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giovedì 10 ottobre 2013

La tragedia di Lampedusa: la parola alle donne (seconda parte)

Bisognerebbe fare silenzio dopo simili tragedie. Bisognerebbe lasciare da parte polemiche e litigi che non sono di nessun aiuto ai superstiti di questa tragedia. Bisognerebbe tacere, anche se sappiamo che anche di fronte a questo dramma alcuni hanno violato quello che è sacro in ogni cultura: il rispetto dei morti. Ma questo è il segnale inquietante dell’imbarbarimento che avanza...
Dobbiamo riappropriarci della nostra capacità di agire insieme, solo così si potrà incidere, solo così si avrà la forza di chiedere nuove leggi più umane, più giuste… Se non faremo questo, in un futuro prossimo, toccherà ai Paesi ricchi, sprofondare nel mare della solitudine, del rimorso… Siamo ancora in tempo… Siamo ancora in tempo per ridare a noi, a loro, all’umanità l’opportunità di vivere.
La ministra Cécile Kyenge domenica è andata a Lampedusa, ricordando a se stessa e a tutti noi come ci si possa sentire, davanti a tali tragedie, deboli e impotenti… come si possa avvertire sulle proprie spalle, davanti a un numero sempre crescente di morti, un peso troppo grande. Ha chiesto preghiere per riuscire a trovare soluzioni a eventi che si superano ormai con il solo buonismo. Oggi dobbiamo sentire sulle nostre spalle e sul nostro cuore il peso di questi morti. L’immigrazione non è una sciagura, immigrare, cioè attraversare e abitare il mondo, è un diritto fondamentale della persona umana, e non ci sarà nessuna legge che potrà sopprimere questo diritto; immigrare è l’ ultima l’alternativa che una persona ha per garantire a se stessa e all’umanità di sopravvivere.
La domanda è un’altra: per quale ragione un numero così grande di giovani lascia il proprio Paese. Perché tante persone sfidano ogni sorta di pericolo e abbandonano terra, affetti, legami? Perché? Perché intere generazioni finiscono in fondo al mare? Perché? Dobbiamo risalire a monte di questa tragedia. È il grido che si alza e che non può rimanere inascoltato.

Una strage di donne. Dei 155 superstiti 145 sono uomini. E i quattro bambini superstiti tutti sono maschi: sono solo sei le donne sopravvissute alla strage di Lampedusa di giovedì notte. Una disparità che sgomenta e che potrebbe divaricarsi ancora, dato che i sub scesi a perlustrare il relitto e il fondo del mare dicono di aver visto i cadaveri in faccia (senza poterli recuperare per le difficoltà create dal mare) e per quanto intuito raccontano di aver visto soprattutto donne e ragazzi...
Una sorte di genere dunque. La morte sul barcone pendeva sulle donne e su molti ragazzi. Ora molte di loro giacciono sul fondo del mare, o nei sacchi neri di Lampedusa. A salvarsi sono state soltanto in sei di cui due incinte. Ma potevano essere cinque. Una di loro infatti era stata inserita in uno di quei sacchi in fila sul molo e catalogata come cadavere...

Sapete quanto ha fruttato agli armatori il viaggio “della speranza” del barcone affondato ? Si parla di un milione di dollari e più, ed il calcolo è presto fatto, se si pensa che ognuno dei 450 passeggeri abbia dovuto pagare dai 2000 ai 2.500 dollari a testa. Duemila dollari: il costo per morire.
Chi è sopravvissuto si trova ora in condizioni disumane in un centro di prima accoglienza a Lampedusa e , a nulla è valso il défilé di politici nazionali ed internazionali per cambiare questo stato di cose, nemmeno lo stanziamento di ulteriori fondi promessi ieri dal Presidente dell’UE Barroso. Nessuno ha la bacchetta magica per sciogliere un problema trascurato per anni. E’ stato chiesto un’infinità di volte di risolverlo una volta per tutte, ma le suppliche dalle associazioni per i diritti umani, sono rimaste inascoltate.
Ci è voluta la tragedia di Lampedusa, i suoi morti, per svegliare le coscienze, per ricordare ai potenti della terra che anche gli ultimi esistono, che il loro diritto alla vita, una vita degna di essere chiamata tale, non è diverso da quello degli altri... 
Nell’“hangar della morte”, come lo chiama la stampa, le trecentodue bare sono diligentemente allineate, come se volessero quasi scusare lo scempio, l’orrore. Spiccano le bare bianche, richiamano lo sguardo, accendono la rabbia, il dolore anche in coloro che fino a ieri non hanno fatto nulla per evitare una tragedia di tali dimensioni. Una cosa accomuna tutte le bare, sia bianche che nere: un numero al posto del nome. Mi ricorda i morti dei Lager: numeri, non persone e morire senza nome è come morire due volte.
Un sub racconta di aver trovato all’interno del relitto dei corpi abbracciati. Sì, morire non è cosa facile. Affrontare questo ultimo viaggio con l’amico e/o una persona cara accanto, che compie gli ultimi respiri con te, da quel conforto che la vita non ha saputo darti.

L'avevano ripescata nelle acque blu dell'Isola dei Conigli e per loro era ormai morta. Kebrat, invece, ha aperto gli occhi all'improvviso sulla banchina del porto di Lampedusa, quando già l'ultimo soccorritore aveva decretato che non c'era più nulla da fare per lei e aveva adagiato il suo corpo accanto ai cadaveri dei suoi compagni di viaggio. E invece lei ha vomitato acqua e nafta, ha annaspato col respiro, ha pianto e ha gridato "help". Fino a quando l'hanno sentita e si sono accorti che era ancora viva.
A qualcuno tra i soccorritori, questa ragazza eritrea di 24 anni, era apparsa incinta: come se in quella vita improvvisamente ritrovata se ne celasse un'altra. Solo quando in ospedale, a Palermo, dove è arrivata trasportata dall'elisoccorso le è stata fatta una ecografia si è scoperto che Kebrat non aspetta un bambino. 
Stesa sulla barella che viene spinta di corsa verso la rianimazione Kebrat ripete con le lacrime agli occhi: "Ok, ok" e mostra da sotto il lenzuolo la mano sinistra con il pollice in su. Trema e i medici non la lasciano un attimo da sola. La confortano. Non è per niente tutto a posto. La prognosi è riservata per le gravi lesioni chimiche ai polmoni. Prima di entrare nel reparto di rianimazione, Kebrat riesce a rispondere ad alcune domande da dietro la mascherina dell'ossigeno con il suo inglese stentato...

Massimo Gramellini racconta la storia di Kebrat a "Che tempo che fa"...

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Tra i corpi una puerpera con il figlio appena partorito
Cosa si può dire per raccontare la storia di una madre e del figlio che ha appena partorito, annegati quand'erano ancora uniti dal cordone ombelicale?
Sembra non aver fine il dolore, l'orrore, che emerge dalle acque di Lampedusa. Pietro Bartolo, il medico che da una settimana segue infaticabilmente le ispezioni dei cadaveri, ha reso nota una storia semplice. E incredibile, sacra. Il mistero della vita donata e perduta, nello stesso momento.
"Con ogni probabilità - analizza il medico - è stato un parto prematuro dovuto al terrore della donna durante l'incendio. Il bambino è nato ma purtroppo è deceduto subito dopo annegando insieme alla povera madre". I due corpi sono rimasti vicini, sistemati nella stessa bara. (fonte: Avvenire)

Vedi anche i nostri post precedenti: