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giovedì 31 agosto 2017

‘Ero straniero e mi avete accolto’: la grande attualità del messaggio ‘antirazzista’ di Gesù di Alberto Maggi

‘Ero straniero e mi avete accolto’:
la grande attualità del messaggio ‘antirazzista’ di Gesù
di Alberto Maggi


“Prima noi”, è il mantra con il quale si mascherano spietati egoismi e si giustificano inaudite durezze di cuore. È la formula magica di quanti chiariscono subito “non sono razzista, però…”, un “però” eretto come un invalicabile muro a difesa del “noi”, pronome che include, a secondo degli interessi, un popolo o la famiglia, una religione o un quartiere. Mentre per “prima” s’intende l’accesso e l’esclusiva precedenza a tutto quel che permette alla vita di essere dignitosa, dalla casa al lavoro, dall’assistenza sanitaria alla scuola; beni e valori che, sono fuori discussione, devono essere riservati per primi a chi ne ha pienamente diritto per questioni di lignaggio. Ovviamente, al “noi” si contrappone il “loro”, che include per escluderli, tutti quelli che non appartengono allo stesso popolo, alla stessa cultura, società, religione, o famiglia.

“Prima noi”, poi, eventualmente, se proprio ci avanza, si possono dare le briciole a chi ne ha bisogno, ovvero all’estraneo che attenta al nostro benessere economico, ai valori civili e religiosi della nostra società e alle nostre sacrosante tradizioni. “Loro” sono gli stranieri, i barbari. In ogni cultura chi proviene da fuori, incute paura. Lo straniero è un barbaro, colui cioè che emette suoni incomprensibili, (dal sanscrito barbara = balbuziente), colui che parla una lingua incomprensibile e che nel mondo greco passò a significare quel che è selvaggio, rozzo, feroce, incivile, indigeno.

Ero straniero

Nonostante nella Scrittura si trovino indicazioni che mirano alla protezione dello straniero (“Non maltratterai lo straniero e non l’opprimerai, perché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto”, Es 22,21), Gesù si è trovato a vivere in una realtà dove il forestiero andava evitato, e persino dopo la morte veniva seppellito a parte, in un luogo considerato impuro (“Il Campo del vasaio per la sepoltura degli stranieri” Mt 27,7). Al tempo di Gesù vige una separazione totale tra giudei e stranieri, come riconosce Pietro: “Voi sapete come non sia lecito a un giudeo di aver relazioni con uno straniero o di entrar in casa sua” (At 10,28).

In questo ambiente stupisce il comportamento del Cristo che da una parte arriva a identificarsi con gli ultimi della società (“Ero straniero e mi avete accolto”, Mt 25,35.43), e proclama benedetti quanti avranno ospitato lo straniero (“Venite benedetti del Padre mio”¸ Mt 25,34), dall’altra, Gesù accusa con parole tremende quelli che non lo fanno (“Via, lontano da me, maledetti… perché ero straniero e non mi avete accolto”, Mt 25,41.43), con una maledizione che richiama quella del primo assassino della Bibbia, il fratricida Caino (“Ora sii maledetto”, Gen 4,11). Se la risposta alle altrui necessità era un fattore di vita, la mancata risposta è causa di morte. Per Gesù negare l’aiuto all’altro è come ucciderlo.

Gesù non solo si identifica nello straniero, ma nei vangeli il suo elogio va proprio per i pagani, personaggi tutti positivi (eccetto Pilato in quanto incarnazione del potere) e portatori di ricchezza. Si teme sempre cosa e quanto si debba dare allo straniero e non si riconosce quel che si riceve dallo stesso. Nella sua attività Gesù si troverà di fronte ottusità e incredulità persino da parte della sua famiglia e dei suoi stessi paesani, ma resterà ammirato dalla fede di uno straniero, il Centurione, e annuncerà che mentre i pagani entreranno nel suo regno, gli israeliti ne resteranno esclusi (Mt 8,5-13; Mt 27,54).

Nella sinagoga di Nazaret, il suo paese, Gesù rischierà il linciaggio per aver avuto l’ardire di tirare fuori dal dimenticatoio due storie che gli ebrei preferivano ignorare: Dio in casi di emergenza e di bisogno non fa distinzione tra il popolo eletto e i pagani, ma dirige il suo amore a chi più lo necessita. Così nel caso di una grande carestia che colpì tutto il paese, aiutò una straniera, una pagana, “una vedova a Sarepta di Sidone” (Lc 4,26), e con tutti i lebbrosi che c’erano al tempo del profeta Eliseo, il signore guarì uno straniero: “Naamàn, il Siro” (Lc 4,27).

Prima noi? Gesù, manifestazione vivente dell’amore universale del Padre, vuole condividere i pani in terra pagana così come ha fatto in Israele (Mt 14,13-21). La resistenza dei discepoli di portare anche agli stranieri la buona notizia, viene dagli evangelisti raffigurata nell’incontro di Gesù con una donna straniera, cananea (fenicia) che invoca la liberazione della figlia da un demonio (Mt 15,22). La donna, succube dell’ideologia nazional religiosa che faceva ritenere i pagani inferiori ai Giudei, si accontenterebbe di poco, anche delle briciole (“Sì, Signore, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro signori”, Mt 15,27). Nella tradizione biblica i figli di Israele sono chiamati a dominare le nazioni pagane, mentre i pagani sono destinati ad essere dominati. Non c’è uguaglianza tra gli appartenenti al popolo eletto e gli esclusi. Gli uni sono figli, e gli altri cani, animali ritenuti impuri e portatori del demonio. Per questo non si può dare il pane a quanti, per la loro condizione di pagani, sono veicolo di impurità e contaminazione.

Sarà una donna, per giunta pagana, a impartire una lezione ai discepoli del Cristo. Costei ha infatti compreso che non ci sono dei figli e dei cani, quelli che meritano e gli esclusi, quelli che hanno diritto e quelli no, un prima (noi) e un dopo (gli altri), ma tutti possono cibarsi insieme, e allo stesso tempo, dell’unico pane che alimenta la vita. Essa comprende quello che i discepoli fanno fatica a capire e ad accettare, cioè, che la compassione e l’amore vanno al di là delle divisioni razziali, etniche e religiose.

La reazione di Gesù è di grande ammirazione: “Allora Gesù le replicò: Donna, grande è la tua fede! Ti sia fatto come vuoi”. (Mt 15,28), e ai pagani Gesù non concederà le briciole, ma anche in terra straniera ci sarà l’abbondante condivisione dei pani, segni della benedizione divina (Mt 15,32-39).

L’esperienza e il messaggio di Gesù verranno poi raccolti dagli altri autori del Nuovo Testamento, in particolare da Paolo, che in occasione di un naufragio, si stupirà per la “rara umanità” con cui lui e gli altri naufraghi sono stati ospitati dai barbari di Malta (At 28,2), e arriverà a capire una verità importante: “Qui non c’è più Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti” (Col 3,11; Gal 3,28).

