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domenica 30 aprile 2017

VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO IN EGITTO 28-29 APRILE 2017 /1

VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
IN EGITTO
28-29 APRILE 2017


Prima della partenza per l’Egitto, 28 aprile 2017, Papa Francesco ha avuto due appuntamenti: la consueta sosta mariana nella Basilica di Santa Maria Maggiore e l’incontro con i giovani immigrati egiziani la mattina della sua partenza.
Il gruppo di nove immigrati lo ha raggiunto nella sua residenza di Casa Santa Marta, accompagnato dal Cappellano pontificio, mons. Konrad Krajewski. Il Papa, con la sua valigia già in mano, ha salutato uno per uno i ragazzi ed ha ricevuto da loro un mazzo di fiori.
Si tratta di giovani accolti nel Centro Astalli di Roma, nel Jesuit Refugee Service (JRS).

Alle 10.42 il Papa è arrivato all'aeroporto di Fiumicino. Appena sceso dalla Ford Focus del Vaticano, a pochi metri dall'airbus A321 dell'Alitalia, è stato accolto, fra gli altri, dal consigliere e presidente esecutivo di Alitalia, Luigi Gubitosi, e dall'amministratore delegato di Aeroporti di Roma, Ugo De Carolis, oltre ad altre autorità civili e militari. Subito dopo Francesco, sorridente, con la consueta borsa nera nella mano sinistra e appoggiandosi con la destra al corrimano, è salito sulle scalette dell'aereo. In cima ha salutato cordialmente le due hostess e il comandante del volo che lo attendevano al portellone, e voltandosi, con un cenno della mano, tutti i presenti, prima di entrare nell'airbus.

Mezz’ora dopo il decollo da Fiumicino Francesco si è recato come ogni volta in coda all’Airbus 321 dell’Alitalia diretto in Egitto per salutare uno ad uno tutti i giornalisti al seguito. 

GREG BURKE:
Santo Padre, vogliamo dire grazie, soprattutto grazie per questo privilegio di viaggiare con Lei. A Lei che dice di dire “grazie”, “scusa”, “permesso”, chiediamo perdono per il tempo che Le rubiamo; però Mons. Maurizio Rueda mi dice che sarà poco tempo, e questo dico anche ai giornalisti: che è solo un saluto, non è il momento di fare interviste, però il Papa andrà a salutare tutti. Grazie di questo viaggio così importante.

SANTO PADRE:
Grazie a voi. Vi ringrazio della compagnia e del vostro lavoro, che sarà un lavoro per aiutare tanta gente a capire il viaggio, a conoscere cosa è stato fatto, di cosa si è parlato, tante cose… la gente ci segue.
Questo viaggio ha un’aspettativa speciale perché è un viaggio fatto per l’invito del Presidente della Repubblica, del Papa Tawadros II Patriarca di Alessandria dei Copti, dal Patriarca Copti cattolici e del Grande Imam di Al-Azhar. Tutti e quattro mi hanno invitato a fare questo viaggio. E’ un viaggio di unità, di fratellanza. Vi ringrazio per il vostro lavoro che in questi meno di due giorni sarà abbastanza, abbastanza intenso! Grazie.
Guarda il video

Consueti i telegrammi inviati ai presidenti dei Paesi sorvolati. Al capo di Stato italiano Sergio Mattarella, Bergoglio ha scritto che si reca in Egitto come “pellegrino di pace, per incontrare la comunità cattolica e i credenti di diverse fedi”.

È atterrato al Cairo poco dopo le 14 ora italiana. 
Clima mite e cielo sereno nella capitale egiziana. Ad accogliere il Santo Padre sotto la scaletta del velivolo, oltre al Patriarca della Chiesa cattolica copta, Abramo Isacco Sidrak, c’era il premier egiziano Sherif Ismail.

Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha ricevuto il Papa nel Palazzo Presidenziale di Heliopolis. Si è trattato del primo incontro ufficiale di Francesco nel corso della sua visita. Ad al-Sisi il Papa ha donato una medaglia con incisa la rappresentazione della fuga in Egitto della Sacra Famiglia. L’opera dell’artista Daniela Longo si ispira ad una icona copta realizzata da suor Maria Carla, delle Piccole Suore di Gesù.

Guarda il video della cerimonia di benvenuto in aeroporto di Papa Francesco

Papa Francesco è stato accolto dal Presidente della Repubblica d'Egitto nel Palazzo Presidenziale di Heliopolis al Cairo dal presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi.

Dopo aver concluso il colloquio privato con al-Sisi, papa Francesco si era spostato nella università di al-Azhar, la prestigiosa università sunnita. Va ricordato che papa aveva già salutato in udienza privata in Vaticano il grande imam Ahmed Al Tayyib lo scorso 23 maggio.

Nella sala conferenze dell’ateneo dove si svolge la Conferenza internazionale per la Pace, alla quale prendono parte anche il patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I e il Papa copto ortodosso Tawadros II, scampato ad uno dei due attentati della Domenica delle Palme, Francesco tiene il suo primo discorso ufficiale in terra egiziana.


Al Salamò Alaikum!

È un grande dono essere qui e iniziare in questo luogo la mia visita in Egitto, rivolgendomi a voi nell’ambito di questa Conferenza Internazionale per la Pace. Ringrazio il mio fratello, il Grande Imam per averla ideata e organizzata e per avermi cortesemente invitato. Vorrei offrirvi alcuni pensieri, traendoli dalla gloriosa storia di questa terra, che nei secoli è apparsa al mondo come terra di civiltà e terra di alleanze.

Terra di civiltà. 
...

Educare all’apertura rispettosa e al dialogo sincero con l’altro, riconoscendone i diritti e le libertà fondamentali, specialmente quella religiosa, costituisce la via migliore per edificare insieme il futuro, per essere costruttori di civiltà. Perché l’unica alternativa alla civiltà dell’incontro è la inciviltà dello scontro, non ce n'è un'altra. E per contrastare veramente la barbarie di chi soffia sull’odio e incita alla violenza, occorre accompagnare e far maturare generazioni che rispondano alla logica incendiaria del male con la paziente crescita del bene: giovani che, come alberi ben piantati, siano radicati nel terreno della storia e, crescendo verso l’Alto e accanto agli altri, trasformino ogni giorno l’aria inquinata dell’odio nell’ossigeno della fraternità.

In questa sfida di civiltà tanto urgente e appassionante siamo chiamati, cristiani e musulmani, e tutti i credenti, a dare il nostro contributo: «viviamo sotto il sole di un unico Dio misericordioso. [...] In questo senso possiamo dunque ‎chiamarci gli uni gli ‎altri fratelli e sorelle [...], perché senza Dio la vita dell’uomo ‎sarebbe come il cielo senza il sole».‎ Si levi il sole di una rinnovata fraternità in nome di Dio e sorga da questa terra, baciata dal sole, l’alba di una civiltà della pace e dell’incontro. Interceda per questo san Francesco di Assisi, che otto secoli fa venne in Egitto e incontrò il Sultano Malik al Kamil.

Terra di alleanze. 
...

Al centro delle “dieci parole” risuona, rivolto agli uomini e ai popoli di ogni tempo, il comando «non uccidere» (Es 20,13). Dio, amante della vita, non cessa di amare l’uomo e per questo lo esorta a contrastare la via della violenza, quale presupposto fondamentale di ogni alleanza sulla terra. Ad attuare questo imperativo sono chiamate, anzitutto e oggi in particolare, le religioni perché, mentre ci troviamo nell’urgente bisogno dell’Assoluto, è imprescindibile escludere qualsiasi assolutizzazione che giustifichi forme di violenza. La violenza, infatti, è la negazione di ogni autentica religiosità.

