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giovedì 12 gennaio 2017

La cura che salva di ENZO BIANCHI


La cura che salva
Luoghi dell'infinito, gennaio 2017

di ENZO BIANCHI


1. Un incontro personale

Per avviare una riflessione sul tema del dialogo in ambito neotestamentario (e, più in generale, cristiano) non si può non partire dalle fondamenta: in tutta la sua parabola terrena Gesù è stato un uomo di dialogo. Leggendo i vangeli, si può constatare che Gesù non consegna mai a chi incontra una verità astratta, ma instaura una relazione umana, nella quale il momento dell’incontro è un kairós, un’occasione unica e irripetibile. Il suo è un comunicare “in situazione” e apre un dialogo, ma è sempre preceduto da un cammino di abbassamento, di con-discendenza, che rinnova il cammino di kénosis da lui percorso per passare dalla forma di Dio alla forma di uomo (cf. Fil 2,6-7). Gesù si fa viandante assetato al pozzo di Sicar dove incontra la donna samaritana (cf. Gv 4,5-30); si fa pellegrino sulla strada di Emmaus dove incontra i due pellegrini (cf. Lc 24,13-35); si fa frequentatore della tavola dei pubblicani e dei peccatori per poter annunciare loro la buona notizia (cf. Mc 2,16 e par.; Lc 7,34)…

Gesù percorre dunque un cammino di abbassamento, si mette in dialogo con l’interlocutore. Primo effetto dell’incontro con lui è l’interrogarsi su cosa si cerca e si vuole. Basta ricordare alcune delle numerose domande che Gesù rivolge a quanti incontra: “Che cosa cercate?” (Gv 1,38); “Donna, chi cerchi?” (Gv 20,15); “Che discorsi state facendo?” (Lc 24,17). A partire da domande come queste, nel dialogo avviene un vero incontro, un’esperienza condivisa, un parlare e un rispondersi reciprocamente. Questo è uno dei tratti maggiori dell’educazione alla fede-fiducia praticata da Gesù: accettare di “svuotarsi” per stare accanto all’altro; accettare di rinunciare a certi diritti e privilegi che rischiano di essere un ostacolo, per proporre la fede in modo credibile. Sì, perché la buona notizia del Vangelo non può risuonare né esistere senza un’incarnazione concreta, senza che si inscriva nella vita di uomini e donne.

Occorre d’altra parte precisare un elemento fondamentale: Gesù nella sua vita non ha incontrato delle “categorie” di persone, ma è entrato in relazione con gli uomini e le donne in quanto esseri umani come lui. Gesù ha cercato di incontrare ciascuno di quelli che venivano a lui e di andare incontro a quanti sapeva sprovvisti del coraggio o della forza di avvicinarlo: o essi si facevano vicini a Gesù, oppure egli si faceva vicino a loro. Gli unici che Gesù non ha mai incontrato, perché da essi tenuto a distanza, erano i potenti di questo mondo, quelli che disprezzavano gli altri, che si sentivano incaricati di minacciare… Da costoro si è tenuto lontano, anzi li ha ammoniti e avvertiti con i “guai!” (cf. Mt 23,13-32; Lc 6,24-26), li ha chiamati “volpi” (cf. Lc 13,32), “dominatori che si fanno chiamare benefattori dell’umanità” (cf. Lc 22,25), “guide cieche” (Mt 23,24).

Ma per tutti gli altri, colpiti da svariate malattie – menomazioni fisiche (zoppi, ciechi, sordomuti, paralitici), malattie mentali (gli “indemoniati”, che designano persone afflitte di volta in volta da epilessia, isteria, schizofrenia, mali la cui origine era attribuita non solo al demonio ma a un suo impossessamento), handicap e infermità più o meno gravi (lebbrosi, la donna emorroissa, la suocera di Pietro colpita da febbre) –, Gesù ha mostrato attenzione, accoglienza, cura, simpatia. L’incontro con l’umanità sofferente, con i volti e i corpi sfigurati dei suoi fratelli e delle sue sorelle in umanità, preda del male, ha costituito per Gesù una sorta di Bibbia vivente, in carne e ossa, da cui egli ha potuto apprendere la lezione della debolezza e della sofferenza umane, ha potuto imparare l’arte della com-passione e della misericordia. Possiamo dire che tali incontri hanno rappresentato per lui un magistero dell’umano e una rivelazione del divino, un luogo di apprendimento del vivere e del credere.

Approfondiamo dunque gli incontri di Gesù con persone segnate da malattia, sintesi della sua capacità di dialogo e di relazione.

