Benvenuto a chiunque è alla "ricerca di senso nel quotidiano"



venerdì 31 gennaio 2014

A lezione di scioltezza dal Papa e dai Vescovi, quando non hanno paura di mostrarsi nella loro umanità e anzi ne sono felici.

A lezione di scioltezza
Dal Papa e dai Vescovi, 
quando non hanno paura 
di mostrarsi nella loro umanità 
e anzi ne sono felici.

di Gian Carlo Olcuire

Un'amica mi ha segnalato i due video della scorsa GMG di Rio, che contengono un flashmob (letteralmente folla lampo), cioè una convocazione rapida di molte persone in un luogo, per qualcosa da fare insieme (per lo più una danza). Il flashmob è dunque un evento improvvisato, preparato in un attimo, che richiede solo voglia di mettersi in gioco e un minimo di agilità.

La prova del flashmob per Papa Francesco la sera della veglia

La realizzazione del flashmob la mattina prima della Messa

La cosa più bella da vedere sono i vescovi che giocano, ricordando d'essere un corpo. Non restano distanti, ingessati, ieratici come Cardinalidi Manzù, paludati in paramenti che al massimo facevano intravedere una mano. E stanno allo scherzo, scanzonati, con la leggerezza delle Lezioni americane di Italo Calvino: non quella della piuma in balia del vento ma la scioltezza dell'atleta. Mostrando, tra l'altro, d'aver fatto proprio l'invito - rivolto da Papa Francesco ai giovani - a non balconear, cioè a non "stare sul balcone a guardare la vita scorrere", a non assistere senza partecipare, a buttarsi nella mischia.

Non ha paura, il Vescovo di Roma, di una perdita di portamento. Nel fare cose umane - come andare in metropolitana, raccogliere uno zucchetto, pagare il conto, portare una borsa - e nel riconoscersi peccatore.
La sua scioltezza - oltre che sul fisico - si ripercuote sul linguaggio. Come quando sa inventare metafore ardite. Anche qui, senza temere il ridicolo.
O come quando ha presentato la Misericordina, la scatoletta contenente un rosario, che fa bene al cuore: ha giocato con la parola, pur di far passare meglio un significato. E persino quando ha spiegato il proprio motto (Miserando atque eligendo) ha giocato, usando il linguaggio come strumento in grado di piegare le parole: «Il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano sia in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando».

C'è da augurarsi che questa capacità di non sacralizzare le parole dia frutti nella traduzione della Bibbia, magari cambiando qualche termine arcaico che non ha più ragion d'essere ma che si ha il terrore di toccare. Manco fosse stato detto da Gesù in quel modo. Forse smetteremo di chiamare prodigo il figliolo della parabola, se oggi prodigo viene inteso come "generoso" - non come "sprecone, dissipatore" - e se prodigarsi è un verbo dei volontari. E nel Padre Nostro riusciremo a rendere più comprensibili espressioni come «Rimetti a noi i nostri debiti...» e «Non ci indurre in tentazione».

Pregare nella propria lingua capendo ciò che si dice, non è un abbassamento o una perdita di rango. Tanto più per il fatto che le lingue sono vive e ricche, non volgari e incapaci di elevarsi solo perché usate ogni giorno... Se ridiamo valore alla fisicità, riapprezziamo anche quella della nostra lingua, senza sentire il bisogno di una lingua metafisica, ufficiale, nel ruolo dell'abito da cerimonia...

Insomma rendiamo grazie al Papa e ai Vescovi quando smentiscono col proprio corpo l'immagine di una Chiesa rigida, suggerendo l'idea di una Chiesa che vuol essere leggera. Anche nel dare il perdono, che non può essere un macigno pesante quanto il peccato, altrimenti il peccatore mica si rialza.
(fonte: Vino Nuovo)