In quanto responsabili religiosi, siamo dunque chiamati a smascherare la violenza che si traveste di presunta sacralità, facendo leva sull’assolutizzazione degli egoismi anziché sull’autentica apertura all’Assoluto. Siamo tenuti a denunciare le violazioni contro la dignità umana e contro i diritti umani, a portare alla luce i tentativi di giustificare ogni forma di odio in nome della religione e a condannarli come falsificazione idolatrica di Dio: il suo nome è Santo, Egli è Dio di pace, Dio salam. Perciò solo la pace è santa e nessuna violenza può essere perpetrata in nome di Dio, perché profanerebbe il suo Nome.

Insieme, da questa terra d’incontro tra Cielo e terra, di alleanze tra le genti e tra i credenti, ripetiamo un “no” forte e chiaro ad ogni forma di violenza, vendetta e odio commessi in nome della religione o in nome di Dio. Insieme affermiamo l’incompatibilità tra violenza e fede, tra credere e odiare. Insieme dichiariamo la sacralità di ogni vita umana contro qualsiasi forma di violenza fisica, sociale, educativa o psicologica. La fede che non nasce da un cuore sincero e da un amore autentico verso Dio Misericordioso è una forma di adesione convenzionale o sociale che non libera l’uomo ma lo schiaccia. Diciamo insieme: più si cresce nella fede in Dio più si cresce nell’amore al prossimo.

Ma la religione non è certo solo chiamata a smascherare il male; ha in sé la vocazione a promuovere la pace, oggi come probabilmente mai prima. Senza cedere a sincretismi concilianti, il nostro compito è quello di pregare gli uni per gli altri domandando a Dio il dono della pace, incontrarci, dialogare e promuovere la concordia in spirito di collaborazione e amicizia. Noi, come cristiani - e io sono cristiano - «non possiamo invocare Dio come Padre di tutti gli uomini, se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso alcuni tra gli uomini che sono creati ad immagine di Dio» Fratelli di tutti.
...

Per prevenire i conflitti ed edificare la pace è fondamentale adoperarsi per rimuovere le situazioni di povertà e di sfruttamento, dove gli estremismi più facilmente attecchiscono, e bloccare i flussi di denaro e di armi verso chi fomenta la violenza. Ancora più alla radice, è necessario arrestare la proliferazione di armi che, se vengono prodotte e commerciate, prima o poi verranno pure utilizzate. Solo rendendo trasparenti le torbide manovre che alimentano il cancro della guerra se ne possono prevenire le cause reali. A questo impegno urgente e gravoso sono tenuti i responsabili delle nazioni, delle istituzioni e dell’informazione, come noi responsabili di civiltà, convocati da Dio, dalla storia e dall’avvenire ad avviare, ciascuno nel proprio campo, processi di pace, non sottraendosi dal gettare solide basi di alleanza tra i popoli e gli Stati. Auspico che questa nobile e cara terra d’Egitto, con l’aiuto di Dio, possa rispondere ancora alla sua vocazione di civiltà e di alleanza, contribuendo a sviluppare processi di pace per questo amato popolo e per l’intera regione mediorientale.

Al Salamò Alaikum!


Guarda il video del discorso del Papa

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Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - III Domenica di Pasqua / A





Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)





Preghiera dei Fedeli


"Un cuore che ascolta - lev shomea" - n.24/2016-2017 (A) di Santino Coppolino

'Un cuore che ascolta - lev shomea' Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)


Traccia di riflessione
sul Vangelo della domenica
di Santino Coppolino



Vangelo:  Lc 24,13-35




Colui che è stato crocifisso è veramente risorto ed è sempre presente nel faticoso cammino della storia degli uomini. Il Signore della vita non ci abbandona mai, anzi si fa prossimo a tutti noi in ogni luogo e situazione, attraversa le porte sbarrate delle nostre relazioni, apre i nostri occhi e cambia in cuori di carne i cuori di pietra. Si fa nostro compagno di viaggio dovunque conduce il nostro cammino accogliendoci così come siamo, per offrirci ancora una volta se stesso. 
Pellegrini tristi e senza speranza, discepoli ciechi e bradicardici nel comprendere il senso delle Scritture, lo ritroviamo accanto a noi a fare i nostri stessi passi, di delusione e di speranza, di morte e di vita. "Non si allontana mai da noi, anche se noi ci allontaniamo da Lui (cit.), perché  "Il Figlio dell'uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto"(19,10). Il Crocifisso Risorto è l'Emmanuele, il Dio-con-noi, con noi fin dentro gli abissi dei nostri inferni originati dal veleno mortale del divisore, che ci riempie di paura e ci fa vedere la croce e la morte come la fine di ogni speranza. Intorpiditi dalla tristezza, impermeabili alla promessa di una vita che più non ha fine, "prestiamo fede più alla menzogna di Satana che alla Verità di Dio". Il Vivente invece non ci delude, non ci abbandona alle nostre follie, si fa pane del cammino, pellegrino di misericordia e di consolazione. Egli cura le nostre ferite con l'olio del suo Spirito e il vino della gioia (10,29-37), spalanca i nostri occhi e incendia il nostro cuore perché possiamo riconoscerlo nella Parola e nel Pane, ci invia per essere suoi testimoni, "iniziando da Gerusalemme, fino agli estremi confini della terra" (At 1,8).


sabato 29 aprile 2017

"Gesù, il compagno di viaggio che non riconosciamo" di p. Ermes Ronchi - III Domenica di Pasqua – Anno A

Gesù, il compagno di viaggio che non riconosciamo



Commento
III Domenica di Pasqua – Anno A

Letture:  Atti 2,14.22-33; Salmo 15; 1 Pietro 1,17-21; Luca 24,13-35

Ed ecco, in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio di nome Emmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto. Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». [...]

La strada di Emmaus racconta di cammini di delusione, di sogni in cui avevano tanto investito e che hanno fatto naufragio. E di Dio, che ci incontra non in chiesa, ma nei luoghi della vita, nei volti, nei piccoli gesti quotidiani. I due discepoli hanno lasciato Gerusalemme: tutto finito, si chiude, si torna a casa. Ed ecco che un Altro si avvicina, uno sconosciuto che offre soltanto disponibilità all’ascolto e il tempo della compagnia lungo la stessa strada. Uno che non è presenza invadente di risposte già pronte, ma uno che pone domande. Si comporta come chi è pronto a ricevere, non come chi è pieno di qualcosa da offrire, agisce come un povero che accetta la loro ospitalità. Gesù si avvicinò e camminava con loro. Cristo non comanda nessun passo, prende il mio.

Nulla di obbligato. Ogni camminare gli va. Purché uno cammini. Gli basta il passo del momento, il passo quotidiano. E rallenta il suo passo sulla misura del nostro, incerto e breve. Si fa viandante, pellegrino, fuggitivo, proprio come i due; senza distanza né superiorità li aiuta a elaborare, nel racconto di ciò che è accaduto, la loro tristezza e la loro speranza: Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino? Non hanno capito la croce, il Messia sconfitto, e lui riprende a spiegare: interpretando le Scritture, mostrava che il Cristo doveva patire. I due camminatori ascoltano e scoprono una verità immensa: c’è la mano di Dio posata là dove sembra impossibile, proprio là dove sembra assurdo, sulla croce. Così nascosta da sembrare assente, mentre sta tessendo il filo d’oro della tela del mondo. Forse, più la mano di Dio è nascosta più è potente. E il primo miracolo si compie già lungo la strada: non ci bruciava forse il cuore mentre ci spiegava le Scritture? 