2. Gli incontri di Gesù con persone segnate da malattia

I vangeli sottolineano che Gesù cura i malati (il verbo greco therapeúein, “curare”, ricorre 36 volte, mentre iâsthai, “guarire”, 19 volte), e curare significa innanzitutto servire e onorare una persona. Gesù vede nel malato una persona, ne fa emergere l’unicità e vi si relaziona con la totalità del suo essere, cogliendone la ricerca di senso, vedendolo come una creatura disposta all’apertura di fede-fiducia, desiderosa non solo di guarigione, ma di ciò che può dare pienezza alla sua vita. Gesù incontra l’altro perché è suo fratello, perché è un figlio di Dio, perché il volto dell’altro gli rivela la verità e la dignità dell’uomo e gli chiede responsabilità nei suoi confronti. Farsi vicino all’uomo era per Gesù la sua volontà più profonda, la sua postura. Gesù ha negato in sé l’io philautico, egoista, proprio di chi ha cura solo di sé e tende a salvare la propria vita (cf. Mc 8,35 e par.; Gv 12,25); egli si è sempre esposto, spendendo la sua vita per gli altri: con ragione dunque Bonhoeffer lo ha definito “uomo per gli altri”. In questa missione, costitutiva della sua identità, Gesù manifestò sempre il “fare il bene”, come proclama Pietro: “Gesù … passò facendo il bene e guarendo … perché Dio era con lui” (At 10,38).

Al cuore degli incontri di Gesù con persone malate non vi sono le tecniche di guarigione e l’attività taumaturgica o esorcistica, ma l’attitudine umana all’ascolto e all’accoglienza, l’umanissima realtà del dialogo: non vi è dunque la malattia, ma la persona umana. Gesù non incontrava il malato in quanto tale: ciò avrebbe significato porsi in una condizione in cui l’altro veniva ridotto a ciò che era solo un aspetto della sua persona. No, Gesù incontrava l’altro in quanto membro dell’umanità come lui, uguale in dignità a ogni altro essere umano. E nell’incontrare e ascoltare un umano Gesù sapeva coglierlo, questo sì, anche come una persona segnata da una particolare forma di malattia. Con la sua pratica di umanità Gesù insegna che curare è in primo luogo incontrare ed entrare in relazione con un uomo o una donna. Accostandosi agli altri non con il potere e il sapere del medico, ma con la responsabilità e la com-passione dell’uomo, Gesù si presenta nella vulnerabilità e nella debolezza, e così riesce a incontrare l’umanità ferita di ogni singolo malato.

Vi è infine un elemento molto delicato, su cui occorre sostare brevemente. Nell’ambiente socio-religioso in cui Gesù viveva, vi era la convinzione di uno stretto legame esistente tra peccato e sofferenza: il peccato richiedeva il castigo, il quale a sua volta si manifestava nella malattia. Per questo, quando Gesù pronuncia una parola sulla malattia, la pronuncia anche sul peccato (cf. Mc 2,1-12 e par.), e per lui liberare una persona dalla malattia richiedeva di liberarla dal senso di colpa, dalla sofferenza di chi si sentiva giudicato peccatore o addirittura castigato cioè maledetto da Dio (cf. Is 53,4). Comprendiamo dunque che l’azione di guarigione compiuta da Gesù non scandalizzava tanto in sé; ma quando Gesù guariva in giorno di sabato, giorno della vita piena (cf. Mc 3,1-6 e par.; Lc 14,1-6; Gv 5,1-18; 9,1-16), oppure quando perdonava i peccati insieme all’azione di cura, allora ecco scatenarsi contro di lui l’opposizione, fino al rigetto. In verità Gesù, ovunque vi fosse sofferenza, male, infermità, operava per restituire l’integrità, per ridare fiducia e speranza, per riportare la vita dove c’era ombra di morte, per far conoscere la gioia a quelli che erano nella sofferenza e nel bisogno.

Fatte queste considerazioni generali, cerchiamo di cogliere alcuni tratti specifici del comportamento di Gesù Cristo nel suo porsi accanto al malato, che configurano una vera e propria arte del dialogo e della relazione.

3. Gesù non predica rassegnazione

Innanzitutto un elemento preliminare, necessario per scardinare un’idea che spesso si sente evocare anche in buona fede, ma che è molto pericolosa, in quanto finisce per attribuire a Dio e a Gesù Cristo un volto perverso. Incontrando i malati, Gesù non predica rassegnazione, non ha atteggiamenti fatalistici, non afferma che la sofferenza avvicini maggiormente a Dio: egli sa che non la sofferenza, ma l’amore salva! Gesù

cerca sempre di restituire al malato l’integrità della salute e della vita;

lotta contro la malattia, dicendo di no al male che sfigura l’uomo;

cura e cerca di guarire con tutte le sue forze.

