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giovedì 8 settembre 2016

Quell'atto di libertà chiamato martirio di Enzo Bianchi

Quell'atto di libertà 
chiamato martirio
di Enzo Bianchi



Martire è da sempre un termine dai molteplici significati.Nella storia dell’umanità ci sono stati e ci sono molti paradigmi di martirio, anche se di fatto la chiesa ha elaborato un «canone» per il discernimento del martirio e di chi lo ha vissuto. La forma originaria del martirio cristiano è quella che ci giunge dai primi tre secoli della nostra era, attraverso gli Acta martyrum: forma ispirata da Stefano nel Nuovo Testamento e poi da Policarpo di Smirne, Ignazio di Antiochia e i martiri vittime dell'impero romano. Essa presenta il cristiano che, come miles Christi, «soldato di Cristo», muore per il suo Signore, condividendone la passione di fronte al potere politico e alla polis pagana, fornendo una professione di fede pubblica, restando saldo e paziente durante l'esecuzione capitale e arrivando a perdonare i persecutori.

Eppure ben presto a questi martiri uccisi “in odium fidei”, per odio della fede da loro professata, vennero accostati coloro che erano perseguitati e uccisi per il semplice fatto di essere cristiani, senza dare loro nemmeno la possibilità di rinnegare o meno il loro credo. Nella storia del cristianesimo questo “martirio” collettivo è avvenuto raramente nell’antichità, mentre a partire dal genocidio degli armeni sono attestati con frequenza massacri, esecuzioni di gruppi di cristiani, uomini donne e bambini uccisi per il solo fatto di essere una minoranza diversa per fede rispetto alla religione dominante: in India, in Nigeria, in Mediorienmte, in Vietnam, in Sudan… È quello che papa Francesco – con riferimento ai cristiani, non gli unici ma oggi i più numerosi tra le vittime – chiama l’ecumenismo del sangue, perché la persecuzione in questi casi non fa distinzione tra cattolici, ortodossi o protestanti, ma colpisce famiglie, villaggi, intere regioni solo perché i loro abitanti sono cristiani.

Nell’epoca delle guerre di religione in Europa abbiamo tragicamente avuto come “martiri” dei cristiani uccisi da altri cristiani in nome della diversa confessione di appartenenza. Questo scandaloso paradosso si è ripetuto nel secolo scorso ed è vivo ancora oggi in alcune aree del mondo con una variante “etica”: cristiani uccisi a motivo della loro condotta in nome del vangelo. Si pensi a molti difensori dei poveri e degli oppressi, come il vescovo Oscar Romero in Salvador, a resistenti contro i tiranni, come Dietrich Bonhoeffer nella Germania nazista, o a vittime della mafia, come don Pino Puglisi. In questo senso il il martire non sceglie la morte, ma un modo di vivere, quello di Gesù”, sceglie un comportamento ispirato al Vangelo, una faticosa ricerca della sequela cristiana, una difesa dei poveri e degli oppressi, un’opposizione ai potenti di questo mondo, non certo un’eclatante affermazione di sé.

Vi sono poi persone che affrontano quello che viene chiamato “martirio” in modalità non sempre conciliabili con la definizione cristiana: è definito, per esempio, “martire della libertà” o “della giustizia” anche chi è caduto in combattimento, magari dopo aver inferto la morte ad alcuni avversari, oppure persone che si sono date volontariamente la morte, senza però infliggerla agli altri, in nome di un ideale o come forma estrema di protesta: il giovane Ian Palach che si diede fuoco in piazza durante la repressione sovietica della “primavera di Praga”, il repubblicano irlandese Bobby Sanders che spinge il suo sciopero della fame fino a morirne per ottenere dal governo britannico la qualifica di detenuti politici e non di delinquenti comuni per sé e per i suoi compagni di lotta, o ancora i monaci tibetani che affidano al loro corpo in fiamme l’ultimo grido contro l’annientamento del loro popolo, della loro cultura e della loro religione ad opera del potere americano in Vietnam e, più recentemente, di quello cinese in Tibet.

Ma “martire” – della carità o della generosità o della solidarietà – viene definito anche chi si offre di morire per fermare una carneficina ancora più cruenta o al posto di persone altrettanto innocenti: si pensi al carabiniere Salvo D’Acquisto di fronte all’indiscriminata repressione nazista o al francescano Massimiliano Kolbe che nel lager di Auschwitz cerca di salvare un padre di famiglia rimpiazzandolo nel bunker della fame.

Infine c’è l’accezione, oggi così frequente, che ha più pesantemente pervertito il senso della parola “martire”: quella usata da un certo integralismo religioso presente nel mondo islamico per definire gli attentatori suicidi, quelli che fanno della propria morte lo strumento dell’uccisione di anonimi innocenti e di nemici o presunti tali. Persone e gesti che, anche concettualmente, sono agli antipodi del “martire”: se questi è qualcuno che dimostra come solo chi ha una ragione per morire può anche avere una ragione per vivere, il “kamikaze” – come oggi viene definito l’attentatore suicida, impropriamente perché nella tradizione giapponese indica altro – sovente è una persona che non ha ragioni per vivere e alla quale l’ideologia folle fondamentalista e qualcuno ha inculcato una ragione per morire, soprattutto uccidendo altri avvinto in una spirale di odio che sa solo seminare violenza.

Non possiamo dimenticare il monito di Benedetto XVI a Ratisbona, quando richiamò il messaggio della tradizione cristiana: la fede deve sempre essere ottemperata dalla ragione umana, altrimenti degenera in fanatismo e violenza o in superstizione e magia.
Nessuna fede può chiedere ciò che è umanamente contro la ragione: la morte di innocenti in nome di Dio.

Il discepolo di Gesù di Nazareth invece ama la vita e non la disprezza, non cerca il martirio come autoimmolazione e nemmeno come perseguimento di una santità eroica – sarebbe orgoglio diabolico! – ma di fronte all’esplicita richiesta di rinnegare la propria fede con le parole o con azioni contrarie alle esigenze del vangelo, può giungere ad accettare di essere perseguitato e a consegnare la sua vita fino a morire. Il martire cristiano non è un “uomo contro” bensì un “uomo per”, una persona che scegliwe di accettare la mrote in nome dell’amore più grande che quotidianamente vive. A volte le circostanze della persecuzione sono particolarmente aberranti, altre volte il silenzio, l’oblio, la “normalità” avvolgono sofferenze e morte inflitte a motivo della propria fede, ma l’atteggiamento del martire cristiano non muta: chiamato ad amare i nemici, a perdonare i persecutori, sull’esempio di Gesù, fa della morte violenta inflittagli un gesto di vita e di amore, l’unico atto che può spezzare la catena delle vendette. Un gesto di cui magari pochi o nessuno verrà a conoscenza, parole di perdono che non sempre qualcuno saprà ascoltare o tramandare, momenti di angoscia e di dolore lacerante che nessuno saprà lenire, ma anche attimi di grandezza umana e spirituale, raggi di luce nel buio della disumanità. In questo senso il martire non sceglie la morte, non desidera la gloria del martirio, ma decide di vivere fino all’estremo la vita e ciò che dà senso alla vita: l’amore per gli altri.