Trasmettere la fede non è consegnare nozioni di catechismo, ma accendere cuori, contagiare di calore e di passione. E dal cuore acceso dei due pellegrini escono parole che sono rimaste tra le più belle che sappiamo: resta con noi, Signore, perché si fa sera. Resta con noi quando la sera scende nel cuore, resta con noi alla fine della giornata, alla fine della vita. Resta con noi, e con quanti amiamo, nel tempo e nell’eternità. E lo riconobbero dal suo gesto inconfondibile, dallo spezzare il pane e darlo. E proprio in quel momento scompare. Il Vangelo dice letteralmente: divenne invisibile. Non se n’è andato altrove, è diventato invisibile, ma è ancora con loro. Scomparso alla vista, ma non assente. Anzi, in cammino con tutti quelli che sono in cammino, Parola che spiega, interpreta e nutre la vita. È sulla nostra stessa strada, «cielo che prepara oasi ai nomadi d’amore» (G. Ungaretti). 


Al fianco dei cristiani d’Oriente di Enzo Bianchi

Al fianco dei cristiani d’Oriente 
di Enzo Bianchi


pubblicato su "La Stampa",
il 29 aprile 2017



«Attendiamo il giorno benedetto in cui potremo insieme spezzare il pane sul sacro altare». A questo desiderio ardente espresso da papa Tawadros hanno fatto eco le parole di papa Francesco: «Non possiamo più pensare di andare avanti ciascuno per la sua strada, perché tradiremmo la volontà di Dio… Unico è il nostro martirologio! Le vostre sofferenze sono anche le nostre e preparano un avvenire di comunione piena tra noi e di pace per tutti». Animati da questo spirito i successori di san Pietro e di san Marco hanno voluto firmare il comune impegno «a non ripetere il sacramento del battesimo, praticato nelle nostre chiese, a favore della persona che intende unirsi all’altra Chiesa» prima di recarsi a pregare insieme nella chiesa di San Pietro attigua al patriarcato copto, una chiesa che reca ancora i segni del sangue versato il Natale scorso da tanti fedeli. Lì si sono uniti a loro il patriarca di Costantinopoli Bartholomeos, quello greco-ortodosso di Alessandria, Teodoros II, l’intero corpo episcopale copto-ortodosso e i vescovi delle altre confessioni cristiane presenti in Egitto, in un momento assolutamente inedito e memorabile del lungo cammino ecumenico. 

Sì, l’enorme portata interreligiosa del viaggio di papa Francesco al Cairo non deve oscurarne i risvolti ecumenici, di comunione tra confessioni cristiane divise da secoli. Questa visita è giunta in risposta all’invito dell’imam Al-Tayyb a partecipare alla conferenza sulla pace tenuta nella massima università sunnita di Al-Azhar ed è stata segnata dall’intensità del dialogo con la massima autorità dell’islam sunnita: un forte segno di incoraggiamento a proseguire sul cammino comune del rifiuto di ogni violenza e dell’abuso del riferimento religioso per giustificare l’ingiustificabile. Già le scorse settimane Al-Azhar aveva ospitato una conferenza internazionale sul concetto di «cittadinanza» che accomuna tutti gli uomini e le donne che vivono in una nazione indipendentemente dalla loro fede, ma ieri papa Francesco e l’imam hanno voluto sancire pubblicamente, agli occhi del mondo intero, la loro convergenza nel messaggio di misericordia, amore, giustizia e pace che proviene dalle rispettive fedi. Il comune richiamo all’importanza dell’educazione dei giovani, dell’attenzione ai più poveri, dell’accoglienza di quanti rischiano di essere scartati dalla società, la comune condanna di quanti fomentano e armano l’odio hanno mostrato l’universalità dei valori che plasmano l’essere umano e la convivenza civile: un appello quanto mai necessario e urgente non solo per il martoriato Medioriente e per i Paesi del Mediterraneo, ma anche per l’Europa e il mondo intero. 

Ma la coraggiosa accettazione da parte di papa Francesco dell’invito a questo seminario sulla pace si è trasformata in un’opportunità unica anche per il dialogo ecumenico. Infatti, non solo il patriarca ecumenico Bartholomeos ha accettato a sua volta di partecipare, facendosi latore di un forte messaggio di pace, come aveva fatto il giorno precedente il pastore luterano Olaf Tveit, segretario generale del Consiglio ecumenico della chiese, ma papa Francesco ha voluto abbracciare «l’amato fratello Tawadros», capo della chiesa copto-ortodossa, e trasformare questa fratellanza nella fede cristiana in un ulteriore segno della comune testimonianza resa a Cristo. Sì, ieri in Egitto i cristiani si sono mostrati capaci di parlare a più voci ma con un cuore e un’anima sola, hanno fatto delle dolorosi divisioni storiche un richiamo pressante a riprendere e continuare il «cammino insieme», come i discepoli di Emmaus all’indomani della risurrezione di Gesù. 

Se è vero che più delle parole contano i gesti e ancor più il cuore delle persone, la giornata di ieri rimarrà una pietra miliare sul cammino dell’unità dei cristiani: insieme i discepoli di Gesù di Nazareth sapranno essere testimoni e interlocutori credibili nel dialogo con i credenti dell’islam e nel lavoro quotidiano per la pace e la giustizia nel mondo, affinché gli uomini e le donne del nostro tempo possano nutrire quella speranza della vita più forte della morte cui tutti aneliamo.

La rinuncia di p. Giovanni Salonia - Il Papa resista e confermi la nomina di Rosario Giuè

La rinuncia di p. Giovanni Salonia
Il papa resista e confermi la nomina 
di Rosario Giuè 


