf. Gal 6,2: compiere in noi la legge del Messia portando i pesi l’uno dell’altro). Il caricarsi del peso dell’altro non dipende dalle sue qualità morali, ma dalla sofferenza come tale.

C’è un passaggio del libro di Giobbe che getta un lampo straordinario di luce, quasi abbagliante, a questo proposito: “All’uomo sfinito è dovuta pietà/heseddagli amici, anche se si fosse allontanato dal timor di Dio” (6, 14). La distretta umana – anche quella del peccato – esige la pietà/hesed, termine che nell’AT comprende quello di misericordia. La sofferenza, a prescindere dall’atteggiamento morale di chi la subisce, acquista allora come tale spessore “teologico”. E questa è la grammatica delle Beatitudini.
(fonte: Viandanti)

Vedi la scheda del libro di Giuseppe Ruggieri, Chiesa sinodale, Editori Laterza

Vedi anche il post precedente: