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sabato 16 maggio 2015

A come amore - Se il Vangelo ci parla d’amore di Enzo Bianchi

A come amore.
Se il Vangelo ci parla d’amore
 di Enzo Bianchi



Partendo da quattro parabole evangeliche, Enzo Bianchi svela all’uomo incredulo della nostra era l’attualità della buona novella cristiana. 
Lo fa nel suo ultimo libro «Raccontare l’amore» (Rizzoli).

Ecco un estratto


Gesù sta compiendo il suo viaggio dalla Galilea verso Gerusalemme, dove vivrà le sue ultime ore prima della passione e della crocifissione. [...] Durante questo viaggio è raggiunto da notizie di cronaca riguardo a fatti accaduti in quei giorni. C’è stata una rivolta da parte di alcuni galilei, e la polizia di Pilato l’ha repressa nel sangue; è caduta la torre di Siloe, e diciotto persone che erano nelle vicinanze sono state uccise (cfr. Lc 13,1.4).

Di fronte a queste «disgrazie», i religiosi di quel tempo (di ogni tempo?) pensavano subito al castigo di Dio e dunque giudicavano le vittime di quegli eventi quali colpevoli di peccato: al peccato deve corrispondere il castigo, il castigo è una pena e solo così la giustizia di Dio può regnare.


Il castigo

Sollecitato da queste notizie, Gesù interviene per dire una semplice verità: non è vero che dietro un evento luttuoso vi sia il peccato, la colpa di qualcuno. Dio non è perverso e «spione», così da scrutare e cercare chi pecca per castigarlo; Dio, qui sulla terra, non castiga né condanna nessuno. Quanto a Gesù, nel suo comportamento attraverso il quale vuole narrare Dio (cfr. Gv 1,18), non condanna (cfr. Gv 8,11) né tanto meno castiga. Mai e poi mai.

La libertà

Se così avvenisse, l’uomo non sarebbe più nello spazio della libertà e dell’obbedienza, ma sarebbe costretto con la violenza da Dio a evitare il male. Certo, questa era un’immagine perversa di Dio, ma gli uomini religiosi la custodivano e la predicavano, anche perché, sentendosi ministri di Dio, si ritenevano in tal modo autorizzati a condannare e a castigare. 
Gesù invece, venuto a consegnarci un altro volto di Dio, se condanna, condanna il peccato, non il peccatore, e in ogni caso, come tutti i profeti, rimanda la possibilità del castigo di Dio al giudizio finale, all’aldilà della morte. Egli infatti sa bene che ogni peccato che l’uomo compie, essendo male, ha in sé una potenza mortifera e già qui, nella vita, causa il male di chi lo compie. È una verità elementare: chi sceglie di fare il male, vive nel male, e il male gli impedisce di vedere e di beneficiare di tutto ciò che è bene. Dio non interviene né deve intervenire. Gesù dunque avverte: le vittime della violenza di Pilato, le persone schiacciate dal crollo della torre non erano più colpevoli di quelle che sono sfuggite a tali disgrazie. Ma resta vero che, se non c’è conversione, mutamento di mentalità e di vita, se non c’è un ritorno a Dio, allora nel giudizio ci sarà perdizione per tutti (cfr. Lc 13,2-5). Qui sulla terra il male colpisce giusti (se mai ci possono essere!) e ingiusti, innocenti e peccatori, ma ciò che è decisivo è il giudizio di Dio, che guarderà alla conversione. Questo significa il monito di Gesù, ripetuto due volte: «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,3.5).
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A come amore. Se il Vangelo ci parla d’amore