Pubblicato su "Repubblica/Palermo", 
venerdì 28.04.2017




La notizia della decisione di padre Giovanni Salonia di rinunciare alla consacrazione episcopale come vescovo ausiliare di Palermo non è una buona notizia. E non è una buona notizia per chi spera, ancora, nella possibilità di una riforma della Chiesa cattolica che papa Francesco sta faticosamente portando avanti. La nomina di Giovanni Salonia, teologo e psicologo, era stata letta, infatti, da molti uomini e donne come “segno dei tempi”, come segno dell’urgenza di rinnovamento umano e pastorale di una “chiesa in uscita”, lontano dalle vecchie logiche clericali. Quella nomina era stata vista come segno della volontà di uscire da un cattolicesimo asfittico, ripetitivo, incapace di ascoltare le coscienze delle persone, in una realtà in continua trasformazione. Era il segno di una attenzione alle “periferie esistenziali”, di cui parla spesso papa Francesco. Era il segno di un voler uscire dal torpore delle sacrestie. Era il segno di una Chiesa che ha il coraggio necessario per entrare in dialogo con le sfide della secolarizzazione, lontano dalla logica del salvare “i nostri”: il mondo clericale con le sue attese e i suoi privilegi.
Ma non tutti amano la Chiesa disegnata e testimoniata da papa Francesco. Non tutti ne condividono il tentativo di riforma. E così nella parte più conservatrice e clericale del cattolicesimo, collegata ad altre centrali di potere, c’è chi usa tutti i mezzi leciti, a volte illeciti, per frenare l’azione riformatrice del Papa ( e di chi localmente ne segue le indicazioni), per tentare di bloccarne il processo riformatore, inclusivo e liberante, processo riformatore che passa necessariamente per le nomine episcopali. .Per questo “mondo antico” tutto deve rimanere bloccato. Il cambiamento che papa Francesco pazientemente vuole far sperimentare alla Chiesa, la sua richiesta di “conversione pastorale” nel segno della Misericordia, nel segno di un Vangelo “preso”, come egli dice, “senza calmanti” ma nella a sua “radicalità” è scomodo, perché “abbatte i troni e innalza gli scartati” (Luca 1,52)). Il cambiamento voluto da Francesco è scomodo perché mette ai margini vecchie abitudini e schemi di potere un tempo consolidati. Per questo una parte del cattolicesimo, ma anche del mondo politico e della finanza, rifiuta il cambiamento e lo ostacola apertamente, costi quel che costi! Anche usando la vecchia arma, come nel caso di Salonia, delle lettere di delegittimazione. 
Io non sono amico di padre Salonia. Ma gli attacchi contro di lui arrivati fino a Roma fin sul tavolo del Papa, attacchi dal frate cappuccino stesso definiti “infondati, calunniosi e inconsistenti” hanno avuto l’effetto di suscitare in me un moto di tenerezza e di affetto per questo prete che, a 69 anni, con dignità e sofferenza si vede costretto a scrivere una lettera di rinuncia alla consacrazione per il ministero episcopale. Si badi bene: le accuse contro di lui non sono per pedofilia, non sono per arricchimento indebito, per legami con la mafia. Sono accuse per mondanità. Ora va detto che sono solo l’ultimo segno di una Chiesa malata, di una Chiesa vecchia che stenta a morire. Di una Chiesa che, mentre rantola, cerca di assestare i suoi ultimi colpi. 
La rinuncia di padre Salonia non è una bella notizia per la Chiesa palermitana e per tutta la Chiesa: quella Chiesa che ha a cuore, non il proprio potere, ma il Vangelo nello spirito del Concilio Vaticano II. Spero proprio che, passato qualche tempo di decantamento, papa Francesco possa decidere di confermare la scelta che aveva fatto a febbraio e autorizzare la consacrazione di padre Salonia come vescovo ausiliare di Palermo.


- Chi ha paura della Chiesa voluta da Francesco di Rosario Giuè

La nube delle vittime di Massimo Toschi

La nube delle vittime
di Massimo Toschi

Dal 28 al 30 novembre 2014 il papa era stato in visita a Istanbul, incontrando il patriarca di Costantinopoli. Le parole dette in quell’occasione risuonano ancora oggi nel viaggio al Cairo






A Istanbul il papa, intervenendo alla liturgia nella parrocchia patriarcale di san Giorgio chiese che fossero ascoltate tre voci: dei poveri, delle vittime e dei giovani. Ecco, nasce qui l’ecumenismo delle vittime: le vittime delle guerre e dei conflitti in tante parti del mondo. Disse il papa: «Questa voce la sentiamo risuonare molto bene da qui, perché alcune nazioni vicine sono segnate da una guerra atroce e disumana. Penso con profondo dolore alle tante vittime del disumano e insensato attentato che in questi giorni hanno colpito i fedeli musulmani che pregavano nella moschea di Kano in Nigeria (…). La voce delle vittime dei conflitti ci spinge a procedere speditamente nel cammino di riconciliazione e di comunione tra cattolici e ortodossi. Del resto, come possiamo annunciare credibilmente il Vangelo della pace che viene dal Cristo se tra noi continuano ad esistere rivalità e contese?».

L’ecumenismo del sangue dà nuova forza all’ecumenismo tra i cristiani nel vivere il Vangelo dell’unità e della riconciliazione. Ecco nasce da qui l’ecumenismo delle vittime e l’ecumenismo del sangue, che papa Francesco assume con tutta la sua forza. Ora, proprio in queste ore, volando verso il Cairo, per visitare e accompagnare la chiesa copta e i suoi e i suoi martiri. La grazia discreta del martirio, non è esibita ma testimoniata nella condizione umiliata dei credenti che per sé non cercano il potere ma una vita vissuta e consegnata nella fede, senza domandare i primi posti, ma l’ultimo, il posto delle vittime. Non è l’ecumenismo dei centri culturali, delle dottrine, delle strategie e delle trattative ecclesiastiche. L’apocalisse è il fondamento teologico di questo viaggio e di questa prospettiva. Si legge al cap.7: «Dopo queste cose vidi, ed ecco una grande folla, che nessun uomo poteva noverare di tutte le nazioni e tribù e popoli e lingue, che stavano in piedi davanti al trono e all’agnello, vestiti di vesti bianche e con delle palme in mano». E il Signore spiega: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti e le hanno imbiancate con il sangue dell’agnello».

Oggi la storia dell’Egitto e non solo le vittime appartengono a tutti i popoli della Terra, a tutte le religioni della terra, e chiamano ogni popolo e ogni religione a trovare un nuovo ecumenismo che è l’ecumenismo delle vittime. Andando al Cairo, papa Francesco presenta questo straordinario percorso che indica il Vangelo. La strage dei cristiani copti, che si è consumata il giorno di Pasqua, si unisce e si lega alla vicenda di Giulio Regeni, vittima del potere, alle grandi stragi di musulmani in Afghanistan, in Iraq, in Africa, in Pakistan, nello stesso Egitto, stragi che preferiamo ignorare e rapidamente dimenticare.

Così papa Francesco a Istanbul ha descritto il nuovo ecumenismo, parlando con il ministro degli affari religiosi: «Adesso sembra che il dialogo interreligioso sia arrivato alla fine. Dobbiamo fare un salto di qualità, perché il dialogo interreligioso non sia solo: “cosa pensate voi di questo e noi di questo”. Dobbiamo fare un salto di qualità, dobbiamo fare un dialogo tra persone religiose di diverse appartenenze… Non si parla solo di teologie ma di esperienza religiosa. E questo sarebbe un passo avanti bellissimo, bellissimo».

