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lunedì 29 maggio 2017

Custodire il "Deserto" di Enzo Bianchi

Custodire il "Deserto" 
di Enzo Bianchi

Pubblicato nel numero di marzo/aprile della rivista "Vita e Pensiero" 
bimestrale di cultura e dibattito dell’Università Cattolica.





Quando l’editto di Costantino nel 313 d.C.consacrò la libertà di culto cristiano e l’adozione del cristianesimo come religione dell’impero, il variegato fermento di «radicalità» che abitava ampi settori del mondo cristiano si trovò a confrontarsi con uno sviluppo inatteso della Chiesa: il cristianesimo conobbe la sua prima autentica “crisi di crescita”. Venute meno le persecuzioni, veniva meno anche la «testimonianza» per eccellenza, quella martyria offerta da quanti erano pronti a versare il proprio sangue per affermare la fede nel Signore Gesù, morto e risorto.Si assisteva a un progressivo estendersi del numero dei fedeli e, di pari passo, a un affievolimento delle esigenze richieste ai catecumeni e ai neo-battezzati: così la vicenda della primitiva comunità cristiana di Gerusalemme e le vite dei martiri della fede iniziarono a essere lette come testimonianze di una «età dell’oro» in cui il Vangelo era stato vissuto con purezza e integrità ormai smarrite. Alla forma per antonomasia della santità, il martirio di sangue, si affiancò allora quella dell’eremitismo, caratterizzata da una «separazione», una anacoresi, un ritiro in un luogo deserto.

L’area originaria di questo movimento ascetico abbracciava l’intero Egitto, la Palestina e la Siria: da qui,esperienze indipendenti e parallele di vita eremitica o cenobitica si estenderanno gradualmente alla Cappadocia e all’Occidente, cominciando dalle aree mediterranee di Gallia e Italia. Il deserto rimarrà in ogni caso elemento comune alle varie esperienze,carico com’è di reminiscenze bibliche, dai quarant’anni di Israele in attesa di entrare nella terra promessa, fino ai quaranta giorni di tentazioni vissuti da Gesù all’inizio del suo ministero pubblico: luogo di prova e tentazione, ma anche di fidanzamento tra Dio e il suo popolo, come canta il profeta Osea.

Ma cosa cercano i primi monaci e in particolare gli eremiti fuggendo nella solitudine del deserto? O, meglio,da cosa fuggono con questa anacoresi? Innanzitutto dall’ormai onnipresente potere dell’impero: nel deserto l’imperatore non cerca sudditi cui imporre tributi, né adoratori che lo venerino, né vi invia funzionari che lo rappresentino o coloni che ne bonifichino il terreno,tutt’al più si limita a reclutarvi qualche nomade per il suo esercito. In questo senso la fuga nel deserto è contemporanea e non successiva alla testimonianza del martirio di sangue: sono due vie per affermare con tutta la propria vita che si vuole servire solo il Signore e sovente la scelta per l’una o per l’altra è imposta dalle condizioni esterne.

Il deserto per sua natura predispone tutto affinché nella vita di chi lo abita non ci sia alcun Dio al di fuori del Signore, alcun’altra realtà oggetto di adorazione e di culto. Questo desiderio di servire un unico Signore si accompagna a un rifiuto della mentalità mondana, del modo di pensare, di agire, di giudicare proprio di chi serve a diversi padroni, di chi adegua i propri comportamenti non alla loro conformità al Vangelo, bensì al loro grado di opportunità e convenienza, al successo, al denaro o più semplicemente al quieto vivere che assicurano. Tuttavia l’eremitismo, proprio per la sua specificità anche all’interno del fenomeno monastico,sarà sempre letto e interpretato in modo ambivalente: da un lato, lo si considera la forma eccellente di vita monastica, adatta a pochi, d’altro lato, se ne scorgono i limiti nell’annessa impossibilità a servire i fratelli nel quotidiano e nel rischio di scambiare la volontà propria con quella del Signore. Proprio per questo la tradizione monastica d’Occidente come d’Oriente dalla Regola di Benedetto fino alla prassi contemporanea nel deserto egiziano ha sempre ritenuto possibile l’approdo alla vita eremitica solo dopo un tempo prolungato di vita comunitaria e l’assenso di un padre spirituale. Storicamente così è avvenuto molte volte, continua ad avvenire e sarebbe per certi versi auspicabile che sempre avvenisse. Ma anche l’inverso è attestato: quasi tutte le nuove forme di vita cenobitica – a cominciare da Benedetto stesso – hanno origine dal ritirarsi nel deserto dell’eremo di un uomo solo, che abbandona tutto e tutti e che soltanto in seguito viene raggiunto da alcuni discepoli per i quali accetta di fare da guida e di stendere una «regola» di vita.