La Chiesa ha compreso e annuncia che con Gesù non si possono innalzare barriere, ma solo abbattere tutti i muri che gli uomini hanno costruito (“Egli infatti è la nostra pace, colui che dei due ha fatto una cosa sola, abbattendo il muro di separazione che ci divideva…”, Ef 2,14), non solo i muri esteriori (mattoni), forse i più facili da demolire, ma quelli interiori (pregiudizi), mentali, teologici, morali, religiosi, i più difficili da estirpare perché li crediamo buoni o di provenienza divina.
(fonte: Il Libraio)


50° anniversario di sacerdozio di P. Pippo Insana - Rendiamo grazie a Dio per una vita donata a favore dei "senza voce"


 50° anniversario di sacerdozio di P. Pippo Insana



Rendiamo grazie a Dio 
per una vita donata a favore 
dei "senza voce"


“Il sacerdote deve vivere come fratello
 in mezzo ai fratelli”

Monforte San Giorgio (ME) 6 agosto 2017  - Il monfortese padre Giuseppe Insana ha festeggiato i cinquant'anni di sacerdozio nel suo paese natale presiedendo, domenica 6 agosto, la solenne celebrazione liturgica che ha preceduto la processione del santo patrono San Giorgio.
Al termine della cerimonia il sindaco di Monforte dott. Giuseppe Cannistrà gli ha consegnato una targa ricordo che esprime la riconoscenza di tutta la camunità paesana per la sua opera, mentre l'Arciprete padre Giuseppe Donia gli ha offerto a nome dellla parrocchia un contributo per le sue opere di carità. Anche i sindaci di Castelmola, Torregrotta e Roccavaldina, presenti alla cerimonia, hanno voluto esprimere a padre Insana sentimenti di riconoscenza per l'opera da lui svolta. 
In un'immaginetta fatta stampare per l'occasione (vedi immagini sotto) il sacerdote ha riassunto il senso della sua vita spesa a servizio di Dio e dell'uomo: “Ti benedico, o padre di misericordia infinita perchè mi hai chiamato nella sequela di Gesù a vivere con i piccoli, i malati, i carcerati, gli emarginati, gli esclusi”.
Padre Insana mostra così di essere stato fedele agli impegni che aveva assunto all'atto della consacrazione sacerdotale l'8 agosto 1967: “Il sacerdote deve vivere come fratello in mezzo ai fratelli”.
Padre Giuseppe Insana nasce a Monforte San Giorgio il 9 aprile 1944. Matura la sua vocazione al sacerdozio negli anni dell'adolescenza sotto la guida spirituale dello zio, don Raffaele Insana che svolge la sua missione sacerdotale a Santa Lucia del Mela. Ordinato sacerdote l'8 agosto 1967 , celebra la sua prima messa a Monforte il 13 agosto. Nei tre anni seguenti è impegnato a Santa Lucia come Assistente nel locale Seminario, Assistente dell'Azione Cattolica e Viceparroco della Cattedrale. Assume quindi nel 1969, sempre a Santa Lucia, l'incarico di Parroco della Parrocchia dell'Annunziata dove svolge la sua opera pastorale fino al 1979. Decide quindi di vivere a fianco dei lavoratori e per un quinquennio si impegna come prete operaio. Il 24 dicembre 1984 gli viene conferito l'incarico di Cappellano dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario "Madia" di Barcellona Pozzo di Gotto. Nel 1986 promuove la costituzione dell'Associazione di volontariato "Casa di Solidarietà e Accoglienza" divenendone responsabile. In questo nuovo ruolo egli approfondisce le problematiche della salute mentale e svolge una preziosa ed apprezzata attività in favore dei ricoverati dell'Ospedale Psichiatrico Giudiziario e dei malati mentali del territorio. L'opera di padre Insana permette agli internati di usufruire di licenze, di socializzare con l'esterno, favorisce i rapporti con le famiglie e l'inserimento nel mondo del lavoro con l'istituzione di corsi professionali. Le esperienze di riabilitazione e di reinserimento sociale degli ammalati guidate da padre Insana sono state oggetto di tesi di laurea. Contemporaneamente si impegna con "testardaggine" a stimolare le varie istituzioni perché continuino in modo responsabile il processo di deistituzionalizzazione del paziente mentale. Nel 1999 la Cyber Community dei Monfortesi nel mondo gli attibuisce il ”Premio San Giorgio” per meriti sociali. 
Il 6 dicembre 2000, alla presenza dell'Arcivescovo di Messina si inaugura a Barcellona la nuova sede dell'associazione di volontariato "Casa di Solidarietà e accoglienza”, il 31 marzo 2015 gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari vedono la loro chiusura definitiva premiando padre Insana dell'impegno profuso per l'approvazione della legge che ne ha decretato l'abolizione. Ma l'impegno di padre Insana non termina: con entusiasmo ma anche con fatica e rischio personale prosegue nella sua opera di carità verso le persone più deboli ed emarginate come punto di riferimento dell'Associazione di volontariato “Casa di solidarietà ed accoglienza” di Barcellona, da lui fondata .  (Fonte: Guglielmo Scoglio per "Il cittadino di Messina")

5° anniversario della morte di Carlo Maria Martini

La Messa in Duomo e le altre iniziative per il 
5° anniversario della morte di Carlo Maria Martini


Ricorre giovedì 31 agosto il 5° anniversario della scomparsa del cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano dal 1980 al 2002. Per farne memoria, Sua Eminenza il Cardinale Angelo Scola celebrerà una Messa di suffragio nel Duomo di Milano alle ore 17.30. Fra i concelebranti, il presidente e il vicepresidente della Fondazione Carlo Maria Martini, padre Carlo Casalone SJ e padre Giacomo Costa SJ.

In occasione dell’anniversario, sono diverse le iniziative promosse dalla nostra Fondazione. Anzitutto, a partire da oggi sono disponibili nuovi contenuti su questo sito. In particolare, nell’Archivio digitale sono state caricate oltre mille fotografie che hanno Martini come soggetto principale: si tratta perlopiù di album che le parrocchie ambrosiane donavano al proprio arcivescovo all’indomani delle visite pastorali, per fare memoria dell’evento. Sono poi 635 i nuovi documenti appartenenti al fondo dell’Ufficio per le comunicazioni sociali della Curia arcivescovile che è ora possibile consultare online: si tratta di omelie, meditazioni, interventi, relazioni tenute dal Cardinale dal 1985 al 1992.

Ancora, la sezione dedicata alle videointerviste a persone che hanno conosciuto Martini e collaborato con lui si arricchisce da oggi di 10 nuove testimonianze: sono quelle di Giovanni Barbareschi, Clara Biaggio, Enzo Bianchi, Gianni Cesena, Sandro Clerici, Diego Coletti, Gilberto Donnini, Mario Mozzanica, Gregorio Valerio, Gianni Zappa. Tutte le interviste sono integralmente disponibili nell’apposita sezione dell’Archivio digitale 

Guarda la clip sintetica della videointervista a Enzo Bianchi



Per quanto riguarda poi l’Archivio aperto, ovvero la sezione del sito che raccoglie i documenti spontaneamente inviati dai partecipanti alla Call for documents, sono stati caricati testi, audio, foto donati da 41 nuovi partecipanti. Ricordiamo che, dopo la pausa estiva, la Call riprende con le consuete modalità: è possibile condividere con la Fondazione documenti relativi a Carlo Maria Martini recandosi (previo appuntamento) nella sede di Milano, in Piazza San Fedele 4, il mercoledì pomeriggio, oppure caricando la documentazione in formato digitale direttamente dal sito, previa registrazione.

Sul fronte editoriale, segnaliamo infine due iniziative. 


La prima, promossa in partnership con la Fondazione, è stata lanciata il 23 agosto dal Corriere della Sera, dapprima con l’uscita, in abbinamento al giornale, del dvd Vedete, sono uno di voi, il film di Ermanno Olmi sugli anni di Martini come arcivescovo ambrosiano, e prosegue dal 31 agosto con la collana «Carlo Maria Martini, il cardinale del dialogo», composta da 13 uscite. 