L’ecumenismo delle vittime ha la misura di essere senza misura, come quella nube dei testimoni, come quella grande folla di ogni stirpe, popolo e nazione. In questo siamo chiamati a riconoscere il martirio dell’altro, senza rimanere prigionieri del confessionalismo nostro e dell’altro. È l’ecumenismo delle persone e non dei dottori e dei teologi, è l’ecumenismo della fraternità e non delle astuzie della politica ecclesiastica, sempre abile e spregiudicata a far tornare i conti a suo favore. Per questo il papa va senza paura, non per eroismo ma per fede. Oltre l’ecumenismo patinato delle liturgie e delle candele, dentro la storia sofferente e violenta dei popoli, là dove si confessa la fede nuda e disarmata di coloro che vivono la grande tribolazione.
(Fonte: Città Nuova - 28 aprile 2017)

"La pastorale è l’esercizio della maternità della Chiesa" don Carmelo Torcivia

"La pastorale è l’esercizio della maternità della Chiesa" (1)
 don Carmelo Torcivia



Tratto da "Pastorale Palermo" - Febbraio 2017. 
Supplemento alla rivista della Chiesa  Palermitana



La pastorale della Chiesa tende per sua natura ad andare verso tutti e a creare vicinanza con ogni uomo e con ogni donna. Questa prossimità è voluta e ricercata perché la pastorale possa realizzare incontri veri con tutti gli uomini del nostro tempo. Il Papa Francesco sa perfettamente che nel mondo sono presenti alcune impostazioni di pastorale, che allontanano le persone. Egli così afferma: 

Esistono in America Latina e nei Caraibi pastorali «lontane», pastorali disciplinari, che privilegiano i principi, le condotte, i procedimenti organizzativi… ovviamente senza vicinanza, senza tenerezza, senza carezza. Si ignora la «rivoluzione della tenerezza» che provocò l’incarnazione del Verbo. Vi sono pastorali impostate con una tale dose di distanza che sono incapaci di raggiungere l’incontro: incontro con Gesù Cristo, incontro con i fratelli. Da questo tipo di pastorali ci si può attendere al massimo una dimensione di proselitismo, ma mai portano a raggiungere né l’inserimento ecclesiale né l’appartenenza ecclesiale. La vicinanza crea comunione e appartenenza, rende possibile l’incontro. La vicinanza acquisisce forma di dialogo e crea una cultura dell’incontro. (2) 

La disamina che ci offre papa Francesco è molto chiara. Se si vuole capire qual è la differenza tra una pastorale vicina alle persone, una pastorale di prossimità, e una pastorale lontana, distante dalla gente, bisogna mettere a fuoco la distinzione-opposizione tra una mentalità legalistica e una mentalità permeata dalla misericordia. La pastorale non è quindi una sorta di mediazione più o meno deduttiva e normativa dei principi dogmatici e dei valori morali professati dalla Chiesa. Essa è invece l’esercizio della maternità della Chiesa, che in quanto tale agisce sempre con misericordia, tanto più oggi in cui il mondo è ovunque un mondo di “feriti”. Qui papa Francesco raggiunge una vetta nella concezione di pastorale e per questo conviene ascoltarlo direttamente. 

Sulla conversione pastorale vorrei ricordare che “pastorale” non è altra cosa che l’esercizio della maternità della Chiesa. Essa genera, allatta, fa crescere, corregge, alimenta, conduce per mano… Serve allora, una Chiesa capace di riscoprire le viscere materne della misericordia. Senza la misericordia c’è poco da fare oggi per inserirsi in un mondo di “feriti”, che hanno bisogno di comprensione, di perdono e di amore.(3) 

Questa bella citazione del papa Francesco è molto importante perché collega direttamente la pastorale a Dio e alle sue viscere di misericordia. Ciò che allora fonda la pastorale è la rivelazione e il posto centrale che la misericordia assume all’interno della stessa rivelazione.(4 )
La pastorale è epifania dell’agire di Dio nella storia. E per questo essa è l’esercizio della misericordia, di una Chiesa che non può che esprimere con misericordia il suo essere madre. Se allora la Chiesa agisce sempre e ovunque con misericordia, il motivo è da rintracciare nella sua fedeltà alla rivelazione di Dio e non come semplice risposta ai bisogni degli uomini. 
La Chiesa, comunità dei discepoli missionari, impara dalla sua intimità con il Signore, itinerante sulle strade polverose del mondo, il senso della misericordia. Da Dio, quindi, impara soprattutto il nucleo centrale della misericordia: la tenerezza. C’è un brano di un discorso che Francesco ha rivolto ai vescovi del Messico che esprime in maniera assolutamente chiara la dimensione teologico-spirituale della tenerezza- misericordia di Dio. 

Anzitutto, la Vergine Morenita ci insegna che l’unica forza capace di conquistare il cuore degli uomini è la tenerezza di Dio. Ciò che incanta e attrae, ciò che piega e vince, ciò che apre e scioglie dalle catene non è la forza degli strumenti o la durezza della legge, bensì la debolezza onnipotente dell’amore divino, che è la forza irresistibile della sua dolcezza e la promessa irreversibile della sua misericordia. (5) 

 Né la forza degli strumenti posti in atto (efficientismo pelagiano) né la durezza della legge possono essere i luoghi del cammino di liberazione dell’uomo. Solo la tenerezzamisericordia porta in sé la capacità di attrazione, di convinzione e di effettiva liberazione verso ogni uomo ed ogni donna. Tutto questo ha un fondamento nell’ambito teologico. Infatti, è Dio che è tenerezza-misericordia. Per questo bisogna parlare della “debolezza onnipotente dell’amore divino”.

(1) Questo brano è tratto da C. Torcivia, La misericordia: criterio teologico-pastorale dello stile della Chiesa. Il pensiero di Papa Francesco, in G. Alcamo (a cura di), Con il cuore del Padre. Rivelazione di Dio e stile pastorale della Chiesa, Paoline, Milano 2016, 248-249.250-253. 

(2) Francesco, Decifrare la fuga di tanti fratelli, in «Regno/documenti» LVIII(2013/15), 467. Si tratta di un discorso importante perché il papa svolge la sua personale ermeneutica del documento di Aparecida. 

(3) Francesco, Decifrare la fuga di tanti fratelli, o.c., 467.

(4) Per una chiara giustificazione della centralità della misericordia nell’ambito della teologia cf. Walter Kasper, Misericordia. Concetto fondamentale del vangelo – Chiave della vita cristiana, GDT 361, Queriniana, Brescia 2013.

(5) Francesco, Con coraggio profetico. Discorso ai Vescovi del Messico, Città del Messico 13/02/2016, in «L’Osservatore Romano» 15-16 febbraio 2016, 4.

venerdì 28 aprile 2017

Papa Francesco Viaggio in Egitto - Con il disarmo nel cuore di Lucetta Scaraffia


Con il disarmo nel cuore
di Lucetta Scaraffia


Papa Francesco inizia un viaggio difficile: così può apparire agli occhi del mondo la sua visita in un Egitto dove il numero dei martiri cristiani è in aumento continuo, in un paese travagliato che è stato proprio il terreno di origine dell’estremismo islamico con la nascita, alla fine degli anni venti del Novecento, dei Fratelli musulmani ma che, al tempo stesso, è anche uno dei paesi che può vantare una convivenza millenaria fra religioni differenti.

E ancora una volta il Pontefice rinuncia all’apparato difensivo che ormai accompagna abitualmente qualsiasi personaggio pubblico del suo livello nelle trasferte e nei momenti di esposizione alla folla. Ma come avrebbe potuto arrivare blindato in un paese dove i cristiani rischiano la vita ogni volta che vanno a messa? Come altrimenti avrebbe potuto, con il linguaggio simbolico dei fatti, più forte di ogni parola, comunicare che il suo è un viaggio di pace? Infatti, come hanno lasciato scritto i monaci di Tibhirine, di fronte ai nostri nemici dobbiamo non solo pregare ogni giorno il Signore di disarmarli, ma anche di disarmarci. Rinunciare alla protezione equivale simbolicamente proprio a questo disarmo.

E carichi di valore simbolici saranno tutti gli incontri di questo viaggio: Francesco ama comunicare con i gesti, con l’esempio, più che con le parole. Sa che i gesti parlano a tutti, immediatamente, e arrivano senza mediazione ai cuori.