Negli ultimi decenni è divenuto appariscente il fenomeno di uno sviluppo della vita eremitica in diverse Chiese locali. Cosa dire, dopo un attento ascolto di molti tra quanti hanno intrapreso questo cammino e un’osservazione del loro modo e stile di vivere l’eremitismo? Mi sento di dire che alcune sono autentiche vocazioni alla solitudine, emerse dopo un lungo tempo di vita comune, dove si è sperimentata la sottomissione reciproca e l’obbedienza a una guida spirituale. Ma diverse altre, in verità, appaiono o come fuga dal ministero, e quindi dal presbiterio della Chiesa locale, o come soluzione escogitata da chi, per la sua singolarità, non è capace di vita comunitaria e dà forma a una vita consacrata “fai da te”. Rincresce dirlo ma restano valide le severe parole di san Basilio che nella Regola diffusa analizza e denuncia tutti i rischi della vita eremitica. La vita monastica, infatti, è una vita “lunga”ed è molto difficile, senza essere osservati ed eventualmente corretti, mantenere la disciplina e lo stile. Ci si deve chiedere, ad esempio,quale solitudine sia quella di chi nel proprio eremo riceve ospiti a ogni ora e in ogni stagione, in una vita dove non è conservata neppure la regola più comune della clausura monastica che garantisce che nello spazio della vita ordinaria non abbiano accesso altri.

Oggi mi pare ci sia troppo entusiasmo, anche da parte di vescovi che hanno il compito di vigilare e compaginare i carismi nella Chiesa: un entusiasmo analogo a quello che una ventina di anni fa ha accompagnato le «nuove comunità», con il risultato di avere oggi sotto gli occhi situazioni quanto meno non esemplari nell’offrire una testimonianza cristiana.

I pericoli sono quindi ben presenti ed è perciò necessario vigilare affinché questa fuga non sia fuga disdegnosa dagli uomini, bensì fuga dalla mondanità, presa di distanza capace di offrire nuove prospettive nel contemplare le realtà quotidiane e quindi di rendere il monaco ancora più vicino al cuore dei propri fratelli.

Eremiti o anacoreti non dovrebbero ricercare lo «straordinario», l’eccentrico: del resto uscire dalla quotidianità della vita ordinaria per essere straordinari significherebbe portare con sé il modello mondano che si è abbandonato. Thomas Merton, che negli ultimi anni della sua vita passò dal monastero trappista all’eremo, amava ripetere che i monaci dei primi secoli intravedevano il deserto come possibilità per sfuggire al naufragio che minacciava la società e la Chiesa. Per questo, ritirandosi in disparte non intendevano mettere al sicuro solo se stessi: consapevoli della propria incapacità a fare del bene agli altri finché fossero rimasti a dibattersi tra i relitti, confidavano che, una volta riusciti a mettere piede sulla terra ferma, non solo sarebbero stati in grado, ma avrebbero avuto addirittura il dovere di trascinare dietro a sé il mondo intero verso la salvezza.

Davvero il «deserto» si rivela, ancora oggi, una categoria spirituale più che geografica o fisica: ritirarsi in disparte, non condividere il modo di pensare e di agire della maggioranza, accettare la prova e la privazione per saggiare cosa si ritiene davvero essenziale, fare silenzio per imparare l’ascolto, custodire la solitudine per saper leggere nel proprio cuore e in quello altrui, sono tutti elementi che alcuni individui – in ogni tempo e in ogni luogo – colgono come propria verità fino ad assumerli come totalità della propria condizione e come segno capace di offrire consapevolezza e senso della vita a quanti a loro si accostano