La seconda novità editoriale è il volume edito da Garzanti, in libreria da alcune settimane, Introduzione ai Vangeli sinottici, la riedizione, con prefazione di Franco Manzi, di un fondamentale saggio degli anni in cui Martini era docente al Pontificio Istituto Biblico di Roma.


(fonte: Fondazione Martini)


Vedi lo speciale di Tempo Perso 


Il perdono nella Bibbia come nella vita è una cosa seria... non è un sentimento, è una decisione. - Le prediche di Spoleto 2017 LA PREGHIERA DI GESÚ: IL PADRE NOSTRO - "Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori" P. Ermes Ronchi

LA PREGHIERA DI GESÚ:
IL PADRE NOSTRO
a cura dell’Archidiocesi Spoleto-Norcia in collaborazione con Festival di Spoleto 60

È ormai tradizione che il Festival di Spoleto proponga nel suo programma un ciclo di "Prediche" che, grazie ad interventi qualificati, offra a quanti le vogliano ascoltare qualche spunto di riflessione e approfondimento.
Dopo le felici esperienze degli anni passati, il 2017 affronta il tema della preghiera partendo dal testo che Gesù di Nazareth ha consegnato ai suoi discepoli: il Padre nostro. Con Tertulliano, scrittore del secondo secolo d.C., la tradizione delle Chiese cristiane vede in quelle parole un compendio di tutto il Vangelo. In esse sono contenute le dimensioni essenziali della predicazione di Gesù e si ritrova come l’introduzione al suo insegnamento e al mistero stesso della sua esistenza.
Anche oggi, ripercorrere questo testo e addentrarsi nelle domande che formula - dal pane quotidiano al perdono reciproco - conduce a scoprire che cosa significhi pregare, se sia possibile parlare a Dio, se non si tratti di una illusione, se possiamo domandargli effettivamente qualcosa. Perché per pregare è indispensabile trovare il cammino del cuore; il cuore inteso non come luogo della vita affettiva e delle emozioni, ma come il centro della persona, punto preciso in cui l’uomo si conosce in verità. È per questa ragione che la preghiera non si può definire come un discorso rivolto a Dio o una riflessione intellettuale sull’essere di Dio. La preghiera cristiana si colloca su un altro piano. È un dialogo tra due esseri.
+ Renato Boccardo


Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

P. Ermes Maria Ronchi *
Docente alla Pontificia Facoltà Teologica "Marianum" - Roma
venerdì 14 luglio


Siamo alla quinta domanda del Padre Nostro. Che è la preghiera dove mai si dice io, mai mio. Ma sempre tuo e nostro. Preghiera espropriata. Dove ci scopriamo creature di legami, dove esistere è coesistere. In principio a tutto, il legame. Quello che ci lega a Dio: orizzonte ultimo; e quello che ci stringe all’orizzonte penultimo, i compagni di cordata. Pregare è aprirsi ai legami, aprire la nostra casa, come si apre una finestra al sole, una porta sul vento della strada; aprirsi in due direzioni: quotidiano ed eterno; l’eterno che si insinua nell’istante, l’istante che si apre sull’eterno. Rimetti a noi come noi rimettiamo agli altri. Ci mettiamo davanti a Dio e ci impegniamo ad essere per gli altri quello che vogliamo che Dio sia per noi. Vogliamo il suo perdono ma ci impegniamo davanti a Dio ad essere generosi di perdono. La premura per gli altri è dentro la preghiera, è testo di preghiera.

Nella quinta domanda del Padre Nostro accogliamo una definizione dell’essere umano: ci definiamo tutti come debitori. È un modo nuovo e leggero di abitare la terra: passare nel mondo come debitori grati a infiniti fratelli, e alla madre terra, riconoscenti e lieti per la vita, la salute, la cultura, il benessere, la scienza, le scoperte, i servizi, i miei maestri, il pilota dell’aereo che mi ha portato qui, la medicina, l’elettricista che ha fatto funzionare il microfono, il raccoglitore di cotone da cui viene la mia camicia. Noi viviamo di una ospitalità cosmica. Verso cui siamo debitori non creditori che esigono spietatamente ciò che pensano che spetti loro come diritto o dovere. Debitori non pretendenti. Il debito di esistere si paga solo con la gratitudine e con l’amore: non abbiate con nessuno altro debito che quello di un amore reciproco. Il collante del mondo, il tessuto connettivo della società, che ha il ruolo della particella Xi appena scoperta al Cern di Ginevra, definita la colla della materia, ebbene la colla degli spiriti è un debito, una gratitudine reciproca.

Ciò che tiene unito il mondo e connessa la storia non è la riscossione dei miei diritti, non è la meritocrazia, non è neppure la verità (la mia verità contro la tua verità e nascono tutte le guerre). È una strada che Nelson Mandela descrive così: «Il perdono libera l’anima, rimuove la paura. È per questo che è un’arma potente». «Il perdono strappa dai circoli viziosi, spezza le coazioni a ripetere su altri ciò che hai subito, la catena della colpa e della vendetta, spezza le simmetrie dell’odio» (Hanna Arendt). Alle offese si può reagire in modo antitetico con la vendetta o con il perdono. Chi imbocca la prima strada crede che al male subito si possa “riparare” mediante un altro male. Usa il male come cicatrizzante. Ma allora saranno non più una ma due ferite a sanguinare: «occhio per occhio. Se fosse applicata questa legge il mondo sarebbe cieco» (Kalil Gibran). Con il perdono invece si innesca un meccanismo che può portare a quel miracolo della storia che è stato il Sudafrica di Mandela alla fine dell’Apartheid, con la commissione per la giustizia e la riconciliazione.

Ricerca e riconoscimento della giustizia, innanzitutto: perché il perdono non va confuso con il subire in silenzio angherie, con l’accettazione dell’ingiustizia, come purtroppo per molto tempo è stato predicato soprattutto ai soggetti deboli, fossero le donne o i bambini violati, o i contadini e operai sfruttati dai padroni... Giustizia prima e poi riconciliazione. Noi siamo più della storia che ci ha partorito, possiamo andare oltre la vicenda che ci ha ferito. È chiaro che siamo anche quella storia e con quella dobbiamo fare i conti, non metterci semplicemente una pietra sopra, dimenticare: questo è rimozione, non perdono. Non fare i conti con il proprio passato ci rende pericolosi: le ferite rimangono aperte e siamo ostaggio di quel male che continua ad agire, anche se inconsapevolmente.

La cura non necessariamente sanerà la ferita, ma può farci capire che non tutto il mondo impugna un coltello pronto a colpirci. Ci sono anche mani che accarezzano accanto a quelle che ci hanno schiaffeggiato. Se non perdoni, vivi alimentando il tuo rancore e la vita si fa rancida, senti che la vita ti ha derubato di qualcosa e non sei capace di gratitudine né di stupore. Il perdono nella Bibbia come nella vita è una cosa seria. Non è fare come il cagnolino che lecca la mano che prima lo ha colpito. Non sempre è possibile ristabilire la relazione con chi ci ha ferito, non sempre è opportuno farlo. Non si può chiedere alla vittima di uno stupro di perdonare il suo stupratore fino a riconciliarsi con lui. Sarebbe inopportuno. Si può arrivare al perdono, a concedere e ricevere il perdono, senza che questo comporti il ristabilire un rapporto, un contatto. Anche la Bibbia ci racconta storie dove le ferite sono così gravi che non è più possibile riallacciare una relazione, come quando subentra un lutto. Se uccidi qualcuno non potrai più ristabilire la relazione. Puoi però fare un cammino perché le nuove relazioni siano differenti.