Le sue parole, pur così aperte e chiare, sono infatti spesso travisate dai media, che lo vogliono apparentare a partiti politici, a posizioni di altri. E questa goffa ricerca di trovargli una parentela politica è fatta per abbassare il livello e la forza del suo messaggio, per renderlo uguale a quello di altri leader, per nasconderne la forte diversità. Perché questo Papa non si limita a invocare e predicare ottimi principi e giustissime rampogne, ma parla apertamente dei mali del mondo dando loro un nome, e indicandone in questo modo i responsabili. Come quando ha segnalato il pericolo di comportamenti politici in apparenza accettabili: «Gli accordi internazionali sembra che siano più importanti dei diritti umani» ha detto ricordando i nuovi martiri nella basilica romana di San Bartolomeo.

In questo contesto di volontari fraintendimenti delle sue parole, i suoi gesti, così immediatamente compresi da ciascuno di noi, acquistano una valenza particolare. Andare ad al-Azhar, restituire la visita del rettore, lo sceicco al-Tayyib, che tempo fa è venuto in Vaticano a fargli visita, significa impegnarsi profondamente per la pace religiosa, a ogni costo, al di sopra di ogni convenienza e ogni protocollo. Al di là di ogni rischio.

Perché la sua intenzione è proprio quella di fare come Gesù, quando si pone in mezzo ai discepoli, al centro della loro assemblea, come colui che crea e dà unità, colui che «attira tutti a sé» si legge nel vangelo (cfr. Giovanni, 12, 32). Questa è l’unica possibile proposta di pace e sta in ogni gesto, in ogni visita, in ogni incontro.



«La croce non si può togliere dalla vita di un cristiano» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)



S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
27 aprile 2017
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 


Papa Francesco:
Testimoni di obbedienza”

«Sì, sono peccatore, sono mondano, tante mondanità ho nel mio cuore ma, Signore, tu puoi fare tutto: dammi la grazia di divenire un testimone di obbedienza come te, e anche la grazia di non impaurirmi quando arrivano le persecuzioni, le calunnie, perché tu ci hai detto che quando ci portano dal giudice sarà lo Spirito a dirci cosa dobbiamo rispondere». Ecco la preghiera che Papa Francesco ha improvvisato, invitando a recitarla aprendo il cuore, durante la messa celebrata giovedì mattina, 27 aprile, nella cappella della Casa Santa Marta.

«Chiediamo questa grazia» ha insistito il Pontefice, perché «il cristiano non è testimone di un’idea, di una filosofia, di una ditta, di una banca, di un potere» ma è unicamente «testimone di obbedienza, proprio come Gesù».

«Nella prima lettura — ha fatto subito notare Francesco all’inizio dell’omelia, riferendosi al passo degli Atti degli apostoli (5, 27-33) — continua quel dialogo degli apostoli cominciato con Giovanni e con i capi, con i dottori della legge». Il fatto è che «dopo il miracolo della guarigione dello storpio, che ha scatenato la furia dei capi, la comunità continua a crescere e gli apostoli facevano tanti miracoli, tanti segni». Così «la gente andava da loro, li cercava per sentirli e portava anche gli ammalati perché fossero guariti». Si legge infatti, nello stesso capitolo degli Atti degli apostoli, che i malati venivano accompagnati «perché, quando Pietro passava, almeno la sua ombra coprisse qualcuno di loro». E «questa era la fede del popolo».

Certo, ha fatto presente il Papa, «c’erano problemi anche nella comunità: in mezzo a questa consolazione c’erano dei furbetti che volevano fare carriera, come Anania e Saffira». E lo stesso, ha aggiunto, accade anche oggi. «C’era gente — ha insistito Francesco — che quando vedeva questo popolo credente portare gli ammalati lì, in pellegrinaggio dagli apostoli, diceva “ma che gente ignorante, non sa, questo popolo non sa”». È «il disprezzo al popolo fedele di Dio che mai sbaglia, mai». Lo stesso avviene oggi, ha riconosciuto il Papa. Ma «il Signore voleva che la Chiesa fosse forte in quel momento come segno della propria risurrezione».

Sempre gli Atti, ha proseguito il Pontefice, ci dicono che «i capi, quando hanno visto tutto questo, pieni di gelosia presero gli apostoli e li chiusero nel carcere pubblico». Ma «quella notte — ha detto il Pontefice — come è accaduto anche a Pietro quando era in carcere, un angelo del Signore è andato lì, ha aperto la porta» chiedendo agli apostoli di andare ad annunciare al popolo. E gli apostoli andarono subito, «sul far del giorno», a insegnare al popolo nel tempio, ma i capi dei sacerdoti vennero informati e gli apostoli vennero convocati davanti al sinedrio. «Tutto questo l’ho detto per vedere lo sviluppo della vita della Chiesa in questi primi mesi» ha spiegato il Papa, facendo di nuovo riferimento alla prima lettura. «In quei giorni — riferiscono, dunque, gli Atti — il comandante e gli inservienti condussero gli apostoli e li presentarono nel sinedrio; il sommo sacerdote li interrogò dicendo: “Non vi avevamo espressamente proibito di insegnare in questo nome?”». Intendendo ovviamente «nel nome di Gesù». Infatti Pietro e Giovanni erano stati già arrestati e, interrogati dal sinedrio, avevano risposto: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato». Ma i capi avevano proibito loro di continuare a predicare. Ecco perché la nuova accusa: nonostante quel divieto, dicono agli apostoli i membri del sinedrio, «avete riempito Gerusalemme del vostro insegnamento e volete far ricadere su di noi il sangue di quest’uomo».

Ma ecco che «Pietro, — lo stesso Pietro che per paura aveva tradito il Signore nella notte del giovedì — oggi, coraggioso risponde: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini”». Proprio «la risposta di Pietro — ha affermato il Papa — ci fa capire cosa è un apostolo, cosa è un cristiano: un cristiano è un testimone dell’ubbidienza, come Gesù». E infatti «Gesù obbedì, si è fatto uomo, si abbassò, si annientò». Così, allo stesso modo, «il cristiano è testimone di obbedienza, come Gesù che ha detto al Padre: ecco un corpo, io vengo per fare la tua volontà; come Gesù che nell’orto degli ulivi chiese al Padre di allontanare da lui quel calice “ma si faccia la tua volontà, non la mia: io ubbidirò”».

«Il cristiano è un testimone di obbedienza — ha rilanciato Francesco — e, se noi non siamo su questa strada di crescere nella testimonianza dell’obbedienza, non siamo cristiani». Bisogna dunque «camminare su questa strada» per essere davvero «testimone di obbedienza, come Gesù». Ecco perché il cristiano «non è testimone di un’idea, di una filosofia, di una ditta, di una banca, di un potere» ma «è testimone di obbedienza, come Gesù».

Una verità non facile da capire, ha riconosciuto il Pontefice. Tanto che viene da chiedersi «come si diventa testimone di obbedienza, dove si studia per diventarlo?». Ma «questo può farlo soltanto lo Spirito Santo» ha spiegato Francesco, perché «divenire testimone di obbedienza è una grazia dello Spirito Santo: è Lui che fa questo». È «lo stesso discorso che abbiamo sentito fare da Gesù a Nicodemo: “Chi crede nel Figlio ha la vita eterna, chi non obbedisce al Figlio non vedrà la vita”». Ma «è dall’alto che viene questo, è dallo Spirito: Gesù, unto dallo Spirito, porta il lieto annuncio. Pensiamo alla sinagoga di Nazaret, soltanto lo Spirito può farci testimoni di obbedienza».