È così che egli fa delle sue guarigioni un vero e proprio Vangelo in atti, delle profezie del Regno, in cui “Dio asciugherà ogni lacrima dai nostri occhi(cf. Is 25,8) e non vi saranno più la morte, né il lutto, né il lamento, né il dolore” (cf. Ap 21,4).

Al riguardo è utile fare un’ulteriore precisazione: si sente ripetere con frequenza che occorre offrire a Dio la propria sofferenza. Che senso può avere questa espressione, ritenuta altamente spirituale, ma in realtà equivoca e rischiosa? Dio gradisce forse l’offerta del dolore che sovente disumanizza e sfigura? In verità, questo consiglio spirituale deve essere chiarificato. Certamente nell’offerta di se stesso al Signore, che ogni cristiano deve fare come autentico culto spirituale (cf. Rm 12,1), sono comprese anche le sofferenze, come lo sono le gioie. Di conseguenza occorre dire al Signore: “Eccomi tutto intero davanti a te, corpo, psiche e spirito, comprese la mia malattia e la mia sofferenza!”.

Anche in questo dobbiamo guardare all’esempio fornito da Gesù, che non ha offerto al Padre la sua sofferenza, bensì “ha innalzato preghiere e suppliche … a Dio che poteva liberarlo dalla morte” (Eb 5,7) nell’esperienza della sua passione, vivendola nell’“amore fino alla fine” (cf. Gv 13,1), nell’amore esteso fino ai nemici. Ciò che è stato salvifico nella passione di Gesù è stato l’amore con cui egli ha vissuto la sofferenza e la morte. E così ci ha insegnato che ciò che Dio attende da noi quando attraversiamo la sofferenza e la malattia è che continuiamo a esercitarci nell’amore, accettando di essere amati e cercando di amare.

4. Gesù vive la com-passione

Gesù si coinvolge profondamente con la situazione personale dei malati: la loro sofferenza viene patita da Gesù stesso, che prova com-passione per loro (cf., per es., Mc 1,41; 6,34; Mt 14,14), entra in un movimento di con-sofferenza che lo coinvolge anche emotivamente. Gesù non era solo dispiaciuto di fronte ai sofferenti, ma sentiva dentro di sé una forte commozione in cui erano contenute l’indignazione, la domanda (“Perché, Signore?”) e la con-sofferenza, la com-passione. Mai Gesù si è mostrato indifferente, insensibile di fronte al dolore altrui, perché sapeva che questa è la violenza più grande. Egli conosceva lo scandaloso silenzio dei “buoni”, il distacco da chi soffre degli esperti delle Scritture, dei teologi, l’indifferenza di quanti sono abituati a interessarsi più del peccato altrui che dell’altrui patire. Proprio per questo Gesù, a costo di scandalizzare, antepone la vita e la dignità di uomini e donne ai doveri imposti dalla religione, all’amore per le osservanze. Basti ricordare una sua affermazione decisiva, rivolta ad alcuni farisei: “Andate a imparare che cosa vuol dire: ‘Misericordia io voglio e non sacrifici’ (Os 6,6)” (Mt 9,13).

Gesù si lascia ferire dalla sofferenza degli altri, si fa prossimo al malato anche quando le precauzioni igieniche e le convenzioni religiose suggerirebbero di porre una distanza tra sé e lui: è il caso dei lebbrosi, che Gesù non solo incontra strappandoli dall’isolamento e dalla solitudine a cui erano costretti, ma addirittura tocca. Gesù non guarisce senza condividere: in tal modo mostra che ciò che contamina non è il contatto con chi è ritenuto impuro, ma il rifiuto della misericordia, della prossimità al malato; insegna che non c’è sporcizia più grande di chi non vuole sporcarsi le mani con gli altri; svela che la comunione con Dio passa attraverso la misericordia e la compromissione con il sofferente.

È vivendo in questo modo la com-passione che Gesù ha narrato il “Dio misericordioso e com-passionevole” (Es 34,6; Sal 86,15; cf. 103,8). Questo senza alcun protagonismo, senza alcuna insistenza posta sul proprio “fare la carità”: è significativo a tale proposito che il verbo greco utilizzato per narrare l’atteggiamento di Gesù e del Padre da lui descritto nelle parabole, splanchnízesthai (da splánchna, “viscere”, che traduce l’ebraico rachamim), indichi letteralmente “l’essere preso da, l’essere mosso a viscerale com-passione”, ovvero il reagire a stimoli provenienti dall’esterno. “Vedere ed essere mosso a viscerale com-passione”: ecco ciò che spinge il buon samaritano, figura di Gesù, a farsi prossimo all’uomo lasciato mezzo morto dai briganti sul ciglio della strada (cf. Lc 10,33); ecco ciò che spinge il Padre prodigo d’amore a correre incontro al figlio peccatore quando quest’ultimo è ancora lontano (cf. Lc 15,20).