Il perdono nella Bibbia come nella vita è una cosa seria. Siamo abituati a una immagine banale del perdono, secondo una spettacolarizzazione del dolore. Chi non assistito alla classica scena televisiva del giornalista che piazza il microfono davanti a un volto distrutto e pone quella domanda oscena, indecente: perdona l’assassino di suo figlio? Questo riduce il perdono ad un semplice fatto emotivo, da consegnare allo spettacolo dell’audience, senza rispetto per il serio, lungo, complesso processo di perdono, che non si risolve magicamente, non va da sé come un fenomeno naturale, ma necessita di maturazione, implica rischio, impone scelte. Il perdono non è un sentimento, è una decisione. Non fa la sua comparsa come un moto spontaneo del cuore, domanda decisione perseveranza cambiamento. Perdonare non è una presa di posizione ideologica – se sei credente devi saper perdonare –. È piuttosto una sapienza sorta dalla vita, un discorso fatto a partire dalla grammatica della condizione umana. Perdonare il male ricevuto è come il tentativo di ristabilire relazioni che permettano di andare avanti, in modo positivo, nella vita, di essere se non proprio felici almeno in grado di pensare che la vita sia un dono e non un pacco, una fregatura... Perdonare non è dimenticare. È aprire futuro. Il bisogno di perdono è il bisogno di non trascinarci dietro per sempre il peso dei nostri sbagli, delle ferite, dei fallimenti, di non rinchiudere nessuno, né noi né gli altri, dentro ergastoli interiori, ma di liberare il futuro.

* P. ERMES MARIA RONCHI | È nato a Racchiuso di Attimis nel 1947. Ordinato sacerdote nel 1973, per l’Ordine dei Servi di Maria, consegue il dottorato in Storia delle religioni con specializzazione in Antropologia culturale alla Sorbona e in Scienze Religiose all´Institut catholique de Paris. È docente di Estetica Teologica ed Iconografia alla Pontificia facoltà teologica "Marianum" di Roma. Nel 2016, su incarico di papa Francesco, tiene le meditazioni degli esercizi spirituali alla Curia romana. È autore di numerosi libri su temi biblici e spirituali; collabora inoltre con diverse testate giornalistiche, tra cui Avvenire.

Vedi anche i post precedenti:

    mercoledì 30 agosto 2017

    Enzo Bianchi: Papa Francesco dà fastidio a tutti... non ha paura di essere umile, si è fatto portavoce dei poveri in nome del Vangelo, in lui non c'è nessuna ideologia, c'è la forza profetica del Vangelo!

    S​i è aperto giovedì pomeriggio (24/08/2017) presso la Cittadella di Assisi, il 75esimo Corso di studi cristiani, organizzato dalla Pro Civitate Christiana intitolato "Diamo futuro alla svolta profetica di Francesco", con l'intento di elaborare riflessioni e proposte provenienti da molteplici espressioni della Chiesa e della società italiana, per tradurre in scelte concrete e durature la ricchezza e la profondità dell'insegnamento di Francesco.

    Lo stile ecclesiale del Magistero di Francesco
    Guardando al magistero di Francesco, Tonio Dell'Olio - presidente della Pro Civitate Christiana - auspica che questo stile ecclesiale si possa radicare evangelicamente sino a divenire espressione di ogni comunità e contagiare ogni settore dell'umano, del sociale, dell'economico e del politico. Tonio Dell'Olio afferma che: "siamo più che consapevoli che per dare futuro alla svolta profetica di Francesco una mera operazione di make up non è sufficiente... La chiesa in uscita per essere incarnata, vissuta e proposta, ha bisogno di un autentico processo di conversione che riguarda tutti, pastori e fedeli". 

    Solo una Chiesa che si spoglia può guardare al futuro
    ​Anche il vescovo di Assisi- Nocera Umbra- Gualdo Tadino, mons. Domenico Sorrentino, intervenuto per portare i saluti della Diocesi, guardando all'esempio di Francesco, ha ricordato che​ "solo una Chiesa che si spoglia può essere capace di futuro". 

    Con Papa Francesco un nuovo clima di maggiore libertà nella Chiesa
    Sulla necessità di questo processo di "spoliazione", Enzo Bianchi, fondatore della Comunità ecumenica di Bose, richiamando l'esempio di san Francesco d'Assisi, ha auspicato una "semplificazione esterna della vita pontificia e lo smantellamento della corte terrena". ​Il primo discernimento che fa Bianchi nel suo intervento è che "Papa Francesco ha aperto un clima di maggiore libertà nella Chiesa​, si sono sopite alcune paure, diverse inibizioni, quello stesso clima che aveva chiesto e auspicato Paolo VI"

    Le contestazioni contro il Papa distruggono la comunione e la Chiesa stessa
    Sulle critiche a Papa Bergoglio, Bianchi ammette: "Esistono alcuni gruppi nella Chiesa che non si limitano ad una critica rispettosa, ma tengono un atteggiamento di contrapposizione e contestazione che si vuole non al Papa ma alla persona di Bergoglio, che distruggono la comunione e la chiesa stessa. Questa delegittimazione non ha precedenti nella storia della Chiesa degli ultimi secoli". "Papa Francesco ha uno stile capace di mutare la simbologia del papato - osserva ancora Enzo Bianchi - e vuole avviare il processo di riforma come Lui stesso ha ammesso. Lui è capace di umiliarsi per l'unità della Chiesa e andrà dove gli altri gli chiedono". 

    Francesco ci chiede un cammino di conversione
    "Va evidenziato lo sforzo di Papa Francesco di portare a compimento il Concilio Vaticano II e la volontà di instaurare una cultura del dialogo, un esercizio dell'ascolto e aprire ad una conversazione che porta al confronto e che non cerca di umiliare e delegittimare l'avversario. Papa Francesco - continua Enzo Bianchi - manifesta un'urgenza mai sentita: includere uomini e donne e non escludere nessuno dai percorsi della Chiesa". Conclude il fondatore di Bose: "Quello che ci chiede Papa Francesco è un cammino di conversione. Ma noi siamo capaci di operare questa conversione?" Infine Enzo Bianchi osa una previsione: "Se Papa Francesco persegue le vie del Vangelo, troverà il rifiuto delle forze anticristiane pronte a contrastarlo".
    (fonte: Radio Vaticana)


    Intervista di Enzo Bianchi a margine del corso "Diamo futuro alla svolta profetica di Francesco"

    ... Papa Francesco indubbiamente ha risvegliato l'ecumenismo... con molta determinazione fa dei gesti in cui non chiede neanche la reciprocità... arriva anche a riuscire a dialogare con chi non voleva dialogare con lui, riesce ad incontrare chi non avrebbe voluto incontrarlo perché evangelicamente non ha paura di essere umile e di abbassare, se vogliamo, i toni di una certa riverenza che si deve al Papa, pur di sentirsi fratello... anche se è a capo della Chiesa Cattolica.

    ... La 'Chiesa povera per i poveri' era uno dei grandi messaggi di Papa Giovanni XXIII, uno dei segni dei tempi che lui aveva intravisto; con una forza senza fine, un cristiano, un uomo, un vescovo che viene dal sud del mondo, che conosce la realtà della fame del mondo, di tanta gente che vive come scarti dell'umanità, lui si è fatto loro portavoce in nome del Vangelo, in lui non c'è nessuna ideologia, c'è la forza profetica del Vangelo che sa dire una parola che può anche dispiacere anche a molti Cattolici che non capiscono che il Vangelo è innanzitutto per i poveri! Questa è la volontà del Signore... e allora Papa Francesco ha una predicazione, degli atteggiamenti e un'accoglienza verso i poveri e i movimenti dei poveri che possono anche turbare e turbano molti cattolici, ma non sono cattolici del Vangelo, sono cattolici del campanile io li chiamo.