Magari, ha proseguito, qualcuno potrebbe dire «io vado da quel maestro spirituale» oppure «leggo questo libro». Sì, ha spiegato il Papa, «tutto sta bene ma soltanto lo Spirito può cambiarci il cuore e può farci a tutti testimoni di obbedienza: è un’opera dello Spirito e dobbiamo chiederlo, è una grazia da chiedere: “Padre, Signore Gesù, inviatemi il vostro Spirito perché io divenga un testimone di obbedienza”, cioè un cristiano».

Il Pontefice non ha mancato di indicare «quali sono le conseguenze per una persona che è testimone di obbedienza». A questo proposito, ha detto, «la fine del passo della prima lettura odierna è chiaro: “All’udire queste cose essi si infuriarono e volevano metterli a morte”». Perché «le conseguenze del testimone di obbedienza sono le persecuzioni». E infatti «quando Gesù elenca le beatitudini finisce» affermando: “Beati voi quando siete perseguitati, insultati”».

«La croce non si può togliere dalla vita di un cristiano» ha affermato Francesco: «La vita di un cristiano non è uno status sociale, non è solo un modo di vivere una spiritualità che mi fa buono, che mi fa un po’ migliore. Questo non basta. La vita di un cristiano è la testimonianza in obbedienza e la vita di un cristiano è piena di calunnie, dicerie, persecuzioni». E, ha concluso, «questo è il messaggio della Chiesa di oggi» che chiede di domandarsi se si è davvero cristiani, cioè «testimoni di obbedienza come Gesù».

(fonte: L'Osservatore Romano)

Guarda il video



giovedì 27 aprile 2017

Padre Giovanni Salonia rinunzia alla consacrazione come vescovo ausiliare dell’Arcidiocesi di Palermo - Testo integrale della lettera inviata ai sacerdoti palermitani.

Con una lettera ai sacerdoti palermitani, padre Giovanni Salonia, il frate cappuccino di 69 anni, direttore della Scuola di specializzazione in psicoterapia della Gestalt, responsabile della formazione permanente per la Provincia cappuccina di Siracusa, nominato il 10 febbraio da papa Francesco vescovo ausiliare di Palermo, annuncia, dopo le calunnie di cui è stato fatto oggetto, la rinuncia all'incarico che lo avrebbe posto al fianco dell'arcivescovo Corrado Lorefice.

Non ci sarà, dunque, l'ordinazione episcopale, in programma entro il 10 maggio. 

Di seguito il testo integrale della lettera

“Confratelli dellArcidiocesi di Palermo,
Vi scrivo per comunicarvi che consegno nelle mani del Santo Padre la rinunzia alla mia consacrazione come vescovo ausiliare dell’Arcidiocesi.
Avevo accettato in spirito di servizio ecclesiale questo impegnativo e delicato ufficio, a cui, in modo imprevisto e inaspettato, ero stato chiamato. Tale nomina, mentre in tanti aveva suscitato sentimenti di gioia e di speranza, in qualcun altro ha provocato intensi sentimenti negativi, con attacchi nei miei confronti infondati, calunniosi e inconsistenti, ma che potrebbero diventare oggetto di diverse forme di strumentalizzazione, anche di tipo mediatico. Iniziare un servizio ecclesiale in un tale clima mi avrebbe sottratto energie e serenità nel portare avanti il ministero a cui ero chiamato e, ancor più, avrebbe turbato la serenità e la gioia della comunità ecclesiale. Per tali ragioni, con la libertà interiore di chi mette in secondo piano i propri diritti pur di servire la Chiesa e con lo stesso amore ecclesiale con cui avevo accettato la nomina, ho deciso di rinunciare alla consacrazione episcopale. Non voglio in alcun modo che l’esercizio del mio ministero possa essere inquinato. Rassicuro coloro che potrebbero restare delusi della mia rinuncia: conservo viva e intatta la disponibilità a collaborare sempre, per quel che può essere utile, alla «edificazione del corpo di Cristo» (Ef 4,12) che è la Chiesa. Ringrazio il Vostro Pastore, don Corrado, per la stima e l’affetto dimostratimi: sarebbe stato proficuo lavorare insieme per il bene della Chiesa e di tante anime bisognose di supporto spirituale e umano. Certamente collaborerò con il suo servizio pastorale mediante la preghiera e la chiamata all’aiuto apostolico.
I sentimenti di affetto che, o per previa conoscenza o per una forma di naturale a priori pastorale, nutro nei vostri confronti, resteranno nel mio cuore e li presenterò al Signore. Desidero ringraziare, in modo particolare, voi presbiteri di codesta Arcidiocesi, che avete accolto con gioia l’indicazione della mia nomina. A tutti rinnovo i miei sentimenti di stima e i miei auguri.
Per parte mia, voglio entrare in un clima di silenzio e di riflessione. Chiedo allo Spirito di farmi comprendere la volontà del Padre in questa misteriosa vicenda e di concedermi la grazia di perdonare quanti si sono dimostrati a me avversi. Sarò grato a tutti coloro che custodiranno questa dolorosa vicenda nella preghiera, facendo emergere i dati di verità e di umanità in essa celati.
La Vergine Maria, che è di tutti Madre, ci indichi la strada sempre difficile della verità e della fraternità e custodisca i nostri cammini personali ed ecclesiali.
Vi auguro un Tempo Pasquale di speranza! In particolare mi rivolgo a coloro che vivono situazioni di sofferenza.
Chiedo al Pastore della vostra diocesi e a voi tutti una benedizione e una preghiera, mentre vi auguro ogni bene nella forza dello Spirito”.

Modica, 18 aprile 2017 
Padre Giovanni Salonia 


Ora e più di prima siamo decisamente solidali con il nostro confratello f. Giovanni. Rispettiamo e apprezziamo l'eleganza con cui ha rinunciato ad un suo diritto per il bene e la serenità della comunità ecclesiale. Al Santo Padre Francesco e a don Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, va, in questo triste momento, la nostra filiale vicinanza e la nostra preghiera. Il Ministro generale fr. Mauro Jöhri ha manifestato la Sua solidarietà e rinnovato l’apprezzamento Suo e di tutto l’Ordine al caro f. Giovanni, vescovo. Molteplici e continuate sono inoltre le attestazioni di stima e di vicinanza. 

Invierò lettera simile alla presente a tutti i ministri provinciali cappuccini d’Italia per metterli a conoscenza degli eventi e delle motivazioni. Noi che conosciamo bene f. Giovanni e ne testimoniamo il suo amore generoso per la Chiesa, il suo spirito di fraternità, di minorità e di servizio, la sua rettitudine e onestà, con la presente rinnoviamo l’affetto più caro e la grande stima che sempre abbiamo nutrito per lui. ...



«Il nostro Dio non è un Dio assente è un Dio “appassionato” dell’uomo» Papa Francesco Udienza Generale 26/04/2017 (Foto, testo e video)


 UDIENZA GENERALE 
 26 aprile 2017 



Sono 6 i bambini che sono saliti con papa Francesco sulla jeep bianca scoperta. Appena cominciato il giro tra i fedeli, Francesco ha invitato a bordo i sei piccoli, maschi e femmine, muniti di cappellini colorati. Tra lo spaesato e il divertito, si sono goduti tutto il tragitto tra le migliaia di fedeli presenti all'odierna udienza in piazza San Pietro. Molti gli altri piccoli protagonisti che il Papa, come di consueto, ha baciato e accarezzato.