5. L’arte della relazione di Gesù: l’ascolto, il dialogo, la fede-fiducia

Vi è da parte di Gesù una vera arte della relazione con i malati: leggendo attentamente i diversi racconti dei suoi incontri con persone affette da patologie, si può cogliere il suo atteggiamento aperto, disponibile, nel quale è assente il pregiudizio. Quando infatti Gesù incontrava qualsiasi uomo o donna, a differenza dei legalisti e degli intransigenti – traduzione attualizzante di “scribi e farisei” –, non si esercitava a discernere nel suo interlocutore il peccato, ma cercava di coglierne la sofferenza, la fatica di vivere. Gesù non ha mai avuto atteggiamenti da “spione” vigilante sui peccati altrui, e di conseguenza non giudicava, non teneva dentro di sé pregiudizi. L’altro era un fratello o una sorella in umanità come lui, un figlio o una figlia di Dio come lui, al quale Gesù voleva avvicinarsi, farsi prossimo: egli conosceva bene l’importanza di questo movimento, perché solo chi si fa prossimo all’altro, può incontrarlo e prendersi cura di lui, donandogli in primo luogo lo sguardo, mettendo gli occhi nei suoi occhi, le mani nelle sue mani.

Quando Gesù si avvicina a persone toccate da situazioni di malattia, la cura che egli manifesta si esprime innanzitutto nel dare loro la parola, nel far emergere il loro desiderio. Gesù si pone in ascolto, entra in dialogo ponendo domande, relazionandosi cioè al malato come a un essere simbolico e di linguaggio, una persona mossa da un’intenzionalità, che è la capacità umana di attribuire senso alla vita. Accoglie la volontà del lebbroso e la fa sua riprendendo alla lettera le sue parole (“Se vuoi, puoi purificarmi!”; “Lo voglio, sii purificato!”: Mc 1,40-41 e par.); al cieco Bartimeo domanda: “Che cosa vuoi che io faccia per te?” (Mc 10,51; Lc 18,41)… Le guarigioni avvengono sempre in un contesto dialogico e relazionale. Gesù si apre alla libertà della persona che ha davanti e, quando il malato è impossibilitato a esprimersi, egli si rivolge ai famigliari o a coloro che sono legati al malato da un rapporto d’amore. Gesù ascolta la loro sofferenza, il loro desiderio: è così con la madre della bambina tormentata dal demonio (cf. Mc 7,24-30; Mt 15,21-18), con il padre del ragazzo epilettico (cf. Mc 9,14-27 e par.), con il centurione che lo supplica per la guarigione del suo servo (cf. Mt 8,5-13; Lc 7,1-9)…

Nei suoi incontri con i malati Gesù fa appello alle risorse interiori della persona che ha di fronte: e così la guarigione, quando si verifica, avviene sempre in un quadro relazionale in cui Gesù desta e fa sorgere la fede della persona, cioè la sua capacità di fiducia e affidamento, la sua volontà di vita. Ciò avviene sia nei confronti dei malati sia nei confronti dei discepoli che Gesù chiama a condividere la sua autorevolezza (exousía: Mc 6,7 e par.) e la sua potenza (dýnamis: Lc 9,1): quando li invia a curare i malati, Gesù non chiede loro di agire con poteri taumaturgici, miracolosi, bensì di avere fede-fiducia profonda nei confronti della vita. Avere fede-fiducia è decisivo sia per chi cura sia per chi è curato: per l’uno, perché tutto il suo atteggiamento sia impregnato di fiducia; per l’altro, perché la fiducia possa portarlo a voler vivere, a scegliere sempre di nuovo la vita.

Se è vero che “la fede nasce dall’ascolto” (Rm 10,17), Gesù ha mostrato la verità di questa affermazione a livello antropologico: con la sua pratica di umanità è stato capace di risvegliare l’umanità di ogni essere umano, tra cui anche i malati, ascoltandoli, ponendo in loro fiducia e valorizzando la loro fiducia. Solo avvicinandoci all’altro, a ogni altro, nel modo insegnatoci da Gesù, anche noi potremo vivere un incontro ospitale, un dialogo all’insegna della gratuità e teso alla comunione. E così giungeremo a fare spazio non solo all’altro che vediamo davanti a noi, ma all’Altro per eccellenza, Dio, che allora entrerà in dialogo con noi.