    ...Ci sono dei Cattolici soprattutto in certe zone del paese della nostra Italia che in nome di una identità localistica indurita, in nome anche di un'identità cristiana culturale, non evangelica, cominciano a non amarlo, Papa Francesco dà fastidio a tutti, ma io fino dai giorni dell'inizio del pontificato l'ho detto: Se lui annuncia il Vangelo troverà anche opposizione e dovrà anche soffrire una certa diffidenza da parte dei cattolici stessi.

    Guarda il video del'intervista a Enzo Bianchi


    Vedi anche il post (all'interno link ad altri post)


    Omelia di p. Aurelio Antista (VIDEO) - 27.08.2017 - XXI domenica del Tempo Ordinario / A



    Omelia di p. Aurelio Antista

     XXI domenica del Tempo Ordinario (A)  -
    27.O8.2017


    Fraternità Carmelitana 
    di Barcellona Pozzo di Gotto




    Il brano del Vangelo che abbiamo ascoltato ci pone difronte a questa domanda...: "Per voi chi sono io?" ... non è una domanda di poco conto, è una domanda sostanziale...
    La fede cristiana non è un'adesione intellettuale ad un determinato numero di verità in cui credere, non è un'ideologia e neanche un codice morale da osservare, la fede cristiana è innanzitutto e soprattutto una relazione d'amore tra il Dio della Trinità, così come Gesù ce lo ha rivelato, e noi. Una relazione d'amore tra Dio e noi.
    La fede cristiana è accoglienza di Gesù, accoglienza della sua parola, del suo vangelo, della sua persona, del suo mistero, del suo insegnamento, è adesione a Lui...

    Chiediamo al Signore che possiamo dire insieme a Pietro: Tu sei l'amico, Tu sei il compagno di viaggio che ci accompagna, ci sostiene nelle difficoltà, Tu sei la luce che illumina il nostro cammino, Tu sei il sale che dà sapienza al nostro vissuto, Tu sei soprattutto il Signore della nostra vita, Colui che dà pienezza di senso al nostro vivere quotidiano e prospettiva ultima di una vita in cui saremo tutti uniti nella casa del Padre, tutti figli amati da Dio che è amore che accoglie, che perdona ed è misericordioso verso tutti e ciascuno.

    Guarda il video


    Don Luigi Ciotti: Il rinnovamento del nostro percorso deve fondarsi su tre parole: noi, verità, educazione.


    La direzione 
    del nostro impegno
    di Luigi Ciotti


    L'EDITORIALE DI DON LUIGI CIOTTI SUL SECONDO NUMERO DEL 2017 DI NARCOMAFIE

    Uno dei primi obiettivi di Libera si chiama trasformazione. In una società in rapido mutamento, abbiamo la necessità di trasformarci nella continuità dei nostri orientamenti. Necessità di aprirci alla vita, di accoglierne le diversità. È nel confronto continuo con le diversità che avviene la crescita. La storia di Libera è, in definitiva, una storia d'incontri e di confronti. Essere una rete di associazioni, un'associazione tra associazioni vuol dire in sostanza questo: ravvivare il nostro desiderio d'incontrarci e d'incontrare gli altri. Libera è un'aggregazione di soggetti diversi, ciascuno con una propria storia, una propria tradizione, una propria dimensione culturale e valoriale.
    Questa differenziazione è vitale perché ci permette di non chiuderci, di non fossilizzarci. Perché ci aiuta a scoprire e intraprendere sentieri nuovi, ci chiama a metterci e rimetterci in gioco, ci obbliga a rifiutare la routine. Viviamo in un'epoca complessa. E in tutta questa complessità, in questo continuo pensarci e ri-pensarci, è essenziale non abbandonare mai la via della semplicità e dell'umiltà. E insieme evitare il rischio di diventare "specialisti della perplessità". Il dubbio, beninteso, è fondamentale: senza dubbio non c'è consapevolezza, non c'è crescita. Ma che non sia il dubbio per partito preso, che dice sempre "no" nella convinzione di saperla più lunga. Questa è presunzione.
    Allora va bene dubitare, obiettare, ma poi anche proporre, cercare soluzioni, costruire possibilità. Non avere paura di lasciarsi sorprendere dalla vita. Seguire gli schemi è comodo, ma non porta lontano.
    Ciascuna delle componenti di Libera (i soci, i presidi, i coordinamenti provinciali e quelli regionali, la segreteria nazionale e l'ufficio di presidenza) deve saper ascoltare, deve lasciarsi arricchire dalle ragioni degli altri.

    Non in una semplicistica, incondizionata accettazione, ma in una condivisione di percorsi, in una ricerca di ragioni comuni. Perché la base di tutto resta il "noi", la condivisione e la corresponsabilità.

    Si sprigioni "simpatia" dalle nostre attività. Si sprigioni simpatia dal nostro modo di fare. L'Italia, dal Sud al Nord, è una fabbrica in fermento di idee e di percorsi meravigliosi. Il nostro compito è di sostenerli, di accompagnarli. Dobbiamo gioire della riuscita degli altri, rattristarci delle loro difficoltà. Cercare di essere profeti: scorgere nel presente i segni del futuro.
    Lasciarci guidare dall'intelligenza e dal "fuoco" della relazione, quella tra di noi innanzitutto. E metterci cuore, metterci coraggio. Non si tratta di fare cose straordinarie, ma di guardare ogni giorno nella coscienza. Coraggio è ascoltare la propria coscienza e assumersi le responsabilità che essa ci chiede di assumere. Questo rinnovamento del nostro percorso deve fondarsi su tre parole.

    La prima, è "noi". Parola bellissima che però ci sta sfuggendo di mano. Perché c'è chi la usa in maniera distorta, chi ne altera il senso, chi ne fa un trampolino per ambizioni personali. Attorno al "noi" ci sono troppi abusivi, troppi incantatori. Libera deve riprendersi questa parola, ripulirla, bonificarla. C'è una responsabilità delle parole. Le parole sono azioni, sono impegni. Solo se riconosciamo loro questo peso, questo valore, diventano vie di accesso alla verità, non strumenti per occultarla o per distorcerla.

    La seconda parola è "verità". La più difficile e esigente delle parole, tale da coinvolgere l'integrità delle nostre vite. Non si può essere ricercatori di verità a intermittenza, solo quando fa comodo, solo se c'è un interesse.
    La verità non ammette calcoli, opportunismi. Richiede un'adesione totale e incondizionata.

    La terza parola è "educazione". Da sempre Libera è impegnata nelle scuole, lavora con i giovani, al fianco dei docenti, dei genitori anche nelle parrocchie, nei circoli, in molti contesti formativi. Questo perché oggi, come mai, abbiamo bisogno di educare.

    Danilo Dolci diceva che l'educazione è un sogno condiviso. Mi permetto di aggiungere che non è opera di navigatori solitari. Non si educa da soli e non ci si educa da soli. Si educa e, nel contempo, si viene educati. In questo senso l'educazione è un progetto corale: siamo tutti educatori, nessuno escluso, e siamo tutti educati, nessuno escluso.

    Ed è un progetto fondato sulla fiducia. In definitiva instaurare un rapporto educativo è instaurare un rapporto di fiducia, perché fondato innanzitutto sull'ascolto e sul riconoscimento dell'altro. Tutto questo rimuove gli steccati: che siano sociali, anagrafici, economici, l'educazione li fa saltare, generando rapporti paritari, rapporti di reciproco riconoscimento. Per questo l'educazione è il primo antidoto alla malattia del potere, al dominio e allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Educare è costruire una società consapevole, e una società consapevole non accetta una politica muta. Oggi il mutismo della politica di fronte alle questioni sociali è inquietante, ma non bisogna generalizzare. In certi contesti, in certe realtà, c'è anche una buona politica, che cerca di cambiare le cose, che agisce per il bene comune.