 







Guarda il video del saluto ai fedeli

La Speranza cristiana - 20. “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20): la promessa che dà speranza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

«Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Queste ultime parole del Vangelo di Matteo richiamano l’annuncio profetico che troviamo all’inizio: «A lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi» (Mt 1,23; cfr Is 7,14). Dio sarà con noi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo. Gesù camminerà con noi, tutti i giorni, fino alla fine del mondo. Tutto il Vangelo è racchiuso tra queste due citazioni, parole che comunicano il mistero di Dio il cui nome, la cui identità è essere-con: non è un Dio isolato, è un Dio-con, in particolare con noi, cioè con la creatura umana. Il nostro Dio non è un Dio assente, sequestrato da un cielo lontanissimo; è invece un Dio “appassionato” dell’uomo, così teneramente amante da essere incapace di separarsi da lui. Noi umani siamo abili nel recidere legami e ponti. Lui invece no. Se il nostro cuore si raffredda, il suo rimane sempre incandescente. Il nostro Dio ci accompagna sempre, anche se per sventura noi ci dimenticassimo di Lui. Sul crinale che divide l’incredulità dalla fede, decisiva è la scoperta di essere amati e accompagnati dal nostro Padre, di non essere mai lasciati soli da Lui.

La nostra esistenza è un pellegrinaggio, un cammino. Anche quanti sono mossi da una speranza semplicemente umana, percepiscono la seduzione dell’orizzonte, che li spinge a esplorare mondi che ancora non conoscono. La nostra anima è un’anima migrante. La Bibbia è piena di storie di pellegrini e viaggiatori. La vocazione di Abramo comincia con questo comando: «Vattene dalla tua terra» (Gen 12,1). E il patriarca lascia quel pezzo di mondo che conosceva bene e che era una delle culle della civiltà del suo tempo. Tutto cospirava contro la sensatezza di quel viaggio. Eppure Abramo parte. Non si diventa uomini e donne maturi se non si percepisce l’attrattiva dell’orizzonte: quel limite tra il cielo e la terra che chiede di essere raggiunto da un popolo di camminatori.

Nel suo cammino nel mondo, l’uomo non è mai solo. Soprattutto il cristiano non si sente mai abbandonato, perché Gesù ci assicura di non aspettarci solo al termine del nostro lungo viaggio, ma di accompagnarci in ognuno dei nostri giorni.

Fino a quando perdurerà la cura di Dio nei confronti dell’uomo? Fino a quando il Signore Gesù, che cammina con noi, fino a quando avrà cura di noi? La risposta del Vangelo non lascia adito a dubbi: fino alla fine del mondo! Passeranno i cieli, passerà la terra, verranno cancellate le speranza umane, ma la Parola di Dio è più grande di tutto e non passerà. E Lui sarà il Dio con noi, il Dio Gesù che cammina con noi. Non ci sarà giorno della nostra vita in cui cesseremo di essere una preoccupazione per il cuore di Dio. Ma qualcuno potrebbe dire: “Ma cosa sta dicendo, lei?”. Dico questo: non ci sarà giorno della nostra vita in cui cesseremo di essere una preoccupazione per il cuore di Dio. Lui si preoccupa di noi, e cammina con noi. E perché fa questo? Semplicemente perché ci ama. Capito questo? Ci ama! E Dio sicuramente provvederà a tutti i nostri bisogni, non ci abbandonerà nel tempo della prova e del buio. Questa certezza chiede di annidarsi nel nostro animo per non spegnersi mai. Qualcuno la chiama con il nome di “Provvidenza”. Cioè la vicinanza di Dio, l’amore di Dio, il camminare di Dio con noi si chiama anche la “Provvidenza di Dio”: Lui provvede alla nostra vita.

Non a caso tra i simboli cristiani della speranza ce n’è uno che a me piace tanto: l’àncora. Essa esprime che la nostra speranza non è vaga; non va confusa con il sentimento mutevole di chi vuole migliorare le cose di questo mondo in maniera velleitaria, facendo leva solo sulla propria forza di volontà. La speranza cristiana, infatti, trova la sua radice non nell’attrattiva del futuro, ma nella sicurezza di ciò che Dio ci ha promesso e ha realizzato in Gesù Cristo. Se Lui ci ha garantito di non abbandonarci mai, se l’inizio di ogni vocazione è un «Seguimi», con cui Lui ci assicura di restare sempre davanti a noi, perché allora temere? Con questa promessa, i cristiani possono camminare ovunque. Anche attraversando porzioni di mondo ferito, dove le cose non vanno bene, noi siamo tra coloro che anche là continuano a sperare. Dice il salmo: «Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me» (Sal 23,4). È proprio dove dilaga il buio che bisogna tenere accesa una luce. Torniamo all’àncora. La nostra fede è l’àncora in cielo. Noi abbiamo la nostra vita ancorata in cielo. Cosa dobbiamo fare? Aggrapparci alla corda: è sempre lì. E andiamo avanti perché siamo sicuri che la nostra vita ha come un’àncora nel cielo, su quella riva dove arriveremo.

Certo, se facessimo affidamento solo sulle nostre forze, avremmo ragione di sentirci delusi e sconfitti, perché il mondo spesso si dimostra refrattario alle leggi dell’amore. Preferisce, tante volte, le leggi dell’egoismo. Ma se sopravvive in noi la certezza che Dio non ci abbandona, che Dio ama teneramente noi e questo mondo, allora subito muta la prospettiva. “Homo viator, spe erectus”, dicevano gli antichi. Lungo il cammino, la promessa di Gesù «Io sono con voi» ci fa stare in piedi, eretti, con speranza, confidando che il Dio buono è già al lavoro per realizzare ciò che umanamente pare impossibile, perché l’àncora è sulla spiaggia del cielo.

Il santo popolo fedele di Dio è gente che sta in piedi – “homo viator” – e cammina, ma in piedi, “erectus”, e cammina nella speranza. E dovunque va, sa che l’amore di Dio l’ha preceduto: non c’è parte del mondo che sfugga alla vittoria di Cristo Risorto. E qual è la vittoria di Cristo Risorto? La vittoria dell’amore. Grazie.

Guarda il video della catechesi

Saluti:
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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Sono lieto di accogliere i ragazzi della professione di fede di Treviso e le coppie dell’Arcidiocesi di Ancona-Osimo che ricordano il cinquantesimo anniversario di matrimonio: auspico che questo pellegrinaggio susciti in ciascuno la riscoperta dei sacramenti ricevuti, segni efficaci della grazia di Dio nella nostra vita. E a voi, che ricordate il cinquantesimo del matrimonio, ditelo ai giovani che è bello: è bella la vita del matrimonio cristiano!

...

Porgo un saluto speciale ai giovani, agli ammalati e agli sposi novelli. Ieri abbiamo celebrato la festa di San Marco Evangelista. Il suo discepolato al seguito di San Paolo sia di esempio a voi, cari giovani, per mettersi alla sequela del Salvatore; la sua intercessione sostenga voi, cari ammalati, nella difficoltà e nella prova della malattia; e il suo Vangelo breve ed incisivo ricordi a voi, cari sposi novelli, l’importanza della preghiera nel percorso matrimoniale che avete intrapreso.

Guarda il video integrale