    In una società consapevole e corresponsabile, le mafie e la corruzione non troverebbero spazio. E invece abbiamo in Italia milioni di persone in povertà, abbiamo due milioni di ragazzi che non studiano e non lavorano. È su questo sostrato di disuguaglianze che attecchiscono le mafie. Ci insegna Giovanni Falcone che la lotta alle mafie è essenzialmente una lotta di civiltà, un impegno per costruire una società meno disuguale, meno ingiusta. Un impegno a cui tanti, troppi, sono venuti meno.
    Non dobbiamo aver paura di denunciare che l'economia mafiosa s'intreccia spesso con l'economia legale, vive e prolifera nei canali e nelle zone grigie del "mercato", nei coni d'ombra della finanza. Le mafie sono anche il risultato dei vuoti che lasciamo: vuoti di comunità, vuoti di responsabilità, vuoti di memoria, vuoti di amore. Sono forti dove predomina l'indifferenza, il cinismo, l'idea che i problemi degli altri non siano anche nostri. Pensiamo all'immigrazione: le mafie e le bande criminali si arricchiscono con i drammi e le tragedie di un'umanità esclusa, respinta.

    Perciò siamo chiamati a fare testamento. Non il testamento che si scrive a fine vita e che tocca ad altri far rispettare. Ma un testamento scritto di giorno in giorno con le nostre azioni, con le nostre scelte, con i nostri comportamenti. Un testamento che si chiama impegno.



    martedì 29 agosto 2017

    GESÙ, IL MITE di Gabriella Del Signore (VIDEO INTEGRALE)

    GESÙ, IL MITE 
    di Gabriella Del Signore
     (VIDEO INTEGRALE)

    Relazione tenuta il 10 agosto 2017 
    nell'ambito della settimana di spiritualità 2017
    “LA FORZA MITE E CREATIVA
    DELLA NONVIOLENZA”
    promossa dalla Fraternità Carmelitana 
    di Barcellona Pozzo di Gotto (ME)




    Beati i miti, perchè erediteranno la terra
    - La mitezza evangelica è una pietra angolare, è la coraggiosa denuncia del male ed è il rifiuto di ogni forma di ingiustizia, sopraffazione, compromissione con il male.
    - Gesù  definisce se stesso "mite" e,  proprio perché mite, egli non partecipa al male in nessun modo .
    ...


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    Tonio Dell’Olio: La svolta di Francesco è fatta di gesti e di parole rivolti alla Chiesa e non solo ad essa... La sua 'svolta profetica' possibile solo con un laicato più adulto e consapevole...

    Papa Francesco: Dell’Olio (Pro Civitate Christiana), 
    i laici lo aiuteranno nella sua “svolta profetica”

    “La svolta di Francesco è fatta di gesti e di parole rivolti alla Chiesa e non solo ad essa. Vogliamo cominciare dall’ascolto, e questo è stato il primo passo”. Tonio Dell’Olio, presidente della Pro Civitate Christiana, descrive così il 75° corso di studi cristiani sul tema “Diamo futuro alla svolta profetica di Francesco”, che si è appena concluso ad Assisi con l’intervento del segretario generale della Cei, monsignor Nunzio Galantino. “Occorre rieducarci a confrontarci con il magistero pontificio”, la provocazione di Dell’Olio: “Siamo fin troppo allenati a leggere i discorsi, ma ci sono prese di posizione, gesti, che vanno letti, interpretati e ascoltati alla luce del Vangelo. Noi vogliamo scommettere che questi gesti del Papa possano diventare contagiosi”. Prossima tappa: proporre alle Chiese locali una riflessione più approfondita sulla Laudato si’, in modo da poterne mettere in pratica le indicazioni.

    Il primo versante su cui vi siete interrogati ad Assisi è il “modello teologico” di Bergoglio. In che modo lo sintetizzerebbe?

    Con una parola: tenerezza. Dio non è l’Onnipotente, se non nell’amore: la tenerezza scardina i parametri delle mafie e di chiunque si presenti come braccio armato di un Dio castigatore, potente nel senso più umano del termine.

    Prima ancora della riforma della Curia, dell’Amoris Laetitia e delle altre trasformazioni in atto, la trasformazione-cardine di Papa Francesco è quella teologica.

    È una visione diversa, forse capovolta di Dio: il nostro Dio – ripete spesso Bergoglio – è un Dio che perdona, che non si stanca mai di perdonare. Siamo noi che ci stanchiamo di rivolgerci a Lui.

    Il sogno di Francesco, come lui stesso ha rivelato ai giornalisti poco dopo l’elezione al soglio di Pietro, è quello di “una Chiesa povera per i poveri”. A che punto siamo, nella concretezza delle nostre comunità locali?

    I passi avanti su questo versante ci sono stati, ma nel complesso siamo molto impreparati.

    In un mondo dove tutto è economia, la povertà viene frantumata, appiattita solo sul possedere o non possedere.

    Questo aspetto è naturalmente importante, ma la povertà non è solo quello. Di fronte ai diversi volti della povertà bisogna destrutturarsi, aprirsi, mettersi in uscita, non con l’atteggiamento di chi ha la verità da scaricare sulle spalle degli altri, ma con la capacità d’incontro e di dialogo propria di chi sa riconoscere anche nell’altro un pezzo di verità. In questa prospettiva, la povertà è molto più profonda della semplice rinuncia dei beni. L’umiltà è una forma di povertà: dirlo da Assisi diventa una provocazione alle nostre coscienze. San Francesco non ha soltanto rinunciato agli abiti firmati, ma anche a tutte le forme di potere e, proprio grazie a questa rinuncia, ha potuto incontrare liberamente i lebbrosi.

    Tra i binari del vostro corso c’è stata anche una riflessione sull’ecologia a partire dalla Laudato si’: quale la lezione da raccogliere?

    Come Papa Francesco c’insegna, c’è un doppio binario da tenere in considerazione per dare corpo ad un’autentica ecologia integrale: quello degli stili di vita, che comporta la capacità di rivedere le proprie abitudini, la relazione stabilita non solo con il creato ma anche con i beni, e quello del cambiamento strutturale, che implica la denuncia delle situazioni che si configurano come ingiustizie nei confronti del creato e dei più poveri.

    Basti pensare al tema degli ecoprofughi, costretti ad emigrare per motivi ambientali, a fuggire dalle loro terre ormai desertificate a causa del nostro modello di sviluppo, di cui si prendono la parte peggiore.

    Se pensiamo alla questione delle migrazioni non solo da Lampedusa in poi, ci accorgiamo che nel mondo c’è gente che rivendica e chiede pari dignità, ciò che le spetta e le abbiamo sottratto.

    Lo “spirito di Assisi” soffia per Bergoglio anche sul versante del dialogo ecumenico e interreligioso…

    C’è una netta continuità tra Francesco e i suoi predecessori: Giovanni Paolo II ha convocato qui i rappresentanti delle diverse religioni per pregare e impegnarsi a favore della pace. La difficoltà più forte oggi è riuscire a permeare dello “spirito di Assisi” le convinzioni e gli atteggiamenti delle diverse comunità di fede. L’auspicio è che il dialogo non sia confinato nell’ambito del confronto quotidiano, ma diventi pratica quotidiana, visita alle moschee e alle sinagoghe, per aumentare la nostra conoscenza e comprensione dell’altro, unire le forze e costruire ponti con i piccoli oltre che con i grandi gesti.

    La “Pro Civitate Christiana” ha compiuto 75 anni. Cosa si augura per il futuro?

    Credo che rimanga ancora attuale l’intuizione originaria dalla quale è nata: far acquisire dignità piena ai laici. Un principio, questo, fatto proprio dal Concilio Vaticano II e sancito dall’Evangelii gaudium. Mi auguro che anche i prossimi 75 anni siano all’insegna del protagonismo del laicato. Perfino la svolta di Papa Francesco non sarà realizzabile se non con un laicato più adulto e consapevole, capace di offrire il proprio contributo per accompagnare questa svolta storica.

    I laici sono uomini e donne di frontiera, nei vari ambiti della vita quotidiana: nessun cambiamento sarà possibile se non si investe nei prossimi anni a favore della crescita di un laicato adulto e consapevole. Ecco perché qui ad Assisi, piuttosto che un corso, abbiamo pensato di fare un percorso: un cantiere.

    (fonte: Articolo di Maria Michela Nicolais, pubblicato da SIR il 28/08/2017)



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    LA SINODALITÀ SIA UNA PRATICA ABITUALE DELLA CHIESA Intervista al teologo Giuseppe Ruggieri (parte seconda)

    LA SINODALITÀ
    SIA UNA PRATICA ABITUALE 
    DELLA CHIESA

    Intervista al teologo Giuseppe Ruggieri
    a cura di Giampiero Forcesi 

    Il testo della presente intervista (parte seconda) viene pubblicato anche dalle riviste: Dialoghi (Lugano/CH), Esodo (Mestre/VE), Il gallo (Genova), il tetto(Napoli), Koinonia (Pistoia), l’altrapagina (Città di Castello/PG), Matrimonio(Padova), Nota-m (Milano), Oreundici (Roma), Tempi di fraternità (Torino).
    Le riviste, che aderiscono alla Rete dei Viandanti, con questa iniziativa vogliono dare visibilità ad un progetto comunicativo unitario, che intende, tra l’altro, promuovere una riflessione sui temi che papa Francesco indica per la riforma della Chiesa, a partire proprio dalla questione della sinodalità. (V)

    * * * * * *

    Nel tuo libro “Chiesa sinodale” la questione dei rapporti tra chiesa universale e chiese locali occupa un posto centrale.
    E scrivi che uno dei limiti del Vaticano II è stato di non aver esplicitato la dinamica dell’ordinazione episcopale e, di conseguenza, di non aver valorizzato la chiesa locale.
    Un esempio delle conseguenze negative di questa carenza, chealcune decisioni romane hanno acuito nel post-concilio, è stata la progressiva messa in sordina dell’esperienza ecclesiale dell’America latina. 
    Guardando alla tradizione della chiesa antica, scrivi che la localitàdella chiesa non è un fatto casuale o un’esigenza amministrativa ma è un fatto di grazia. Puoi esplicitare questa tua riflessione e le sue implicazioni?

    Questo pensiero, che la località di ogni chiesa sia un fatto di grazia, non è originariamente mio, ma del compianto padre Jean-Marie Tlllard ed è stato molto sottolineato da un allievo del Congar, il padre Hervé Legrand. Nel Vaticano II, con la preoccupazione di riscoprire la collegialità e l’autorità dei vescovi non derivata dal papa ma dal sacramento della consacrazione episcopale come tale, mancò l’approfondimento del rapporto “costitutivo” tra ogni vescovo e la sua chiesa.

    Nella chiesa antica invece il rapporto era fondamentale: lo stesso cambio di sede episcopale era considerato un fatto anomalo, e non si potevano dare ordinazioni cosiddette “absolutae”, sciolte cioè dal legame dell’ordinato con una chiesa locale (canone 6 del concilio di Calcedonia). È in forza di questo legame che un vescovo partecipa alla “sollecitudine per tutte le chiese”. E la consacrazione episcopale era un fatto che coinvolgeva anzitutto il presbiterio, poi il popolo che doveva confermare la decisione, e quindi i vescovi vicini che dovevano consacrare l’eletto, giacché il vescovo rappresentava l’anello di unità con tutta la chiesa. Ogni chiesa locale portava per ciò stesso dentro la chiesa tutta la sua storia, le sue scelte, i suoi doni, ma anche le sue debolezze.

    Ma l’apporto di grazia di ogni chiesa non appartiene soltanto al passato. Penso soprattutto al più grande fatto di rinnovamento della chiesa dopo il Vaticano secondo, cioè la maturazione dell’atteggiamento nei confronti dei poveri in America Latina, che ha dato origine alle varie forme di teologia della liberazione. Quella teologia nella sua ispirazione fondamentale non era un insieme di concezioni partorite dalla mente dei teologi, ma espressione di una rinnovata coscienza evangelica da parte di quelle chiese, in primo luogo dei loro vescovi (come non pensare a dom Helder Camera o a dom Pedro Casaldaliga o a Oscar Romero?). Tutto ciò è grazia, cioè esistenza umana concreta vivificata dallo Spirito di Gesù di Nazaret, crocifisso e risorto. Giacché la grazia di Dio non è astratta, ma concreta e raggiunge uomini e donne in carne e ossa, con tutti i loro condizionamenti storici. La comunione ecclesiale è quindi vitalmente incontro, correzione reciproca, non soltanto nel rapporto tra i singoli, ma nei rapporti tra gruppi, istituzioni, chiese.

    Il capitolo del libro intitolato “Per una chiesa della fraternità e della sororità” riprende il testo che hai presentato a Firenze nella prima tappa di quel percorso a cui era stato dato il nome “Il vangelo che abbiamo ricevuto”.
    Nello spiegare il senso di quella proposta avevi scritto: “Non ci appelliamo a una chiesa alternativa ma esprimiamo la volontà che la libertà di parola, il confronto sine ira, la comunione e lo scambio non si spengano”; e avevi tracciato la via di una chiesa che, da un lato, “si oppone all’autoritarismo clericale” e, dall’altro, in positivo, “esige la responsabilità di tutti, nella varietà di ministeri e carismi, attraverso il criterio principe del consenso dei fedeli”.
    “Il motivo ultimo” che vi aveva spinto a promuovere quell’iniziativa, dicevi, era “la sofferenza di non vedere al centro dell’attenzione della chiesa il Vangelo del Regno annunciato da Gesù ai poveri e ai peccatori, mentre cresce a dismisura la predicazione della Legge”.
    Il vostro appello era a una chiesa non della condanna ma della misericordia.
    L’iniziativa si è interrotta, tu racconti, perché, con la sua venuta nel marzo del 2013, le istanze da cui avevate preso le mosse erano finalmente testimoniate da papa Francesco, e in primis proprio l’annuncio della misericordia, in questo sulle orme di papa Roncalli.
    Nel libro non lo hai fatto, ma vuoi qui abbozzare – proprio a partire dall’istanza di una chiesa sinodale – una prima lettura dell’impatto di Francesco sulla chiesa, in particolare quella italiana?

    L’iniziativa a cui ti riferisci nasceva, come hai detto, da una sofferenza. Per coloro che, come me, avevano vissuto la primavera del concilio dal di dentro, era molto forte la sensazione dell’“inverno” (l’espressione era del padre Karl Rahner) che era progressivamente sopravvenuto nella chiesa. All’atmosfera di apertura degli anni conciliari, determinata dall’affermazione del primato di quella che papa Giovanni XXIII chiamava la “sostanza viva” del vangelo, quella che nutre il cuore di ogni uomo e di ogni donna che credono, era subentrata per vari motivi, non ultimi quelli culturali legati alla stagione postsessantottina, la paura, la difesa della “dottrina”, la ripresa delle condanne, la delegittimazione delle scelte di intere conferenze episcopali (soprattutto quelle latino americane).

    Non vorrei apparire un pessimista: non mancavano infatti segni che mantenevano la speranza, come la richiesta di perdono per tutta la chiesa da parte di Giovanni Paolo II, gesti profetici come l’incontro di Assisi fra i rappresentanti delle chiese e delle religioni nel 1986, ecc. L’iniziativa del “vangelo che abbiamo ricevuto” voleva, in quel clima, mantenere la speranza nella forza del vangelo come tale. L’elezione di Bergoglio a vescovo di Roma ha cambiato l’atmosfera. La sua esortazione “Evangelii gaudium”, senza molte citazioni della lettera del concilio Vaticano II, ha ridato spazio a molte delle correnti calde dell’evento conciliare: la centralità del vangelo rispetto alle dottrine, il primato della misericordia, l’attenzione privilegiata ai poveri, e via dicendo.

    Non meraviglia quindi che il messaggio di papa Francesco incontri anche forti resistenze. Credo che il motivo principale di queste resistenze stia nella non accettazione da parte di alcuni della centralità del vangelo rispetto alla dottrina e alla disciplina ecclesiastica. Vedi, in questo senso, il tentativo dei cardinali Brandmüller, Burke, Caffarra e Meisner, di suscitare un procedimento di impeachment del papa in quanto non ortodosso, dopo l’esortazione postsinodale Amoris laetititia. Per altri invece, anche vescovi, il motivo è la difficile assimilazione di una mentalità alla quale non erano preparati. La diagnosi della situazione attuale resta tuttavia molto complessa. Papa Francesco, che ha espresso la sua convinzione sulla natura sinodale della chiesa, ha per altro verso una concezione alquanto “gesuitica” del suo ministero: ascoltare tutti, ma alla fine decidere da solo.

    E in ogni caso non credo che sia possibile la cosiddetta riforma della curia. Nel Novecento le varie riforme della curia, compresa la sua cosiddetta internazionalizzazione, non hanno prodotto una effettiva riforma. In ultimo, infatti, la riforma della curia presuppone quella del papato. Fin quando il papa non rinuncerà ai “privilegi” accumulati nel secondo millennio nella chiesa latina, la curia continuerà ad avere un ruolo esagerato nella vita della chiesa, con grave pregiudizio delle chiese locali. La curia, non dimentichiamolo, è un organo del papa per l’esercizio del suo governo. Francesco ha fatto un gesto importante in questa direzione: la devoluzione ai tribunali diocesani delle cause di nullità matrimoniale. Ma questo è solo un piccolo passo, anche se fino adesso è, a mio avviso, accanto alla decisa affermazione e testimonianza personale della priorità del vangelo, il fatto più importante sulla via per la riforma istituzionale della chiesa latina.

    La parte conclusiva del tuo libro la dedichi al pensare la fede nel tempo presente. Parli di una pratica della teologia che è anch’essa sinodale, risultato dell’azione dei diversi soggetti della comunità ecclesiale. E riprendi l’invito, che è stato di Giovanni XXIII e del Vaticano II, di leggere i “segni dei tempi”, osservando però che il concilio non ha offerto una spiegazione adeguata del loro significato, perché mancava, e forse ancora manca, una appropriata ermeneutica teologica, e cioè quella che chiami una “prospettiva messianica”. Si tratta, scrivi, di porre tutta la storia sotto la luce messianica.
    Questo mi pare un punto cruciale: la chiesa sinodale che è al centro di tutto il libro ha la responsabilità di vivere e di comunicare “il vangelo che abbiamo ricevuto”, e dunque ha il bisogno di interpretare i segni dei tempi.
    Ma, dunque, quale è la chiave interpretativa che tu indichi per leggere i segni di Dio nella storia che viviamo?

    La chiave interpretativa dei segni dei tempi sta, a mio avviso, nella comprensione delle parole di Gesù stesso, laddove rimprovera i farisei di saper distinguere l’aspetto del cielo ma di non riuscire a discernere i segni dei tempi, con la conclusione che “una generazione malvagia e adultera richiede un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno del profeta Giona” (Cf. Mt 16, 1-4).

    Il segno che è Gesù con la sua morte, accolta da Dio nella risurrezione, è il segno dei tempi per eccellenza, quello in cui irrompe il Regno di Dio. Nella prassi di Gesù, e nella prassi di coloro che lo seguono, emergono, anzi si “costituiscono”, nel senso letterale della parola, i segni dei tempi. Questi segni infatti non vanno identificati con un qualsiasi fenomeno umano, sia esso il più alto e spirituale possibile, ma “nascono” dalla partecipazione alla sofferenza della creazione. La domanda fondamentale e decisiva, rispondendo alla quale viene determinato ultimamente il criterio che comanda un’interpretazione dei segni dei tempi, deve essere allora così formulata: come possiamo costituire anche noi dei segni dei tempi, quelli nei quali si avvicina a noi il regno di Dio, a imitazione di colui che fu e resta il segno dei tempi per eccellenza, Gesù Messia?

    La risposta mi sembra allora molto semplice, anche se poi è estremamente difficile tradurla in pratica: si costituisce una prassi messianica, si pone un segno dei tempi nei quali il Regno di Dio si avvicina all’uomo, quando, a imitazione del Messia Gesù, ci si carica del peso dell’altro che soffre (cf. Gal 6,2: compiere in noi la legge del Messia portando i pesi l’uno dell’altro). Il caricarsi del peso dell’altro non dipende dalle sue qualità morali, ma dalla sofferenza come tale.

    C’è un passaggio del libro di Giobbe che getta un lampo straordinario di luce, quasi abbagliante, a questo proposito: “All’uomo sfinito è dovuta pietà/heseddagli amici, anche se si fosse allontanato dal timor di Dio” (6, 14). La distretta umana – anche quella del peccato – esige la pietà/hesed, termine che nell’AT comprende quello di misericordia. La sofferenza, a prescindere dall’atteggiamento morale di chi la subisce, acquista allora come tale spessore “teologico”. E questa è la grammatica delle Beatitudini.
    (fonte: Viandanti)

    Vedi la scheda del libro di Giuseppe Ruggieri, Chiesa sinodale, Editori Laterza

    Vedi anche il post precedente:


    lunedì 28 agosto 2017

    La catechesi di don Fabio Rosini su Sant'Agostino (video)

    La catechesi di don Fabio Rosini su Sant'Agostino


    ... Non è che tu capisci la vita, è lei che capisce te... non la devi interrogare, è lei che interroga te e scopri che ti interroga con misericordia, che la vita è paziente, che il Dio che cerchi non è un ente mettitore di assoluti, ma è qualcuno che inizia a piegarsi, ti viene appresso, ha pazienza con te e ti aspetta, è qualcuno che perdona, perdona, perdona...

    La forza di Agostino... è che è un uomo che è stato perdonato, lui ha incontrato il perdono e lo canta meravigliosamente. La forza di Sant'Agostino è la forza di chi sa che ha davanti una Persona, non un'idea da capire, una Persona che lo ama, e infatti canta l'amore come nessuno e capisce che l'unica soluzione è rispondere all'amore, è lasciarci amare e riamare chi ci ha amato...

    Quello che ci porta a vivere bene è rispondere alla tenerezza di Dio...

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